Crescita economica e insostenibilità sociale – più propriamente declinata nell’aumento delle diseguaglianze economiche (che sono aumentate esponenzialmente nella maggioranza dei paesi occidentali da trent’anni a questa parte) – rappresentano una delle contrapposizioni più aspre sulle quali misurare l’avanzata del “progresso”.

Il nuovo network Onu sullo sviluppo sostenibile, ormai in dirittura d’arrivo, potrebbe essere un luogo privilegiato per sollevare un confronto ponderato sul tema. Su quale sia la vera natura che lega queste due dimensioni è infatti ancora in corso un ampio dibattito da poter mettere a frutto. Da una parte i tessitori di lodi del trickle-down, quel gocciolamento di benessere che dalla concentrazione di ricchezza al vertice della piramide sociale (da favorire) porterebbe comunque benefici a cascata per tutti gli altri. Dall’altra, coloro che evidenziano come anche ad una fase di crescita economica si possa accompagnare un aumento delle disuguaglianze ed un’ulteriore allargamento della forbice sociale. Tra questi, Joseph Stiglitz (Nella foto), economista premio Nobel, adduce proprio all’aumento della disuguaglianza economica una delle cause più importanti dell’attuale crisi.

«Penso che sia la disuguaglianza che sta causando una bassa crescita», ha osservato Stiglitz. In effetti sembra la spiegazione più convincente della crisi, scaturita nel 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare negli Usa e frutto di un’economia basata sul debito, unico mezzo finanziario utile a soddisfazione di un consumismo rampante. Dunque, è la crescita economica che si porta con sé la promesse di una crescita delle diseguaglianze? Esistono sul tema osservazioni di natura diversa, come mostra Project Syndicate.

Ad esempio Ilyana Kuziemko, economista a Princeton, dà voce autorevole ad un’interpretazione di comune buon senso: quando per l’economia arrivano i tempi duri – e la crescita economica diventa un lontano miraggio – ricerche sperimentali evidenziano come le persone (le più agiate, evidentemente) diventano meno favorevoli a politiche di redistribuzione del reddito. Sondaggi Gallup, ad esempio, mostrano che durante l’attuale recessione, i cittadini Usa favorevoli a politiche che attenuino le diseguaglianze sono passati al 68% al 57%, «nonostante tutta la retorica – e la prova – che l’1% dei percettori di reddito hanno catturato quasi tutti i vantaggi dalla crescita economica degli ultimi anni». Ciò che gli economisti comportamentali chiamano “avversione da ultimo posto”, ossia la perdita di potere economico relativo rispetto al resto della società. Se alle fasi di crescita economica può accompagnarsi una crescita delle disuguaglianze, non sembra quindi che le possibilità di un’inversione di rotta in tempi di magra sia cosa facile.

Queste non sono però una condizioni dalla validità universale. Stiglitz porta l’esempio del Giappone, che ha «sperimentato deflazione per circa 20 anni, ma è riuscito a mantenere un buon livello di uguaglianza e standard di vita». Oppure, Stiglitz cita i sempreverdi paesi scandinavi, che hanno presentano bassi livelli di diseguaglianza e pure «sono tra le economie avanzate che crescono più rapidamente».

Qual è dunque il giusto prisma dal quale ripartire per sciogliere il dilemma? Thomas Piketty, economista della Paris School of Economics, ritiene che dobbiamo avere il coraggio di abbracciare un adattamento psicologico ai nuovi tempi che corrono. Il rallentamento della crescita economica, per i cosiddetti paesi sviluppati (e proprio perché già “sviluppati”), è uno stato da recepire come naturale: «Potremmo aver bisogno di accettare il fatto che tassi di crescita annuale del 4-5% sperimentati negli anni seguenti la Seconda Guerra Mondiale sono stati l’eccezione, e che l’1% – tenendo conto della crescita della popolazione –  rappresenta meglio la norma».

«La nostra ossessione per la crescita – continua Piketty – serve solo come scusa per non agire sul versante della salute, dell’educazione, o circa la redistribuzione (della ricchezza, ndr). Dimentichiamo che la nostra crescita è stata praticamente pari a zero per secoli, e che l’1% di crescita reale significa raddoppiare le dimensioni della nostra economia ogni 30-35 anni». Stando ai semplici limiti fisici del nostro pianeta, non si può inseguire in eterno la crescita materiale: prima ce ne rendiamo conto meglio sarà, tanto per la società quanto per l’ambiente. E anche per la nostra economia, che si libererebbe finalmente di un assillo che sta divenendo un incubo.

di Luca Aterini

Fonte: Greenreport

2 thoughts on “Quando l’ossessione per la crescita economica non fa che aumentare le diseguaglianze”

  1. Buona sera,
    vorrei sapere per quale motivo non la vedo in tv..
    perchè non la invitano al tg delle 20 per spiegare un pochino di cose ai nostri compaesani….
    saluti grazie

    1. Perche la tv è morta, serve solo a fare il lavaggio del cervello agli italiani a vantaggio dei partiti. La mia tv si è rotta anni or sono e ho deciso di farne a meno e informarmi su internet. Chi non prova non può capire il miglioramento!

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