Non so quando è successo, se ci sia stato un giorno esatto o se piuttosto sia sempre andata così, ma a un certo punto molti – me compreso – si sono sentiti stranieri nella propria terra. Non un granché, va detto, come sensazione. Membri immusoniti e incarogniti – quindi quasi mai fotogenici – di una minoranza trascurabile. A volte colta, talora esecrabile, spesso snob. Sempre pleonastica. Mai capace, ora perché impossibilita e ora in quanto pigra o poco organizzata, di cambiare veramente le cose. Sconfitta da una maggioranza inamovibile, che coltiva tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie: immarcescibile come una malattia; come una sfortuna; più che altro, come un’anestesia (cit).

Non so quanto fossero ampie le cloache, proprio qui, sotto i nostri piedi malfermi, ma certo contenevano un bel mondo. Variegato, disincantato. Ministri, portaborse, lacchè. Opinionisti malsani, giornalisti carnivori, sbarbine fuori tempo massimo. Una lunga carrellata di personaggi improponibili: ovunque, tranne qui. Specchio di un paese che merita questo governo. Perché lo desidera. Perché ci si specchia. Perché gli piace. Non so chi sia stato a cantare – eppure mi pareva di conoscerlo – che non si sentiva italiano, ma per fortuna o purtroppo lo era. Ho però il timore, ieri come oggi, che il Purtroppo avesse più frecce nell’arco del Per Fortuna.

Non so quando non mi è bastato più un Mondiale di calcio per sentirmi appartenente al mio paese. Quando non è più stato sufficiente definirsi di sinistra per sentirsi nel Giusto. Quando troppe anime candide della mia parte teorica mi sono sembrate null’altro che queruli polli di allevamento. Utili idioti, senza sapere di essere né l’uno né (soprattutto) l’altro. Non so quando ho avuto, io come tanti, la precisa sensazione di essere diverso e certamente solo. Incapace di sopportare il buon senso comune, ma neanche la retorica del pazzo; il non aver più voglia di assurde compressioni, ma nemmeno di liberarmi a cazzo; il non volere più velleitarie mescolanze con nessuno, senza però per questo sposare la legge dilagante del fatti i cazzi tuoi (re-cit).

Non so quando mi sono reso conto che quasi tutti quelli che stimavo, erano morti (ho detto quasi: c’è un limite anche all’apocalittismo). Mai, o quasi mai, per loro stessa mano. Sempre, o quasi sempre, per mano altrui – e non divina. Mai gentile. Mai pienamente individuata. Misteriosa, nascosta: mano da archiviare, sfuocata. Senza impronte digitali. Non so nemmeno perché non mi abbiano munito del cromosoma-cronaca-nera. E sì che farebbe pure comodo. Magari vincerei un viaggio premio ad Avetrana, weekend lungo con camera vista cimitero. Che poi, se anche lo vincessi, finirei noiosamente col pensare ad altre vittime. Probabilmente allungherei la strada e farei cento passi in più, per omaggiare i Peppino, i Giovanni, i Paolo. Oppure tornerei indietro, salendo giù al Nord, tremando una volta di più di fronte alle ultime foto dei Federico e degli Stefano. Dei troppi morti ammazzati tra l’indifferenza, o lo sghignazzo, generale.

Non so quindi, tutto considerato e centrifugato, se sia assolutorio ritenere Silvio Berlusconi l’unico colpevole di questo sfacelo politico, umano, morale. O se piuttosto, parafrasando Indro Montanelli, non sia lui a rappresentare al meglio il peggio degli italiani. L’italiano qualunque, che non ha mai letto un libro, che ancora chiama froci i gay, che non sa cosa sia il bunga bunga ma vorrebbe comunque provarlo, perché intuisce – in base ai propri algoritmi elementari – che ha a che fare col sesso, i night, la fica (uh). L’italiano vorrei-ma-non-posso, lamentoso a parole e servo nei fatti, ossequioso del potente, che sprizza ignoranza da ogni fetido poro della pelle. Incline alla comicità assolutoria, allergico alla satira che vorrebbe aprir le menti (e con esse gli occhi). Pettegolo e bigotto. Instancabile nel correre in soccorso del vincitore, geneticamente proteso verso il Culto della Furbizia. Dell’evasione fiscale, della battuta maschilista, della xenofobia a casaccio. Del qualunquismo bolso. Del martufellismo greve. Dell’ebbrezza natalizia per un peto lanciato a caso dal De Sica sbagliato.

So bene – almeno questo – che è tutto edito. Già detto, già scritto. Molto meglio di me. Ma c’è forse una simbologia, invero nefasta, se nel trentacinquennale della scomparsa di Pier Paolo Pasolini, il Premier esala l’ennesima battuta imbecille. «Meglio appassionati di belle donne che gay». In qualsiasi altra parte del mondo, per molto meno sarebbero scesi in piazza. Da noi anche questa perla arrederà il ricettario dell’Elisir di Bunga Vita.

Breve riassunto politico del Paese: Mussolini, Craxi, Berlusconi. Ovvero un dittatore improponibile; l’espressione peggiore della sinistra riformista; e – ora – la caricatura tragicomica del cummenda. La pietra tombale sull’Italia. Tutti a riderci dietro (ma ormai pure davanti). Tutti, perfino l’Egitto (o forse era il Marocco, chi lo sa). Tutti a chiederci come cavolo facciamo a resistere, dopo le leggi ad personam, gli spifferi mafiosi, gli stallieri di Arcore, i Lodi AlNano, i Ghedini da strapazzo, le escort, la scuola Diaz, la scuola in generale, la mattanza Bolzaneto, i Minchiolini, i Littorifeltri, i Belpietro, i Bertolaso, i Lunardi, l’amico Putin, l’amico Gheddafi, l’amica Santadechè.

Quintali e quintali di liquame, e noi (cioè loro) lì: a ingoiare. Compiaciuti. Disinvolti. A loro agio, come nel salotto di casa. Non so quando è successo, ma c’è stato un momento – preciso – in cui siamo caduti così in basso che perfino Filippofacci è sembrato un giornalista. Fabiofazio uno di sinistra. Berlusconi un liberista. Calderoli un antigolpista. E’ stato un momento in cui l’unica salvezza dell’Italia è stata smettere di essere italiani. O – chissà – ricominciare daccapo. Stavolta sul serio.

Forse non è un caso che scriva questa quasi-invettiva nel giorno dei Morti. Forse il governo cadrà, forse no. Nel frattempo, è già caduta l’Italia. Con gli italiani a bordo. E a fondo ci vanno anche quelli che non c’entrano nulla; che ne avrebbero le palle piene di pagare per mancanze altrui; che nel loro piccolo s’incazzano, vestendosi di viola o d’indignazione. Così pateticamente utopici da credere tuttora nella speranza. Così demodè da coltivare ancora – cantava sempre qualcuno – la superstizione della democrazia.

P.S. Chiedo scusa per questo Criminoso così odiosamente serio. Prometto che, la prossima volta, racconterò di quella volta che organizzai un Bunga Bunga sadomaso con la Ravetto, Maurizio Lupi e Luigi Amicone (quest’ultimo nella parte delle manette).

(Andrea Scanzi, “Autopsia di un popolo – quasi-invettiva desolata”, dal blog “Il Criminoso” su “Micromega” on line, 2 novembre 2010, http://scanzi-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/).

Fonte: Libre

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