Io – La parola cohousing cosa vuol dire e a che punto del vostro percorso è entrata nel progetto?

Luca – Noi abbiamo incontrato la parola cohousing dopo, nel senso che il gruppo si era già formato, non aveva ancora individuato il lotto, stava ragionando su queste cose e ha visto delle affinità nella parola cohousing. È scattata innanzi tutto la curiosità di conoscenza: di vedere e confrontare altre esperienze. Direi però che immediatamente è scattata anche la differenziazione, nel senso che cohousing oggi mi sembra una parola ormai generica, perché abbiamo visto che dentro ci sta di tutto, fino alle joint venture di alcune imprese milanesi in forma radical chic che presentano offerte con piscina e simili cose. Non so se l’hai visto, c’è un trafiletto nell’ultimo Venerdì di Repubblica che parlava dei gruppi di acquisto, dei distretti di economia solidale e anche del cohousing definendoli elitari e chic, allora ci siamo domandati se per caso noi siamo tipi chic.

Fulvia – Sono poi critiche molto sciocche nel senso che è diverso dire elitario e dire di minoranza. Che sia di minoranza non c’è dubbio ma dire elitario è tutta un’altra cosa.

Luca – E aggiungerci chic secondo me è un’altra cosa ancora. Non ci han messo radical se non altro. E poi c’è tutta l’esperienza nordeuropea che nasce però in un contesto sociale ed economico-sociale diverso dal nostro, dove c’è spesso l’intervento pubblico e il cohousing è legato a grossi agglomerati urbani con grossi interventi di quartiere. Noi abbiamo una versione molto più artigianale, più autocostruita dal basso, anche se – così mi sembra dai confronti avuti – molto più a 360 gradi, più integrale.

Fulvia – In tutto ciò non è trascurabile il fatto che il costo finale è basso per una casa oltre tutto con un’ampia autosufficienza energetica. Costerà 2000 euro a mq, prezzo assolutamente irraggiungibile in altre situazioni.

Luca – Forse la denominazione che più ci rappresenta è ‘condominio solidale’. Ci piace di più come concetto, perché solidale col territorio, tra di noi: spicca più l’aspetto relazionale.

Lucio – Io non so se il cohousing diventerà un businnes, una moda o quant’altro ma, per quanto riguarda il nostro, è nato da un bisogno concreto, reale, dal basso di persone che si sono incontrate, però crescendo e riflettendo. È nato anche attraverso persone che hanno come logica, come idea quella di una politica che parte dal basso, cioè non un: “tu hai bisogno di questo” che viene calato dall’alto ma un interrogarsi: “noi di cosa abbiam bisogno?”.

Similmente allo spirito iniziale dei GAS: noi vogliamo un prodotto buono che non costi un’esagerazione, che garantisca sia il produttore che chi lavora per il produttore e noi di un giusto rapporto qualità/prezzo. Siamo noi che ce lo andiamo a cercare. Andiamo dal fornitore, facciamo un patto con lui, andiamo dal contadino, facciamo un patto con lui, eccetera.

Luca – Facciamo anche un patto tra di noi da un certo punto di vista.

Fabio – Certo: un gruppo di persone che si guardano in faccia e condividono questo obiettivo. E lo stesso è stato con la casa. Perché cosa vuol dire abitare in un palazzo anche completamente autonomo? Non vuol dire niente se non parti dalle relazioni con le persone. È così che l’abitare diventa una scelta che ha dei contenuti dentro. Una scelta di… di vita, se vuoi.

Luca – Io credo che il nostro massimo comun denominatore sia questo discorso del patto fra noi inteso come: “insieme è più facile raggiungere dei risultati che non da soli”. Credo che alla fine sia questo che ci accomuna: l’aver tutti quest’ottica. Ovvero, se insieme condividiamo delle capacità, delle relazioni, dei denari e tutto quanto, alla fine riusciamo a star meglio tutti. Dunque il concetto di bene comune, che va a toccare in questo caso una sfera abbastanza intima come quella della casa. È un patto innanzitutto di fiducia, che provoca secondo me ulteriori patti di fiducia.

