Delle svariate crisi che hanno colpito l’economia italiana negli ultimi tre anni, una di quelle più consistenti e durature, difficili da smaltire, è la cosiddetta ‘crisi del mattone’, la recessione che ha interessato e interessa ancora oggi il mercato dell’edilizia e della locazione immobiliare. Questo perché, a conti fatti, tale settore è quello che nelle ultime decadi è stato sottoposto più intensamente allo stress costruttivo, al fuori giri produttivistico tipico del sistema di sviluppo moderno e occidentale.

Per quanto riguarda il nostro paese, emerge un dato su tutti: l’urbanizzazione del territorio, secondo Legambiente, procede al considerevole ritmo di 500 chilometri quadrati all’anno che vengono convertiti in urbano, sui quali cioè si costruisce. Tralasciando in questa sede le ricadute sulla salute del pianeta e dei suoi abitanti che questa pratica comporta, ci concentreremo su una breve analisi del mercato immobiliare per capire come mai, nonostante si costruisca tanto, i grafici di questo settore puntino tutti verso il basso.

Vediamo anzitutto qualche numero. Reduce da un picco nell’anno 2006, l’immobiliare ha accusato una flessione quando le prime ondate della crisi americana sono arrivate in Europa. Nel corso dell’anno passato, come evidenziano i dati di Nomisma, le compravendite sono inizialmente aumentate per poi diminuire e chiudere il 2010 con un bilancio negativo. Particolarmente grave è una voce di questo dato, riferito al mercato generale, che è quella che prende in considerazione il residenziale, che ovviamente dal punto di vista sociale rappresenta l’aspetto più importante, quello che dovrebbe garantire un tetto alle famiglie: il calo registrato è del 4,1% e il numero complessivo di transazioni è stato il più basso degli ultimi sette anni. Questo vuole sostanzialmente dire che chi ha la bisogno di una casa fa sempre più fatica a portarne a termine l’acquisto.

Un’ulteriore aggravante è rappresentata dai prezzi che in maniera quasi paradossale, nonostante l’aumento dei tassi d’interesse e la stretta al credito che hanno messo in ulteriore difficoltà gli acquirenti, non accennano a diminuire. La differenza fra la domanda e l’offerta è mediamente del 10% e le conseguenze sono un indebitamento più difficile da sopportare e un prolungamento dei tempi di compravendita, che sono praticamente raddoppiati passando dai 3-4 mesi ai 6 mesi. Come spesso accade, è questa un’anomalia tutta italiana, dato che sin dal 2006 e a maggior ragione dopo l’inizio della crisi, negli altri paesi europei i prezzi hanno cominciato a scendere.

Come conferma anche la federazione dei mediatori immobiliari, i primi a fare le spese di questa situazione sono i soggetti appartenenti alle fasce più deboli: single e giovani coppie che, non disponendo della liquidità per procedere all’acquisto in contanti, devono accendere un mutuo. L’attenzione e il rigore con cui le banche concedono prestiti e finanziamenti fanno il resto: se prima la rata poteva arrivare a costituire fino a un terzo dello stipendio, oggi è impossibile che essa superi il quarto, senza contare che anche piccole macchie nel curriculum di mutuatario, come una rata saltata, precludono ora irrimediabilmente l’accesso al credito.

Il problema è che la maggior parte delle persone colpite da queste ristrettezze è costituita proprio da coloro per le quali la casa è una necessità, come coppie desiderose di metter su una famiglia o giovani che vogliono abbandonare la casa dei genitori. Le prospettive future non sono incoraggianti e c’è chi prevede che la ripresa non inizierà prima del 2013, in netta controtendenza con chi invece, in malafede o per colpa di un marchiano errore di valutazione, come il presidente di un grosso gruppo immobiliare, nel 2008 aveva testualmente profetizzato che “la crisi dei mutui subprime è qualcosa che non ci riguarda, è un problema finanziario estero che non ha nulla a che fare con il nostro mercato. Ripeto, è la congiuntura che ha inciso”.

