La proposta per un reddito minimo garantito a tutti i cittadini, senza differenze né contropartita, versato dalla nascita alla morte, assume senso solo in seguito a una critica del valore quasi religioso del Lavoro. Pur essendo sempre esistito, il lavoro (in minuscolo, stavolta) è diventato una virtù solo nell’epoca moderna. L’avvento del capitalismo, con l’aiuto della religione cattolica e protestante, ha reso indiscutibili le sue qualità contro il vizio della pigrizia. Lungi dall’essere un’invariante antropologica, il lavoro è oggi difeso a destra come a sinistra, da giornalisti e comici, ricchi e poveri, impiegati e imprenditori, in quanto diritto e vettore di sostentamento, dignità e senso.

Tale mistificazione non si è potuta affermare da sola. Già Weber sottolineava come l’uomo pre-capitalista non desiderasse per natura guadagnare sempre più denaro, ma in genere quanto gli bastava per il necessario. Pagare il doppio i lavoratori li avrebbe spinti alla nefasta volontà di faticare la metà, tuonavano gli industriali. Trovarsi un’occupazione produttiva era ed è tuttavia anche un imperativo morale, da un lato incoraggiato dagli uomini di Chiesa, dall’altro dalla stessa borghesia che ha fatto sua la visione di Smith: il lavoro è la causa della ricchezza, e l’obiettivo di una comunità deve essere quello di crearne sempre di più. Come se non bastasse, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, è stato messo in atto anche un processo d’incitazione al lavoro, di cui si possono individuare almeno tre momenti: l’aumento dei salari, l’abbassamento delle ore di lavoro – da 12 a 8 – e, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, l’istituzionalizzazione della società dei consumi attraverso la creazione di nuovi bisogni. D’altro canto, il pungolo negativo va certamente individuato nella chimera della disoccupazione. Chi perde il lavoro, non perde soltanto un modo di sostentare sé e la propria famiglia, ma anche il legame con la società, la fonte di un ruolo in essa, e di identità e realizzazione personale. Almeno così recita, chi sottostà alla retorica del lavoro – ignorando quanto poco si lavorasse fino al ‘600.

Il sistema dell’insegnamento è sempre più votato alla creazione di professionalità, e chi perde il lavoro spesso si sente realmente sperduto. Il cambiamento valoriale di cui abbiamo bisogno non si limita tuttavia a svelare la mistificazione del valore-lavoro e a restituire merito e dignità alle occupazioni non retribuite, allo svago e ad altri modi di arricchire la società. Necessita altresì di una rifondazione dell’eudemonia postmoderna. L’edonismo contemporaneo si condensa nell’onnipresente frase «Non voglio pensare». L’attitudine cosificante di chi impiega il proprio tempo libero con “divertimenti” effimeri e di dubbio gusto, rinsalda paradossalmente l’accettazione di un impiego insensato e a tempo pieno che lo strappi dal vuoto di una libertà di cui non sa che farsene. Il disoccupato si dispera per il giudizio umiliante che gli riservano gli altri, perché si sente dire che soltanto un impiego retribuito fornisce senso e dignità alla vita. Svuotato di ogni passione o interesse, l’inattivo è schiacciato dal tempo libero: amici e familiari lavorano, mentre la conformazione delle città, sempre più carenti di luoghi votati alla convivialità, non favorisce incontri e scambi umani. Il tempo libero, visto non come un’opportunità, diviene perciò angosciante.

Nondimeno, a ben vedere le qualità del lavoro non sono né sue uniche prerogative, né interamente “positive”. È possibile realizzarsi anche (soprattutto?) in modi non retribuiti, non faticosi, non forzati. È possibile socializzare anche (soprattutto?) fuori dagli ambienti disciplinati di industrie e uffici, dove si è assorti in attività che richiedono concentrazione, rapidità, efficienza, e dove la distensione e la socialità sono punite e scoraggiate. Per di più, non è logico, né tanto meno dignitoso, espletare compiti che possono essere svolti da macchine o abbandonati in quanto socialmente superflui. Alcuni sondaggi svolti in diversi Paesi occidentali svelano percentuali inaspettatamente alte per coloro i quali preferirebbero ridurre gli orari di lavoro, anche a costo di guadagnare meno, a fronte di un guadagno di tempo da riservare alle proprie passioni.

