di Salvatore Settis

Il principio del “silenzio-assenso”, surrettiziamente introdotto dal decreto Sblocca-Italia nella materia urbanistica e paesaggistica, è contrario alla Costituzione e a un’affermata e costante giurisprudenza della Corte Costituzionale. Non è la prima volta che un colpo di mano come questo viene tentato da ministri e governi d’ogni segno politico: perciò è utile, prima di esaminare nel dettaglio qualche articolo di questo neo-decreto renziano imperniato sulla “somma urgenza” di devastare l’Italia, un piccolo flashback. Cominciamo con il dire che l’istituto del silenzio-assenso è stato introdotto nell’ordinamento italiano allo scopo di tutelare il cittadino contro la possibile inefficacia della pubblica amministrazione (legge 241/90). Nel caso che un pubblico ufficiale non risponda alla richiesta di un cittadino entro determinate scadenze, il suo silenzio – questa è l’idea-base – significa in pratica un assenso.

In tal modo si intendeva difendere il cittadino, ma anche stimolare le amministrazioni pubbliche ad esprimersi per tempo, anche per evitare che un irragionevole ritardo nel rispondere “sì” o “no” possa diventare automaticamente un “sì”. Ma questo principio è applicabile all’ambito dei beni culturali e del paesaggio?

La risposta è no, e infatti la legge 241/90 espressamente escludeva che il silenzio-assenso potesse applicarsi “agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico”: lo stesso concetto è stato poi ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Non è, questa, un’esclusione stravagante né un privilegio arbitrario, ma il rispetto di un interesse generale che viene dal cuore della nostra Costituzione, da quell’articolo 9 che si iscrive tra i suoi principi fondamentali: “La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Questa limpida formulazione comporta una conseguenza, resa esplicita dalla Corte Costituzionale in numerose sentenze, a cominciare dalla 151 del 1986: “La primarietà del valore estetico-culturale”, sancita dalla Costituzione, non può in nessun caso essere “subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici”, e anzi dev’essere essa stessa “capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale”.

Se il valore estetico-culturale del patrimonio e la sua centralità nell’ordine degli interessi nazionali vanno intesi come «primari e assoluti» di fronte a qualsiasi tornaconto privato, l’eventuale silenzio di un pubblico ufficio non può mai e poi mai valere come assenso; semmai, qualsiasi temporanea alterazione della naturale gerarchia dev’essere il frutto di un’accurata meditazione e di un’esplicita formulazione, e non di un casuale silenzio.

Ne ha scritto con grande chiarezza un ottimo giurista, Silvio Martuccelli: “La massima secondo la quale ‘chi tace acconsente’ non trova cittadinanza nel sistema giuridico italiano. Nel mondo del diritto non vi sono fatti che di per sé abbiano la caratteristica della giuridicità. Un fatto non è giuridico per sua natura, ma in quanto un legislatore decida di regolarlo. Il silenzio è, dunque, di per sé preso, neutro, adiaforo, indifferente, non significa nulla. Esso non ha alcun significato giuridico. È la legge che dà al silenzio, come fatto, uno specifico significato. È il legislatore che di volta in volta sceglie se e quale significato attribuire al silenzio; e, nel caso di silenzio cosiddetto ‘significativo’, può scegliere tra significati tra loro diversi, anzi diametralmente opposti: tra un significato positivo (c.d. silenzio-assenso) e un significato negativo (c.d. silenzio-diniego o rigetto). Ma la scelta fra differenti, anzi opposte, formulazioni della norma è legata a una differente valutazione degli interessi in conflitto: la norma risolve un conflitto di interessi, ritenendo in astratto, tra gli interessi in conflitto, uno più meritevole di tutela dell’altro. È chiaro dunque che nel primo caso (quello del silenzio-assenso) il legislatore, dinanzi al silenzio della pubblica amministrazione, ritiene più meritevole di tutela l’interesse ad una risposta positiva, mentre nel secondo caso (quello del silenzio-rigetto) ritiene più importanti le ragioni del diniego (id est, l’interesse a conservare il bene culturale)”.

L’assoluta prevalenza del pubblico interesse su quello dei privati cittadini, sancita dalla Costituzione, rende chiaro dunque come mai l’eventuale conflitto fra il desiderio del cittadino di ottenere una risposta positiva alle proprie istanze (per esempio, alla richiesta di un permesso di fabbricazione) e il ritardo nella risposta della pubblica amministrazione non possa mai essere risolto mediante il silenzio-assenso. La funzione nazionale del patrimonio culturale evidenziata dalla Costituzione risponde al “modello Italia” della tutela, secondo cui il territorio nazionale è un inseparabile continuum che include paesaggi, monumenti, città, musei, edifici, quadri, manoscritti, archivi… Questo patrimonio nazionale appartiene alla comunità dei cittadini a titolo di sovranità, proprio come lo stesso territorio dello Stato: per salvaguardarlo degnamente si richiedono dunque speciali garanzie, ed è impensabile che su una materia tanto delicata l’eventuale silenzio o inerzia delle pubbliche amministrazioni possano mai sostituire l’attivo esercizio della tutela. Lo ha espressamente affermato la Corte Costituzionale, tornando ripetutamente sul tema in almeno cinque sentenze: in materia di beni culturali e di paesaggio “il silenzio dell’Amministrazione preposta non può avere valore di assenso” (sentenze numero 26/1996 e 404 del 1997, poi ulteriormente richiamate e ribadite).