Per esempio il primo patto di fiducia, in senso cronologico, che abbiamo avuto è stato quando con questo ‘pacchettino’ che avevamo nella testa si è trattato di fare il passo concreto. Allora abbiamo vagliato alcuni operatori locali e una cooperativa ha avuto la disponibilità a intraprendere questo cammino con noi. Ci hanno sbloccati su un problema che con altre realtà non so come avremmo potuto risolvere. Ovvero, come faccio io a sapere quanto costa realmente un edificio così particolare se non ho un progetto? E come faccio a progettare finché non ho un lotto presente, finché non ho le caratteristiche e tutto quanto? Ma non ho le persone che aderiscono al progetto finché non ho i costi, per cui il problema si mordeva la coda.

La cooperativa ha detto: “io ho fiducia in voi. Secondo me voi siete persone che in un modo o nell’altro in questa faccenda ci vogliono giocare e allora io pago il progetto; se va a buon fine rientra tutto, se non va allora questo progetto lo ricicliamo”. Quindi ha disinnescato un problema circolare che rendeva difficile partire.

Una volta incontrata la cooperativa con questa disponibilità ci sono state offerte due o tre alternative sui lotti, abbiamo scelto abbastanza rapidamente e poi siamo entrati nella fase operativa. Avevamo alle spalle il gruppo più o meno formato, che a questo punto si è proprio definito nella lista delle persone, perché di fronte al luogo tutti han detto sì o no a ragion veduta. Si sono potute formulare le richieste in maniera molto precisa e abbiamo cominciato a lavorare sugli spazi concreti, sulla disposizione eccetera.

È stato a questo punto che abbiamo fatto alcune scelte che in un condominio da mercato non si fanno mai. Una per esempio è stata quella della tipologia edilizia a ballatoio, per risparmiare vani scala e per poter avere più flessibilità nel rispondere alle esigenze dei singoli. Perché io a questo punto avevo tanti appartamenti tutti diversi e assemblarli non era semplice.

Lucio – Dai 60 ai 130 mq.

Luca – Sì, e poi tutti diversi tra loro. E allora l’idea di fare il ballatoio ha consentito di metterli insieme. Se io oggi proponessi a un imprenditore il ballatoio, mi guarderebbe stralunato: perché c’è poca introspezione, per mille cose strane. Poi salterebbe fuori il problema della sicurezza.

Io – Cos’è l’introspezione?

Luca – La privacy. Se il ballatoio è comune chi transita passa davanti alle finestre degli altri.

Io – Questa è invece una cosa che voi volete.

Luca – Noi la vogliamo. L’interazione per noi è positiva. Certo non dev’essere invasiva. Però tutti abbiam detto: se questo è il problema! Anzi, secondo noi è virtuoso il fatto di poter passare e salutare l’altro e vedere se ha bisogno. Questa per esempio è una cosa che a me come progettista abituato a fare dell’altro ha colpito.

Un’altra scelta fatta dall’assemblea è stata quella di non avere le autorimesse ma uno spazio separato che consente al traffico meccanizzato di non interferire mai con quello pedonale all’interno del lotto e fa sì che tutto intorno a casa ci sia il verde. Quando invece noi facciamo le autorimesse sotto obblighiamo tutto intorno ad asfaltare per potervi accedere. In questo modo limitiamo invece la pavimentazione a un’area più modesta e all’aperto, con delle pergole. L’auto avrà così qualcosa sopra la testa giusto per proteggerla però nel contempo tutti abbiam detto che sotto gli appartamenti preferivamo dei depositi, dei laboratori che normalmente un condominio normale non dà perché dà l’autorimessa e al più una cantinola che magari è un metro per un metro.

Fulvia – L’appartamento al pianterreno, quello della nostra amica con la figlia con l’handicap è l’unico con la stradina che giunge vicino alla casa, per una sua specifica richiesta in modo da avere tutto sott’occhio mentre porta le borse dall’auto alla casa. Continua…

Fonte: Il Cambiamento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *