La Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che le vendite di videogiochi violenti a minorenni non possono essere vietate. Ma perché molti giovani trascorrono così tanto tempo in compagnia di desolanti videogames, in cui regnano l’orrore e la violenza, da cui ricavano persino un malsano senso di gratificazione? Una valida spiegazione può essere trovata nel principio fondante della nostra società, quello della crescita continua che confonde bellezza e bruttezza, scontro e relazione.

Vaghi senza una meta precisa in un labirinto apparentemente interminabile di stanze dalle pareti bianche. Nel centro di molte fra esse c’è una barella (bianca) sulla quale giace una forma allungata interamente ricoperta da un lenzuolo (bianco). Ogni parete è provvista di una porta (bianca) attraversata la quale ti ritrovi in una stanza ossessivamente identica alla precedente. Ogni tanto accade che una delle porte si spalanca improvvisamente e appare un uomo vestito non sapresti dire se con un impermeabile o camice (bianco) che ti punta addosso un fucile (nero). Devi sparare prima di lui o sei finito. Vai avanti così, in una corsa senza fine lasciandoti dietro una serie altrettanto infinita di cadaveri.

Sei il sognatore di un incubo da ambulatorio psicanalitico? No, sei il protagonista di un videogioco. Lo vidi giocare interminabilmente su un computer portatile a un ragazzo seduto accanto a me durante un lungo viaggio in treno e non dimenticai, più delle desolanti immagini che scorrevano sul monitor, il suo viso inespressivo, i movimenti meccanici delle mani sulla tastiera, i suoi occhi da ipnotizzato.

Ti muovi in un paesaggio grigio fatto di macerie e devastazione, dominato da un cielo incombente color rosso sangue. L’unico segno di vita è una colonna di carri armati che avanza lenta, pesante fra i muri in frantumi. Una voce più tetra del paesaggio ti dice: “la tua città è stata distrutta, la tua casa non esiste più, la tua famiglia è stata sterminata, non ti resta più nulla, vivi solo per la vendetta”. È l’inizio di un altro videogioco. Cosa ci aspetta nel seguito possiamo immaginarlo.

Vivi in una desolata periferia urbana, fra casermoni squallidi e cumuli di spazzatura. Sei affiliato a una banda di giovani teppisti; le tue giornate sono divise fra risse con le bande rivali, furti d’auto, fughe dalla polizia. Oppure ti ritrovi in una stazione spaziale dove domina la più claustrofobica oscurità, invasa da mostri extraterrestri al cui confronto le più orride caricature di Bossi sembrano ritratti della Fata Turchina, dediti ad attività che ti fanno apparire ciò che accade in un mattatoio industriale come la più perfetta realizzazione degli ideali nonviolenti.

Oppure sei un detective che dà la caccia a un truculento serial killer di bambini, dovendo in più fare i conti con un certo numero di problemucci personali: la tua famiglia si è disfatta, sei diventato un tossicomane, forse sei anche malato non ricordo se di leucemia o non so cosa. Buon divertimento.

Sapevo poco o nulla sui videogiochi quando mi fu chiesto di fare su di essi un intervento in un liceo romano. Ero convinto che i rifiuti culturali più tossici fossero quelli vomitati dalla televisione; mi ci volle poco a cambiare idea. Mi trovai immerso in un mondo incredibile i cui valori estetici sono lo squallore e la desolazione, la cui logica è il conflitto come stato naturale dell’esistenza, la cui etica è la violenza più gratuita e sfrenata, in cui il tuo valore si misura nelle cataste di cadaveri che sai accumulare, nei fiumi di sangue che sai far scorrere, nelle infamie che sai collezionare. Scoprii che in questo mondo allucinante una gran quantità di giovani e, addirittura, bambini, trascorre una parte non trascurabile del proprio tempo e che ne ricava un malsano, tenace, senso di gratificazione.

Negli anni seguenti archiviai l’esperienza nel cestino dei rifiuti non riciclabili e non volli più pensarci. Non inseguii i videogiochi ma furono loro a inseguire me. Lavoro in una università, per l’esattezza in una facoltà di Lettere. Se pensate a una tale facoltà come a un luogo in cui si entra in contatto con l’arte di Leopardi e Proust, col pensiero di Adorno e Platone, sì, qualcosa c’è ancora. Ma soprattutto una facoltà di Lettere oggi è un luogo in cui si insegnano tecniche pubblicitarie e di marketing, “sociologia” del turismo e “cultura” della moda. E infine videogiochi.