Gran parte del lavoro realizzato oggi non è necessario poiché volto alla produzione di oggetti o servizi non indispensabili. Occorrerebbe una società dove ognuno possa scegliere la propria occupazione, secondo gusti e necessità, e dove il lavoro vantaggioso socialmente possa prendere il sopravvento. Ogni individuo ha a disposizione molteplici forme per partecipare alla comunità, creare ricchezza sociale, realizzarsi e trovare la dignità. Non tutte sono monetizzabili, non tutte aumentano il Pil. Un attacco al valore del lavoro non è un elogio della pigrizia, o non soltanto, ma un invito a rivalorizzare il tempo libero ben speso e a impiegarsi nel lavoro che ognuno preferisce. Gli stratagemmi economici per garantire un reddito di cittadinanza vi sono: è “solo” una questione di volontà politica.

Un reddito universale di cittadinanza, che sia il minimo massimizzato, al di sopra della soglia di povertà stabilito dagli organi statistici ufficiali, e variabile secondo zone e regioni, è quantificabile in 600-1000 € al mese per gli adulti e in 100-400 € per i bambini. La somma necessaria per coprirlo si attesta su alcune centinaia di miliardi di euro. Per ottenerla, le modalità che sono state proposte, in Italia come altrove, sono delle più disparate. Anzitutto il reimpiego del welfare esistente: cassa integrazione, pensioni sociali, pensioni d’invalidità, pensioni d’anzianità, borse di studio per studenti e simili, possono essere eliminate in blocco e sostituite dal reddito di cittadinanza. In secondo luogo, una riforma delle imposte e del sistema di gratuità: ristabilire un’equità attraverso aliquote maggiori per i redditi più fortunati, introdurre una detassazione per i redditi più magri, rendere gratuiti (almeno entro una certa soglia) tutti i bisogni primari quali la sanità, la scuola, l’acqua, l’energia, i trasporti pubblici, la connettività, e per gli alloggi imporre un tetto massimo degli affitti. In terzo luogo, il taglio degli sprechi e delle spese superflue o dannose alla comunità, quali le spese militari, gli stipendi pubblici ipertrofici, le pensioni d’oro, i finanziamenti a pesca e agricoltura (spesso controproducenti), il taglio delle province, l’accorpamento dei comuni. In quarto luogo, il recupero di tasse mai incamerate (i 98 miliardi di euro per le slot machines mai pervenuti all’erario italiano sono un esempio eclatante), la confisca dei beni mafiosi, il rimodernamento delle reti elettriche e di trasporto dell’acqua vittime di enormi sprechi, l’investimento in energie alternative con il sistema del project financing. Infine, un reimpiego dei profitti industriali nella redistribuzione a tutti gli impiegati, magari attraverso degli incentivi alle cooperative.

Da trent’anni i tassi d’impiego diminuiscono senz’arresto per almeno tre fattori: il progresso tecnologico, che rimpiazza operai e manovalanza; la delocalizzazione delle imprese in Paesi con un minor costo del lavoro; il limite naturale delle risorse: in un Pianeta finito, è fisicamente e logicamente impossibile crescere e consumare all’infinito. Se non si vuole incorrere in disordini sociali, rivolte violente, miserie umane e soluzioni autolesionistiche dei singoli individui, la politica non ha a disposizione molte altre alternative per le nostre società, che volenti o nolenti si trovano in transizione verso un’epoca di recessione o stabilizzazione economica permanente.

