Vede, Robineau, nella vita non ci sono soluzioni.
Ci sono delle forze in cammino:
bisogna crearle, e le soluzioni verranno
Volo di notte, Antoine de Saint-Exupèry

di Silvia Mantovani

“Il legame tra «tutela del paesaggio» e «progetto della decrescita» può essere molto stretto (intuitivo, persino banale) nella sua accezione fisica: il paesaggio lo si difende innanzitutto facendo un uso rispettoso e accorto del suolo, programmando un «minor consumo del territorio»”, scrive Paolo Cacciari (P.Cacciari, Paesaggio e decrescita, Comunicazione al convegno :“Il tramonto dell’Occidente”, Cagliari 9-11 novembre 2012).

Indubbiamente lo “stop al consumo di territorio” invocato in molte campagne nazionali e locali, e recepito da alcune Amministrazioni, è un ottimo inizio, ma non basta.

Opporsi semplicemente a nuove edificazioni non salverà il paesaggio dall’aggressione degli appetiti economici di molte forme di uso sostenibile del territorio, dalle lobby dell’energia pulita, dall’aggressività della green economy o dagli impatti dei biocarburanti, così come nulla potrà contro l’ignoranza di abitanti e amministratori o contro l’abbandono.

Lo spunto che la Decrescita ci può offrire è forse più ampio, se si va oltre la denuncia dell’insensatezza della crescita fine a se stessa, e si considera la fecondità di un approccio basato sul circolo virtuoso di un insieme di cambiamenti interdipendenti, di cui le “8R” sono i principali pilastri.

Rivalutare, Riconcettualizzare., Ristrutturare, Ridistribuire, Rilocalizzare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, sono concetti che possono essere declinati all’interno di molte discipline, attivando circoli virtuosi capaci di scardinare abitudini abusate, e di contagiare, quindi, anche la pianificazione e la gestione del territorio, aprendo la strada a pratiche di progetto più consapevoli e responsabili.

Se infatti, come sostiene Latouche, il “disastro urbano”, (che è contemporaneamente “un disastro rurale e paesaggistico”), non rappresenta solo un fallimento degli urbanisti, ma è “il risultato di una crisi di civiltà”, è proprio all’interno di quella “civiltà” che vanno trovati gli anticorpi per provare a vivere e ad abitare in modo diverso.

Tra le macerie delle nostre città sta nascendo quella che Pierre Donadieu ha definito la società paesaggista, “che non si accontenta dei luoghi in cui vive, né intende dare per scontato un unico modo di abitare, dettato dalle logiche economiche o dalle convenienze di alcuni (…). Essa continuamente critica gli ordini stabiliti mettendo in discussione forme e modi di abitare, ispirandosi di volta in volta ad alternative ecologiche, estetiche, sociali ed economiche” (Pierre Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, Donzelli, Roma 2006)

Molte infatti sono già le teorie, le pratiche e le realizzazione che, in modo più o meno consapevole, provano a declinare una o più delle “8R” in ambito urbano e territoriale . E’ possibile provare a metterne insieme alcune, anche se forse ancora embrionali, non organiche, diverse per approccio, strumenti, scale, ma ugualmente importanti per iniziare a immaginare quali potrebbero essere i futuri “paesaggi di decrescita”.

1. Rivalutare – Per una urbanistica paesaggista (Rivedere i valori in cui crediamo e in base ai quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che devono esser cambiati. L’altruismo dovrà prevalere sull’egoismo, la cooperazione sulla concorrenza, il piacere del tempo libero sull’ossessione del lavoro, la cura della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, il bello sull’efficiente, il ragionevole sul razionale) Serge Latouche.

La pianificazione ha praticato da sempre quella che Lucien Kroll ha definito la “monocoltura urbana”, in una sorta di autismo disciplinare che ha indirizzato gran parte degli sforzi a plasmare gli abitanti secondo le proprie ideologie, invece che a dare risposte alle domande banali delle persone reali. Tutto è stato normato e deciso dall’alto, dalla quantità di servizi e di verde urbano, alle misure di marciapiedi, porte e scale, avendo in mente il numero degli abitanti e le misure e le necessità di un ipotetico uomo medio.

Una visione meccanicistica in cui ogni elemento (edifici, strade, piazze, alberi, persone) diventa “materiale da costruzione” per l’espansione indefinita della macchina urbana, secondo quelle che Ildefonso Cerdà definiva con orgoglio nella sua Teoria general de la Urbanization, un “insieme di conoscenze, di immutabili principi e di regole fisse”.

All’interno di questa visione antropo-urbanocentrica, inoltre, per decenni il valore dominante è stato quello della cieca fede nella tecnologia e nel progresso, che ci ha relegato all’interno di una città funzionale, rendendoci estranei all’ambiente in cui viviamo. La natura è stata allontanata, declassata a ruolo di semplice fondale, oppure è divenuta territorio di caccia e di conquista, nella presunzione autoreferenziale dell’uomo di essere la specie eletta, il punto culminante dell’evoluzione.