Mi ritrovai alle prese con un tale insegnamento proprio nell’aula informatica che gestisco. A tenerlo è un ragazzetto dalla faccia pulita, dall’aria quasi timida, la perfetta incarnazione del mito piccolo borghese del ragazzo perbene. Ma se pensate che sia un sociologo, che affronti l’argomento dal punto di vista delle problematiche sociali, didattiche, psicologiche e di costume che solleva, vi sbagliate. È un dipendente dell’industria dei videogiochi, assunto probabilmente dall’università a contratto, e il suo compito è insegnare come confezionare un videogioco di successo, un videogioco commercialmente ‘maturo’.

E quando un videogioco si dice ‘maturo’? Quando – e qui cito testualmente le parole che egli pronunciò durante una delle sue, seguitissime, lezioni – “è basato sul sesso o sulla violenza, lo è in modo estremo ed è moralmente ambiguo tanto da generare reazioni critiche che attirino l’attenzione su di esso. Il solo limite è l’accettabilità da parte del mercato”.

Non so se il preside o il consiglio di facoltà siano a conoscenza dei reali contenuti di queste lezioni, non l’ho mai chiesto, anche perché temo di conoscere la risposta. La subordinazione sistematica e acritica dei programmi di insegnamento universitari alla volontà dell’industria è cosa di vecchia data ed ormai generalizzata.

Ma qui più che sulla degenerazione dell’istituzione universitaria è sul mondo dei videogiochi che mi interessa riflettere. I videogiochi come il più efficace vettore di quell’estetica della desolazione, di quella sensibilità necrofila che i mass media sembrano da lungo tempo ormai voler inculcare nelle masse ‘consumatrici’. Il più efficace perché è quello che più d’ogni altro attua un processo di immersione del ‘giocatore’ nella realtà fittizia rappresentata. Nel più coinvolgente dei prodotti cinematografici o televisivi lo spettatore rimane tale, nel videogioco è il protagonista, è in prima persona parte di quel mondo. Cosa può esserci di più efficace?

Ma perché la desolazione, la violenza, la necrofilia, spesso il puro orrore? L’esatto opposto di tutto ciò che verrebbe naturale associare alla parola ‘divertimento’ e che in una persona che voglio qui definire ‘sana’, ovvero attratta da valori vitali, ci aspetteremmo generare una reazione di angoscia e repulsione? E perché situazioni basate sulla frenesia dell’azione, in cui non serve pensare ma solo ‘avere riflessi pronti’ ovvero capacità di attivare automatismi senza il concorso dell’analisi critica? Qual è insomma la funzione di simili sollecitazioni mediatiche nella formazione del costume sociale di una società industrializzata?

Una buona spiegazione può venire partendo dal principio fondante di tali società, quello della crescita continua. Una società della crescita è una società per definizione invasiva e deve dunque fare dell’aggressività un valore. I valori etici di solidarietà e rispetto/ascolto dell’altro conducono a uno stato di pace ma la pace implica la stasi dunque una tale società deve sopprimere dal proprio costume sociale ogni etica che non sia quella del conflitto permanente. Essa è inoltre una società della desolazione perché nel suo gonfiarsi calpesta e sterilizza ogni cosa attorno a sé.

Il senso del bello deve dunque essere bandito, lo squallore deve essere percepito come lo stato naturale delle cose. L’individuo inoltre deve reagire in maniera elementare ed automatica a stimoli elementari – orientati tipicamente all’acquisto acritico di un prodotto – dunque deve essere assuefatto a stimoli la reazione ai quali richiede l’attivazione di automatismi, non di analisi razionali.

Credo sia questa oggi la funzione sociale dei videogiochi (e dei media in generale, s’intende): un addestramento quotidiano del perfetto signor Rossi consumatore della società della crescita, un individuo che percepisce lo squallore come bellezza, lo scontro come relazione, la morte come intrattenimento, l’azione senza pensieri come presenza nel mondo.

Gli studenti del ragazzo perbene trasfigurato in docente universitario sono sulla buona strada.

Fonte: Il Cambiamento

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