Stati Uniti, 2008. C’era una volta un’ondata di entusiasmo ambientalista. Si era sollevata durante la campagna elettorale di Barack Obama, poi accolto alla Casa Bianca come il presidente ‘più verde’ della storia del paese. La sua visione coniugava il rispetto della natura secondo criteri extra-economici, con il pragmatismo imprenditoriale d’ordinanza, che vedeva nell’economia verde lo strumento che avrebbe salvato, insieme, la capra affamata dalla crisi economica e i cavoli del pianeta, in crescente emergenza ambientale.

Quell’ondata verde, dopo meno di due anni di mandato presidenziale, è in piena risacca. Nessuna significativa legge di tutela ambientale, molte parole ma pochi fatti sulle rinnovabili, un discusso rilancio del nucleare. E Barack Obama, quasi in un contrappasso nel quale sconta colpe non solo sue, è stato a sua volta sommerso dall’onda nera del petrolio, di marca BP, sversato nel Golfo del Messico. Proporzioni a parte, un evento tutt’altro che imprevedibile, una ‘catastrofe’ ambientale che merita come poche volte questo appellativo. E che ha afflosciato ulteriormente l’indice di popolarità del presidente, già minato da altre controversie.

Eppure, prima e più che nello scempio delle coste della Louisiana, è nel ventre della politica americana, fra le aule parlamentari e gli uffici delle lobby, che si consuma la fine o almeno la sospensione delle speranze ambientaliste made in Usa. Da oltre un anno giacciono presso il parlamento bozze di una legge quadro sulle politiche ecologiste, il climate bill che Obama desiderava. Come termine ultimo per la promulgazione si era immaginato dicembre dello scorso anno, in tempo per consentire agli Stati Uniti di arrivare alla conferenza Onu sul clima di Copenhagen con una posizione seria e definita sulla questione delle emissioni di gas serra. Ma la legge è stata fatta a pezzi dalle resistenze repubblicane, oltre che dai mercanteggiamenti delle lobby contrapposte di sostenitori del nucleare, degli idrocarburi e delle rinnovabili.

Oggi, trascorsi altri nove mesi, è chiaro che quella legge non vedrà mai la luce.

A novembre si terranno le elezioni di medio termine statunitensi e l’inerzia è tutta a favore dei repubblicani, ostili a regolamentazioni in materia ambientale. Gli stessi ‘campaigners‘ ambientalisti americani disperano di vedere approvata prima della fine del mandato di Obama (inizio 2013) una qualsiasi legge di limitazione delle emissioni di gas serra. Troppe le resistenze e i tatticismi della galassia conservatrice (e di alcuni democratici tiepidi), che da diversi mesi ha ripreso vigore.

Così sono le stesse lobby ambientaliste ad avere rimodulato i propri obiettivi: anziché lottare per il climate bill hanno stabilito di dedicarsi a un insieme di iniziative più circoscritte. Così, mentre si smobilita ‘Clean Energy Works’, un gruppo di lobbying che riuniva 80 associazioni in favore della legge quadro sul clima, pochi giorni fa una coalizione di 19 gruppi, guidati dal National Resources Defence Council, ha lanciato una nuova campagna per l’introduzione di standard più elevati di efficienza per i carburanti delle automobili. In concreto, le associazioni chiedono di elevare tale livello dalle 35 miglia per gallone di carburante, previste dalla legge per il 2016, ai 60 mpg per il 2025. Il risultato dovrebbe essere un calo del 6% delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli attuali.

Iniziative come questa hanno il pregio di apparire nel complesso meno impegnative e ideologiche presso la politica e l’opinione pubblica, facendo salvo l’obiettivo finale di rendere l’aria più respirabile. Ma sono anche il segno dell’appeal calante delle proposte ecologiste e di una nuova oscillazione del pendolo della politica americana verso i conservatori e i gruppi di potere consolidatisi nell’era Bush. Del resto questo riflusso non può davvero sorprendere, come testimoniano i rapporti di forza dei diversi gruppi di pressione.

Il lobbysmo negli Stati Uniti è un’attività in una certa misura esplicita e regolamentata, con tanto di registri ufficiali dei partecipanti al grande gioco del condizionamento politico. Questi registri mostrano come nel 2009 le lobby di supporto al petrolio e al gas abbiano speso otto volte tanto i gruppi di pressione ambientalisti. Questi ultimi avevano investito 22,4 milioni di dollari, una cifra record, due volte più grande di quanto speso complessivamente fra il 2000 e il 2008, motivata proprio dalle speranze suscitate dalla presidenza Obama e dalla convinzione di potere finalmente ottenere una legge sul clima.

Speranze frustrate, anche a fronte dei 175 milioni di euro spesi per lobbying dai gruppi contrari alla definizione di un limite legale per le emissioni. La ExxonMobil da sola ha speso 5 milioni più dei gruppi ambientalisti, ma in questi elenchi ritroviamo anche la BP, che nel 2009 ha investito 16 milioni per oliare certi ingranaggi del Congresso e del governo federale.

Barack Obama conosce benissimo questi rapporti di forza. Quando in passato ha provato a premere per le due importanti riforme che ha messo a segno finora, quella del sistema sanitario e le nuove regole per banche e finanza dello scorso luglio, ha dovuto allentare la tensione su altri punti del suo programma. Il consenso di un’opinione pubblica esposta a un mare di spot (altro strumento dei gruppi di pressione) contrari alla riforma sanitaria, e l’appoggio di diversi parlamentari tentennanti, sono stati ottenuti anche attraverso un atteggiamento più moderato su altri fronti. In altre parole, la legge sul clima è stata in parte sacrificata alla riforma sanitaria. Un lassismo calcolato, in una nazione meno progressista di quanto si fosse immaginato nel 2008.

E del resto l’iniziativa politica di Obama rischia di essere definitivamente compressa da novembre in poi. Le elezioni di medio termine potrebbero consegnare ai repubblicani la camera dei rappresentanti, e forse anche il senato. In questo scenario Obama, che fino a ieri ha dovuto sempre faticare per mettere insieme esigue maggioranze, rischia di vedersi chiusa la porta a qualsiasi progetto riformista di ampio respiro. Una paralisi che potrebbe persino rivelarsi una fortuna per le sue possibilità di rielezione fra due anni, ma certamente una pessima eventualità per l’ambiente.

Dunque il presidente più verde della storia – costretto persino a sforbiciare i fondi per l’ambiente a causa delle ristrettezze del bilancio pubblico – rischia di doversi ri-orientare sulla stessa strategia dei gruppi di lobbying ambientale: puntare a iniziative circoscritte e di scarsa presa emotiva. O addirittura di doversi mettere nella scia di qualche emergenza ambientale, come accaduto con l’incidente del Golfo del Messico, pur di infilare qualche norma per la tutela ambientale. Ma oggi, nel paese che resta il principale inquinatore pro-capite del mondo, le speranze verdi di due anni fa sembrano davvero sbiadire.

Fonte: Il Cambiamento

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