Rivedere i valori significa allora innanzi tutto sostituire a questa monocultura urbanistica una nuova biodiversità, capace di incoraggiare forme nuove, diverse, di abitare, di accogliere i cambiamenti, di stabilire relazioni di cooperazione con altre discipline, di scardinare le dicotomie pieno/vuoto, città/paesaggio, sviluppo/ambiente. Significa promuovere una pianificazione che fa paesaggio.

Si prefigura così la nascita di una urbanistica paesaggista, dove l’ottica è capovolta, il processo del piano invertito: non più un paesaggio da tutelare o da valorizzare, una naturalità da ricreare, un ambiente da difendere, ma paesaggio, natura, ambiente come piano del gioco, il luogo delle relazioni (funzionali, sociali, estetiche, simboliche, …), la scacchiera su cui impostare le regole e le strategie dello sviluppo urbano. Il paesaggio che non solo convive con le trasformazioni territoriali, ma le in-forma, le struttura alle diverse scale.

Non si tratta cioè semplicemente, come molti strumenti di pianificazione hanno teorizzato, di inserire natura, paesaggio, ambiente all’interno del piano, per una conservazione attiva o per uno sviluppo sostenibile, ma di assumerli come condizione imprescindibile senza la quale non esiste piano, non esiste sviluppo, non esiste città.

La dimensione paesistica diventa così il normale substrato della gestione urbana e territoriale: un nuovo (o forse antico) paradigma per ri-organizzare città e società a partire dal paesaggio, nel senso più ampio e trasversale del termine.

Una urbanistica paesaggista che si rivolge alla totalità contestuale , fatta di città e paesaggio, di sviluppo e di ambiente, inaugurando un diverso rapporto di collaborazione, di co-evoluzione, una “nuova alleanza” tra uomo e natura.

2. Riconcettualizzare – Tutto è paesaggio (Modificare il contesto concettuale ed emozionale di una situazione, o il punto di vista secondo cui essa è vissuta, così da mutarne completamente il senso. Questo cambiamento si impone, ad esempio, per i concetti di ricchezza e di povertà e ancor più urgentemente per scarsità e abbondanza) Serge Latouche.

La Convenzione Europea del Paesaggio nel 2000 ha riconosciuto che “il paesaggio é in ogni luogo un elemento importante della qualità della vita delle popolazioni nelle area urbane e nelle campagne, nei territori degradati, come in quelli di grande qualità, nelle zone considerate eccezionali, come in quelle della vita quotidiana”.

Degni di attenzione sono dunque non solo i paesaggi eccezionali, “ricchi” (di fascino, di storia, di valori identitari), ma anche paesaggi ordinari, “poveri” (di bellezza, di risorse, di tutela), quali le periferie degradate, i rifiuti dei processi urbani, gli spazi interclusi, i territori incolti e abbandonati

Già Gilles Clement aveva evidenziato ormai dieci anni fa nel suo elogio del Terzo Paesaggio, l’importanza dei “residui” (aree abbandonate ) e delle “ riserve” (aree non sfruttate), come rifugio per la biodiversità.

Queste aree, spesso trascurate dalla pianificazione, o tutt’al più gestite come un problema, rivendicano oggi un ribaltamento di senso del proprio essere margine, che da sinonimo di degrado e abbandono, assume un nuovo significato di opportunità, che fonda il proprio valore proprio nel fatto di essere vuote, libere, improduttive.

Oggi infatti, sono proprio questi spazi marginali il fondamento sul quale riporre la speranza di una possibile rigenerazione urbana: i vuoti troppo spesso considerati il negativo dei pieni (il cui unico fine era l’attesa di essere al più presto riempiti), diventano risorsa strategica per una inversione di rotta.

Un esempio emblematico di questo tipo di riqualificazione urbana a partire dai lotti in disuso, degradati, “vuoti”, presenti nelle aree centrali delle città, è il progetto “esto-no-es-un-solar” di cui abbiamo già parlato in un precedente post (http://paesaggididecrescita.wordpress.com/2012/08/02/esto_no_es_un_solar-liberare-spazi-abbattendo-preconcetti/).

Un altro esempio interessante riguarda invece il parziale recupero del vecchio eliporto militare “Bonames” di Francoforte sul Meno, costruito alla fine della seconda guerra mondiale dall’esercito degli Stati Uniti. Nel 1994, dopo la dismissione da parte degli Americani, gli edifici sono stati occupati dall’associazione Werkstatt Frankfurt eV , che si occupa del reinserimento dei disoccupati, nel mondo del lavoro.