Il tentativo di violare la Costituzione estendendo il silenzio-assenso alla materia dei beni culturali e del paesaggio ha una lunga storia. Con riferimento al meccanismo delle possibili alienazioni di beni culturali per le cartolarizzazioni “alla Tremonti”, ci provò nell’ottobre 2003 in fase di redazione del Codice dei Beni Culturali un emendamento presentato dal senatore Tarolli (Udc), ma allora, pur con un governo Berlusconi, il ministro dei Beni Culturali Giuliano Urbani giudicò quell’idea “controproducente e goffa, un autentico autogoal per la maggioranza”, e riuscì a farla cadere. Invano, perché il silenzio-assenso si reinsediò nel Codice nel Consiglio dei ministri del 16 gennaio 2004 (articolo 12, comma 10). Era una vittoria per Tremonti, ma durò poco, perché dopo grandi proteste della Sinistra e dell’opinione pubblica quel comma fu cassato da un altro governo Berlusconi (ministro Buttiglione) con un decreto legislativo di fine legislatura (156/2006).

Nasceva però intanto un’altra applicazione del silenzio-assenso, stavolta in beneficio di chi voglia edificare presentando una Dia (“dichiarazione di inizio attività”), e cioè un’autocertificazione che sostituisce il nullaosta amministrativo. Come si è visto, la legge 537/1993, in ossequio alla Costituzione, escludeva espressamente i beni culturali dall’ambito di applicazione, ma nel febbraio 2005 il ministro della Funzione pubblica del governo Berlusconi, Mario Baccini, contrabbandando il provvedimento come “semplificazione della regolamentazione”, provò a sopprimere l’eccezione: in tal modo, l’intero sistema della tutela non sarebbe stato governato né dalla Costituzione né dalle apposite leggi, bensì da autocertificazioni e dal silenzio-assenso. Anche allora, grande mobilitazione della Sinistra, delle associazioni, dell’opinione pubblica contro quella proposta. E anche allora il governo dovette fare marcia indietro e la legge 80/2005 escluse dal silenzio-assenso “gli atti e i procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico e l’ambiente”, oltre a quelli sulla sicurezza nazionale, la difesa, la sanità.

Ma i mostri sono duri a morire: cambia il governo e il colore politico, ed ecco che nel 2006, nel pieno del II governo Prodi, un altro ministro della Funzione pubblica, Luigi Nicolais, ripresenta tal quale il disegno di legge Baccini: per l’uno e per l’altro, “silenzio-assenso” vuol dire che se la risposta all’autocertificazione di un costruttore non giunge “entro il termine perentorio di 90 giorni dal ricevimento della richiesta”, la richiesta si intende accolta. Anche se comporta la distruzione irreversibile di un’area archeologica o di un paesaggio, lo sventramento di un palazzo barocco, la riconversione di una chiesa medievale in discoteca, l’edificazione di un condominio su una spiaggia protetta. Ma ancora una volta la mobilitazione dell’opinione pubblica indusse il governo a ritirare la norma nefasta.

Con questi precedenti (e non sono nemmeno tutti), che cosa fa il cosiddetto Sblocca-Italia? Rimette in circolo il silenzio-assenso in un contesto ben più aggressivo, quello delineato da Maurizio Lupi (berlusconiano doc ora truccato da Nuovo Centrodestra e approdato al Ministero delle Infrastrutture) per un governo del territorio inteso come “rovesciamento dell’urbanistica, trasferimento di poteri dal pubblico al privato, ingresso formale della rendita immobiliare al tavolo dove si decide, rendendo permanenti le regole della distruzione del Paese avviate con i condoni” (Edoardo Salzano).

L’articolo 6 dello Sblocca-Italia cancella del tutto l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni. L’articolo 25 “semplifica”, cioè di fatto rimuove, ogni autorizzazione per “interventi minori privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso. L’articolo 17, poi, è un inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire convenzionato”, vera e propria “licenza di uccidere” che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali. È il trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da anni.

Ma lo Sblocca-Italia non si ferma qui, e introduce un meccanismo ancor più radicale, sperimentandolo (per cominciare) con la costruzione di nuove linee ferroviarie: l’Ad delle Ferrovie è Commissario straordinario unico, e ogni eventuale dissenso di una Soprintendenza può essere espresso solo aggiungendo “specifiche indicazioni necessarie ai fini dell’assenso”: si afferma così implicitamente che qualsiasi progetto, pur con qualche aggiustamento, deve sempre e comunque passare. E, qualora un Soprintendente particolarmente ostinato dovesse insistere, non tacendo ma anzi esprimendo a tutte lettere il proprio “motivato dissenso per ragioni di tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o della tutela della salute e della pubblica incolumità”, la decisione finale è rimessa all’arbitrio inappellabile dello stesso Commissario (articolo 1). Una sorta di “dissenso- assenso”, insomma, che vanifica il dettato costituzionale, le sentenze della Consulta e lo spirito delle leggi.

A quel che pare, dunque, sarà un governo nominalmente di Centro-sinistra a celebrare, dopo vari tentativi andati a vuoto, il trionfo del silenzio-assenso, trasformandolo da tutela del cittadino contro l’inerzia della pubblica amministrazione in un trucco che cestina un principio fondamentale della Costituzione. C’è ancora tempo per evitare il baratro: ma intanto le eccezioni di incostituzionalità sollevate da alcuni parlamentari (Atti Camera, nr. 2629) sono state respinte dalla maggioranza di governo. Dobbiamo perdonare loro perché non sanno quello che fanno, o sperare che si ravvedano?

Fonte: minima&moralia

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