I media e le istanze ufficiali ci stanno preparando: molto presto si scatenerà una nuova crisi finanziaria mondiale e sarà peggiore che nel 2008. Si parla apertamente di «catastrofi» e «disastri». Ma che cosa accadrà dopo? Come saranno le nostre vite dopo un crollo su vasta scala delle banche e delle finanze pubbliche? L’Argentina ci è già passata nel 2001. A prezzo di un impoverimento di massa, l’economia di questo paese ha potuto successivamente risalire un po’ la china: ma in quel caso, non si trattava che di un solo paese. Attualmente, tutte le finanze europee e nord-americane rischiano di sprofondare insieme, senza alcun salvatore possibile.

In quale momento il crack delle borse non sarà più una notizia appresa dai media, ma un evento di cui ci si accorgerà uscendo per strada? Risposta: quando il denaro perderà la sua funzione abituale. Sia rarefacendosi (deflazione), sia circolando in quantità enormi ma svalutate (inflazione). In entrambi i casi, la circolazione delle merci e dei servizi rallenterà fino a potersi arrestare totalmente: i loro possessori non troveranno più chi potrà pagarli in denaro, in denaro «valido» che gli permetta, a sua volta, di acquistare altre merci e servizi. Essi terranno quindi per sé quei servizi e quelle merci. Ci saranno magazzini pieni, ma senza clienti; fabbriche in grado di funzionare perfettamente, ma senza nessuno che ci lavori; scuole in cui i professori non si presenteranno più, perché privi di salario da mesi. Allora ci si renderà conto di una verità che era talmente evidente da non essere più vista: non esiste alcuna crisi nella stessa produzione. La produttività aumenta continuamente in tutti i settori. Le superfici coltivabili della terra potrebbero nutrire tutta la popolazione del globo e allo stesso modo le officine e le fabbriche producono molto più di quanto sia necessario, desiderabile e sostenibile. Le miserie del mondo non sono dovute, come durante il Medio Evo, a catastrofi naturali, ma ad una specie di incantesimo che separa gli uomini dai loro prodotti.
 
Quello che non funziona più è l’«interfaccia» che si pone tra gli uomini e ciò che producono: il denaro. Nella modernità, il denaro è diventato il «mediatore universale» (Marx). La crisi ci mette di fronte al paradosso fondativo della società capitalista: in quest’ultima la produzione di beni e servizi non è un fine, ma soltanto un mezzo. Il solo fine è la moltiplicazione del denaro, è investire un euro per riscuoterne due. E quando questo meccanismo va in panne, è l’intera produzione «reale» che soffre e che può anche bloccarsi completamente. Allora, come il Tantalo del mito greco ci troviamo di fronte a ricchezze che si ritraggono proprio quando ci vogliamo mettere sopra le mani: perché non possiamopagarle. Questa rinuncia forzata è sempre stata la sorte del povero. Ma ora, situazione inedita, questa sorte potrebbe toccare all’intera società, o quasi. L’ultima parola del mercato è allora di lasciarci morire di fame in mezzo ad alimenti stipati ovunque e che marciscono, ma che nessuno deve toccare.
 
Ciononostante, quelli che disprezzano il capitalismo finanziario ci assicurano che la finanza, il credito e le borse non sono altro che escrescenze su un corpo economicamente sano. Una volta scoppiata la bolla, avremo turbolenze e fallimenti, ma tutto ciò alla fine non sarà che un salutare salasso, e in seguito si ricomincerà con un’economia reale più solida. Davvero? Oggi, noi otteniamo pressoché tutto pagando. Almeno quella maggioranza della popolazione che vive in città non sarebbe in grado di nutrirsi da sé, né di riscaldarsi, né di illuminarsi, né di curarsi, né di spostarsi. Nemmeno per tre giorni. Se il supermercato, la compagnia di elettricità, il distributore e l’ospedale non accettano che denaro «buono» (per esempio una moneta estera forte, e non i biglietti stampati dalla propria banca nazionale e totalmente svalutati), e se non ce n’è più molto, arriveremo rapidamente alla miseria. Se siamo abbastanza numerosi, e pronti per l’ «insurrezione», possiamo ancora prendere d’assalto il supermercato, o collegarci direttamente alla rete elettrica. Ma quando il supermercato non sarà più approvvigionato e la centrale elettrica si bloccherà perché non potrà pagare i suoi lavoratori e i suoi fornitori, che fare? Si potrebbero organizzare il baratto, nuove forme di solidarietà, scambi diretti: sarebbe anche una bella occasione per rinnovare il «legame sociale». Ma chi può credere che ci si arriverà nel giro di poco tempo e a una larga scala, in mezzo al caos e ai saccheggi? Si andrà in campagna, dicono alcuni, per appropriarsi direttamente delle risorse primarie.
 
Peccato che la Comunità europea abbia pagato per decenni i contadini per tagliare i loro alberi, sradicare le loro vigne, e abbattere il loro bestiame… Dopo il crollo dei paesi dell’Est, milioni di persone sono sopravissute grazie a parenti che vivono in campagna e nei piccoli campi. Chi potrà dire altrettanto per Francia o Germania?
 