I terreni circostanti, invece, sono caduti in stato di abbandono, fino a che gli abitanti hanno iniziato lentamente a frequentarli inventandosi nuovi utilizzi, e le piante a colonizzare spontaneamente i luoghi. I quattro ettari e mezzo di superficie asfaltata , sono così diventati meta di ciclisti, pattinatori e appassionati di skate-boarding.

Nel 2003 la municipalità ha così deciso di acquistare i terreni e di procedere alla riqualificazione, avendo però a disposizione un budget molto ridotto. Smantellare tutti gli edifici e gli impianti sarebbe stato troppo costoso, per cui si è optato per un intervento soft, che promuovesse la naturalità del luogo e contemporaneamente mantenesse la memoria storica.

Negli edifici è rimasta l’associazione che li aveva occupati, nella torre di controllo è stato creato un caffè, e un terzo della pista è stata mantenuta per scopi ricreativi.

Il resto della pavimentazione in asfalto e cemento è stata frantumata e lasciata in loco, a creare una superficie irregolare, che ha dato luogo ad un’ampia gamma di habitat diversi per piante e animali che la stanno progressivamente colonizzando. Tutto intorno sono stati piantati alberi che cresceranno ai bordi e all’interno della vecchia pista di atterraggio.

Una assenza, un vuoto, un atto di distruzione diventano qui l’occasione e il primo passo per la costruzione di un nuovo spazio del cambiamento. Il progetto dei paesaggisti tedeschi GTL Landschaftsarchitekten ha vinto numerosi premi, tra cui il “Green GOOD DESIGN Award” (http://www.gtl-duesseldorf.de/index.php/en/alter-flugplatz-frankfurt-am-main-bonames-2#info)

3. Ristrutturare – Paesaggi di prossimità (Adattare in funzione del cambiamento dei valori le strutture economico-produttive, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita) Serge Latouche.

Rapporti di vicinato inesistenti, mancanza di relazioni umane, carenza di spazi comuni sono le qualità che caratterizzano i condomini, i quartieri, l’esistenza nelle nostre metropoli. Nessuno da salutare, nessuno a cui chiedere appoggio, o consiglio, o aiuto nelle emergenze. Insicurezza, estraneità, solitudine, malattia, spreco sono divenuti così i dannosi derivati dell’espansione illimitata delle nostre città “crescenti”.

Qualcuno però si sta organizzando per modificare questi modelli, per ritrovare quei valori che da sempre contraddistinguono l’uomo come animale sociale.

Sono le social streets, luoghi urbani di coesione sociale, che hanno avuto origine dall’esperienza del gruppo facebook dei “Residenti in Via Fondazza – Bologna” iniziata nel settembre 2013.

“L’obiettivo del Social Street – recita il sito – è quello di socializzare con i vicini della propria strada di residenza al fine di instaurare un legame, condividere necessità, scambiarsi professionalità, conoscenze, portare avanti progetti collettivi di interesse comune e trarre quindi tutti i benefici derivanti da una maggiore interazione sociale. Per raggiungere questo obiettivo a costi zero, ovvero senza aprire nuovi siti, o piattaforme, il Social Street utilizza la creazione dei gruppi chiusi di Facebook”.

Le attività all’interno di una social street sono le più varie: dallo scambio di informazioni, al riciclo di oggetti usati che non servono più a qualcuno, ma possono essere utili a qualcun altro, al recupero alimentare contro lo spreco del cibo, allo scambio di professionalità, all’elaborazione di progetti comuni, alla realizzazione di eventi sociali, solo per il piacere di conoscersi e stare insieme, e di recuperare il senso perduto di comunità.

Dalla prima esperienza di Via Fondazza sono passati una manciata di mesi, ma le social street sono diventate già oltre centocinquanta, diffuse in tutta la penisola, e accomunate dalla volontà di superare le barriere fisiche, affidandosi agli strumenti virtuali, partendo dai social network per attivare relazioni sociali reali: un circolo virtuoso che restituisce senso allo spazio pubblico, andandolo a cercare negli interstizi della città costruita, sempre più avara di spazi liberi.

Molte e diverse sono le esperienze attivate, perché il concetto social non rimane astratto, ma si adatta alle tante realtà a cui si applica: dalla creazione di una microeconomia locale, alla progettazione di spazi verdi condivisi, alla realizzazione di servizi e di assistenza sociale su base volontaria.

Là dove l’urbanistica ha creato scarsità (di spazi pubblici, di relazioni, di condivisione) e non è più possibile aspirare a piazze, parchi, giardini, le social street riescono a creare abbondanza, ricavando spazi minimi, paesaggi di prossimità, luoghi e occasioni per ricreare socialità, condivisione e qualità dell’abitare.

CONTINUA…….

Fonte e lettura dell’articolo completo di immagini: Paesaggi di decrescita

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