L’aumento dei tassi di interesse, le difficoltà di accesso al credito, i prezzi che rimangono inaccessibili stanno quindi congelando il mercato immobiliare. Ma perché allora si è continuato a costruire? Come abbiamo visto, il tasso di urbanizzazione e di costruzione del nuovo rimangono abbastanza elevati e d’altra parte basta girare per le prime periferie delle nostre città per rendersi conto della foga con la quale si ‘tirano su’ interi quartieri. Bisogna però dire che, un po’ in ritardo rispetto ad altri settori, anche l’edilizia ha cominciato ad accusare una robusta flessione: secondo il CRESME il calo è stato del 6,6% nel 2010, con una punta del 16% nel comparto residenziale.

Che si sia costruito troppo negli anni precedenti, salvo poi accorgersi che le condizioni economiche dei compratori e l’andamento generale del mercato non erano in linea con l’offerta? Questa ipotesi non sembra campata in aria e, pur non eguagliando la paradossale situazione delle città fantasma cinesi di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, il quadro che si prospetta è caratterizzato da un lato da un’intera classe di lavoratori – gli operatori edili – che dopo essere stata eccessivamente occupata per degli anni si ritrova oggi con le mani in mano, dall’altro da ettari ed ettari di residenziale sfitti o invenduti, poiché frutto di un calcolo errato e al centro di un mercato in cui domanda e offerta non riescono a incontrarsi.

Il direttore del CRESME aggiunge un’importante variabile, che potrebbe rappresentare una delle chiavi di volta della discussione sul problema immobiliare: “A tenere in piedi il mercato delle costruzioni nel settore residenziale – ha spiegato – è l’attività di riqualificazione, cresciuta del 2,2% nel 2010 e del 2% nel 2011”. L’idea è quindi opposta rispetto a quella che ha ispirato la politica costruttiva italiana degli ultimi decenni: recuperare, riqualificare, restaurare, prediligere l’esistente piuttosto che edificare nuove costruzioni.

Il ragionamento non è sballato, anzi, come confermato dal Censimento del 2001, è la strategia migliore per correggere un’altra stortura che caratterizza il nostro paese, ovvero quello delle abitazioni non occupate, pari al 20,66%. Certamente in questo computo vanno inseriti anche gli immobili di nuova costruzione invenduti, ma buona parte di quel quinto del totale è rappresentata dal patrimonio edilizio italiano, vasto e di qualità, che viene oggi trascurato e lasciato degradare.

È opportuno sottolineare anche che non corrisponde al vero che dal punto di vista dell’efficienza energetica e della riqualificazione strutturale restauro e nuovo sono imparagonabili: anche intervenendo su un immobile già edificato si possono raggiungere risultati sotto il profilo dell’isolamento, dei consumi e delle prestazioni di tutto rispetto.

Insomma, il contesto è differente ma la traccia è sempre la stessa: il problema si crea per via di uno sfruttamento eccessivo e indiscriminato di una risorsa, in questo caso dello spazio, e la conseguenza è il collasso del sistema e dell’equilibrio economico che sostengono tale risorsa. Come in molti altri casi poi, in questo mondo normato dalle regole del consumismo in cui tutto è soggetto a rapida obsolescenza, l’attenzione per ciò che è considerato vecchio è minima e la buona pratica del riutilizzo non viene quasi mai presa in considerazione.

Proprio a questo quadro corrisponde la crisi immobiliare ed edilizia italiana: un’offerta eccessiva, costruttori che non riescono a vendere le troppe case che hanno edificato, acquirenti che non riescono a comprarle per via di una situazione economica e creditizia penalizzante e, sullo sfondo, un enorme patrimonio di case inabitate che aspetta solo di essere riqualificato e occupato.

Fonte: Il Cambiamento

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