Non è certo che si arriverà a simili estremi. Ma anche un crollo parziale del sistema finanziario ci metterà di fronte alle conseguenze del fatto che ci siamo consegnati, piedi e mani legate, al denaro, affidandogli il compito esclusivo di assicurare il funzionamento della società. Il denaro è esistito fin dall’alba della storia, ci si assicura : ma nelle sociètà precapitaliste non giocava che un ruolo marginale. Solo negli ultimi decenni siamo arrivati al punto che quasi tutte le manifestazioni della vita passano per il denaro e che questo si è infiltrato negli angoli più reconditi dell’esistenza individuale e collettiva. Senza il denaro che fa circolare le cose, noi siamo come un corpo senza sangue.
 
Ma il denaro è «reale» solo quando è espressione di un lavoro veramente eseguito e del valore in cui questo lavoro si rappresenta. Il resto del denaro non è che una finzione che si basa sulla sola fiducia reciproca degli attori – una fiducia che può svanire, come si vede attualmente. Assistiamo a un fenomeno non previsto dalla scienza economica: non alla crisi di una moneta, e dell’economia che questa rappresenta, a vantaggio di un’altra, più forte. L’euro, il dollaro e lo yen sono tutti in crisi, e i rari paesi ancora contrassegnati con AAA dalle agenzie di rating non potranno salvare da soli l’economia mondiale. Nessuna delle ricette economiche proposte funziona, da nessuna parte. Il libero mercato funziona tanto poco quanto lo Stato, l’austerità quanto il rilancio, il keynesismo quanto il monetarismo. Il problema va posto ad un livello più profondo. Assistiamo a una svalutazione del denaro in quanto tale, a una perdita del suo ruolo, alla sua obsolescenza. Ma non attraverso una decisione consapevole di una umanità finalmente stanca di quello che già Sofocle chiamava «la più funesta invenzione degli uomini», bensì per effetto di un processo non padroneggiato, caotico ed estremamente pericoloso. É come se si togliesse la sedia a rotelle a qualcuno dopo avergli impedito per lungo tempo l’uso naturale delle sue gambe. Il denaro è il nostro feticcio: un dio che noi stessi abbiamo creato, ma dal quale crediamo di dipendere e al quale siamo pronti a sacrificare tutto pur di placare le sue ire.
Che fare? I venditori di ricette alternative non mancano: economia sociale e solidale, sistemi di scambio locale, demurrage,[1] aiuto reciproco… Nel migliore dei casi tutto ciò potrebbe valere per piccole nicchie, ma anche questo solo finché intorno il resto funziona ancora. Ad ogni modo, una cosa è sicura: non basta «indignarsi» di fronte agli «eccessi» della finanza o all’ «avidità» dei banchieri. Anche se questa è ben reale, non è la causa, ma la conseguenza dell’esaurirsi della dinamica capitalista. La sostituzione del lavoro vivo – la sola fonte del valore, il quale, sotto forma di denaro, è l’unico fine della produzione capitalista – con tecnologie – che non creano valore – ha quasi finito per prosciugare la fonte della produzione di valore. Sviluppando le tecnologie, sotto la pressione della concorrenza, alla lunga il capitalismo ha segato il ramo su cui stava seduto. Questo processo, che fa parte della sua logica di base fin dall’inizio, ha oltrepassato una soglia critica negli utlimi decenni. La non-redditività dell’impiego di capitale ha potuto essere occultata solo con un ricorso sempre più massiccio al credito, che è un consumo anticipato dei guadagni sperati per il futuro. Ora, anche questo prolungamento artificiale della vita del capitale sembra aver esaurito tutte le sue risorse.
 
Si può dunque porre la necessità – ma anche constatare la possibilità, la chance – di uscire dal sistema fondato sul valore e il lavoro astratto, sul denaro e la merce, sul capitale e il salario. Ma un simile salto nell’ignoto fa paura, anche a quelli che non smettono mai di fustigare i crimini dei «capitalisti». Per il momento, ciò che prevale è piuttosto la caccia al cattivo speculatore. Anche se non si può che condividere l’indignazione di fronte ai profitti delle banche, bisogna dire che essa resta ben al di qua di una critica del capitalismo inteso come sistema. Non è affatto stupefacente che Obama e George Soros dicano di comprendere l’indignazione. La verità è ben più tragica: se le banche sprofondano, se falliscono a catena, se cessano di distribuire denaro, noi tutti rischiamo di sprofondare con loro, perché da molto tempo ci è stata sottratta la possibilità di vivere altrimenti che spendendo del denaro. Sarebbe bene riapprenderla – ma chissà a quale «prezzo» questo avverrà!
 
Nessuno può dire onestamente di sapere come organizzare la vita di decine di milioni di persone quando il denaro avrà perduto la sua funzione. Almeno, però, sarebbe bene ammettere il problema. Forse bisogna prepararsi al «dopo-denaro» come al dopo-petrolio.
 
Traduzione a cura di Alessandro Simoncini
Da Literary magazine 

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