Più nel dettaglio, quali vantaggi arrecherebbe un reddito di cittadinanza? Per prima cosa, eliminerebbe la povertà, annullerebbe il problema della disoccupazione, contribuirebbe ad abbattere fortemente la criminalità e favorirebbe l’indipendenza economica delle donne. Più indirettamente e gradualmente, ridurrebbe le ineguaglianze e indurrebbe una rivoluzione antropologica attraverso la restituzione di valore a tutto ciò che l’ideologia capitalista ha svalutato, occultato o scoraggiato. Se consideriamo come degna di essere svolta ogni attività che in senso lato arricchisce la comunità, anzitutto ne gioverebbe chi si adopera per gli altri e chi beneficia di tali servigi gratuiti. In questa categoria non rientra certo il collezionista, ma a pieno titolo la casalinga, la nonna baby-sitter, il figlio che accudisce il padre malato, persino lo sportivo che insegna a, e condivide il suo sport con, i meno esperti, così come l’artista o il teatrante che condividono pubblicamente le loro opere o performance. Arricchisce la società tutto ciò che la comunità non giudica nocivo e che crea un qualsiasi bene. E se, come ovvio, rimane un diritto la possibilità di lavorare di più per ottenere un introito maggiore, non ha tuttavia senso costringere chi si accontenta di poco a sacrificare il proprio tempo libero. Altrettanto ingiustificata appare la recriminazione di chi decide di lavorare di essere l’unico a sottostare al patimento della fatica: che scelga allora un’occupazione, magari non retribuita, che lo soddisfi di più. Inoltre, assottigliando o cancellando la produzione e il consumo di prodotti non fondamentali, il reddito di cittadinanza estenderebbe a un maggior numero di persone il compito di produrre merci essenziali, prime fra tutti i mezzi di sussistenza. I Paesi occidentali sono attualmente dipendenti dalle importazioni estere per soddisfare i loro bisogni alimentari, allorché gli impiegati nel settore agricolo sono il 3%, o meno, del totale. Se tutti ricevessero un salario minimo incondizionato, molti sarebbero ben felici di contribuire alla coltivazione della terra, per non più di due o tre ore al giorno, due o tre giorni alla settimana. Ne gioverebbe la qualità del nostro cibo, e forse non soltanto.

Un reddito universale avrebbe ulteriori conseguenze. I lavori faticosi e spiacevoli verrebbero retribuiti correttamente, tornando appetibili non solo agli immigrati – costretti oggi a condizioni di semi-schiavitù. La spontanea diserzione di questo tipo di mansioni sarebbe oltretutto un pretesto per la ricerca scientifica e politica, che s’incaricherebbero di trovare modi diversi per fare le cose di sempre. Certi impieghi potrebbero essere soppressi grazie al progresso tecnologico o alla diffusione dell’autogestione. Si tenderebbe verso strategie a rifiuti zero, o ancora si formerebbero gruppi di cittadini volontari, pronti a coprire a turno proprio quelle funzioni necessarie al corretto funzionamento di una comunità.

Godrebbero di ricadute positive anche l’ambiente e l’economia, intesa nel senso originario come l’insieme delle «regole della casa», o «gestione del patrimonio». Lavorare meno significa consumare meno risorse, diminuire le emissioni di CO2, abbandonare lussi, oggetti e attività ad alto impatto ambientale, e ristabilire un mercato basato sulla legge della domanda e dell’offerta, che faccia riferimento alla cosiddetta “economia reale” e che non sia drogato dai mercati finanziari.

Esistono innumerevoli varianti del reddito di cittadinanza. Se universale, incondizionato e sufficiente, evita la stigmatizzazione di chi lo richiede, risparmia dall’umiliazione dei controlli – la realizzazione dei quali peraltro ha un costo – e garantisce la libertà a ognuno di compiere le proprie scelte: un salario minimo troppo basso costringerebbe i più a cercare un ulteriore impiego e darebbe adito alle imprese di assumere con redditi ancor più magri degli attuali. I difensori di un reddito sufficiente si pongono come obiettivi la giustizia sociale, la libertà di realizzazione di ognuno e la lotta contro l’alienazione del lavoro.

In Italia si parla poco di reddito minimo garantito, persino fra quei movimenti, forze politiche, associazioni, intellettuali che praticano e propugnano una visione alternativa del mondo. Tutti d’accordo sul fatto che occorre rivoluzionare il mondo dell’occupazione, tuttavia non sostengono abbastanza l’istituzione del reddito di cittadinanza come metodo per veicolare questa mutazione valoriale e, più profondamente, una ristrutturazione generale delle società. Nel contesto di Nazioni in cui peraltro la forbice fra ricchissimi e classi medio-basse non cessa d’aumentare, e in cui gli sprechi di denaro pubblico raggiungono percentuali consistenti del Pil, continuare a negare la fattibilità del reddito di cittadinanza non è più credibile né socialmente accettabile.

Nota: Per quanto fiacca ed emendabile, l’attuale proposta di legge d’iniziativa popolare offre una seria base di partenza per proporre politiche di partecipazione alla vita sociale che aggirino la ricompensa salariale. Maggiori informazioni sono disponibili sul sito: http://www.redditogarantito.it/. Banchetti per la raccolta delle firme sono disponibili in tutta Italia: si può aderire fino al 31 dicembre 2012.

(Ringrazio l’amico Davide Gallo Lassere per i suoi preziosi suggerimenti)

di Fabrizio Li Vigni

One thought on “Per un reddito minimo garantito”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *