«I bufali maschi vengono ammazzati, non lo sapevi questo? È uno scandalo e nessuno ne parla. (…) Nel sud, se nascono 30.000 bufali di cui 15.000 sono maschi secondo me di essi ne sopravvivono solo 10 perché i piccoli maschi sono un costo pazzesco negli indici di conversione. (…) Li ho visti io, messi dentro e ammazzati con l’ammoniaca.

Cioè che metodo usano?

Li soffocano. O li sgozzano. Sto pensando anche ai servizi ASL della Campania: sarei curioso di sapere cosa dicono di tutto questo. (…)

Hai detto che non sono remunerativi.

Sì. Il motivo per cui non li allevano è che il bufalo è un animale molto energivoro e questo si vede anche nella produzione di latte. Il bufalo ha un latte che ha una ricchezza in grasso pazzesca, il 7%, che lo rende molto più energetico rispetto al latte di vacca in cui il grasso va dal 3,5 al 4%. In più ha una quota proteica lievemente superiore. A causa di ciò le esigenze di un litro di latte di vacca da un punto di vista energetico sono del 40% in meno di quelle del latte di bufala.»

Mi aveva raccontato questo e altro Sergio poche settimane prima quando ero andato a intervistarlo a casa sua. E anche questa parte del nostro dialogo entrò in Un pianeta a tavola. Adesso stiamo varcando i cancelli del secondo allevamento, quello “diverso”. E l’atmosfera in effetti diversa lo è: un vecchio edificio di pietra, staccionate di legno, tutto un po’ in stile Nonna Papera insomma. Qui si allevano maiali e soprattutto bufali maschi, quelli che altrove fanno la fine che Sergio mi aveva descritto e che qui vengono messi invece all’ingrasso e destinati a una fine più commestibile (che però non necessariamente fa rima con sostenibile).

Cominciamo però dai maiali, se non altro perché il loro recinto è vicino all’ingresso. Sono pochi, hanno a disposizione uno spazio molto ampio e soprattutto si direbbero tranquilli e del tutto indifferenti alla nostra presenza. Una cosa che colpisce tuttavia nello spazio all’interno del recinto è che esso è del tutto spoglio, non un cespuglio o un filo d’erba; un monotono spiazzo di terra fangosa movimentato soltanto da alcuni ripari metallici per le mangiatoie. Ammetto di non sapere molto sull’etologia del maiale tuttavia sappiamo che egli è un parente stretto del cinghiale, dunque un animale dei boschi. Il suo habitat naturale è in altre parole un ambiente ricco e vario dove ogni angolo nasconde una novità, l’esatto opposto insomma di quel vuoto perfetto in cui li vedo qui confinati.

Ci avviciniamo poi al recinto dei bufali mentre il padrone della fattoria ci viene incontro. Sono molto più numerosi dei maiali e la mia prima impressione è che siano troppi in uno spazio troppo stretto. Il bufalo proviene dai grandi spazi dell’Asia e mal si adatta ai piccoli orizzonti in cui lo costringe l’allevamento in un paese come l’Italia, dove di spazio ce n’è ben poco. A differenza dei maiali i bufali non sono indifferenti alla nostra presenza; ci guardano con attenzione, si affollano nel punto del recinto più vicino a noi. Perché? Ho la sensazione che in quegli sguardi così insistenti ci sia una qualche richiesta, ma di cosa non potrei dirlo.

Facciamo rapidamente il giro della fattoria, molto più piccola della precedente ed entriamo infine nel laboratorio per la lavorazione della carne. Qui l’atmosfera alla Nonna Papera svanisce di colpo per lasciare il posto a una gelida estetica da sala operatoria. L’allevatore illustra nei dettagli tutte le operazioni che vi si svolgono poi si comincia ad allargare l’orizzonte del discorso. A un certo punto dice: «Ora stanno demonizzando la zootecnia perché la accusano di essere responsabile del buco dell’ozono». Si, hai letto bene perplesso lettore, dice proprio “del buco dell’ozono”. «No, dell’effetto serra» lo corregge Sergio e l’allevatore passa discretamente ad altri argomenti. Soffermiamoci invece su questa gaffe visto che da alcuni anni, per l’esattezza dopo il rapporto FAO del 2006, è in corso, direi a livello mondiale, una sorta di gigantesca (ed efficace) operazione greenwashing da parte dell’industria zootecnica che ci mette ogni sforzo (mediatico) per dimostrare la sua “verdosità”. Sono tutti “verdi”, ecologisti, ecosostenibili e benemeriti dell’ambiente. Quelli alla Nonna Papera poi, forti del luogo comune (falso, come abbiamo visto dal rapporto FAO) secondo cui sarebbe solo la zootecnia industriale a fare danni, si atteggiano a così verdi che più verde non si può e garantiscono che i veri ecologisti sono loro. Forti di quanta profonda consapevolezza, cultura e preparazione sulle grandi problematiche ambientali del pianeta, lo abbiamo appena visto in una sola frase.

Facciamo ora un salto in avanti nel tempo di alcuni mesi. La prima parte di Un pianeta a tavola è ormai conclusa e sto per completare la ricerca di esperienze di sostenibilità agroalimentare realizzata che concluderà la seconda parte mentre sono già in contatto con Luca Menti, lo psicologo che darà un contributo importante alla terza. Nella mia vana ricerca di esperienze compiute di permacoltura sono giunto alla cascina Santa Brera di Irene di Carpegna, un luogo in bilico fra luci e ombre nei pressi di Melegnano. Delle luci (l’orto in adozione) ho riferito in Un pianeta a tavola; parliamo invece qui un po’ delle ombre. Il dialogo con Irene inizia con un suo ampio monologo durante il quale mi illustra dettagliatamente ogni aspetto della fattoria. I primi 30 minuti li dedica alla produzione animale e solo i successivi 15 a quella vegetale. A questo punto è già chiaro in che direzione è orientato il suo principale interesse e che dunque quel luogo non è ciò che sto cercando. Tuttavia già che sono lì penso che sia il caso di approfondire e a un certo punto domando: «secondo te, producendo come produci tu, ovvero con ampi spazi, colture biologiche, rispetto delle esigenze etologiche degli animali, rifiuto assoluto di qualsiasi metodo intensivo, minima meccanizzazione si riesce a produrre quei 90 Kg di carne all’anno a persona che sono i consumi oggi correnti in Italia?» Non esagero nel dire che la risposta di Irene rappresenta il momento più sconcertante dei tre anni che ho trascorso immerso in questa ricerca sulla sostenibilità alimentare. «90 Kg?» mi dice «non sono tanti. Certo che ci si riesce.» Non sono tanti: ancora una volta hai letto bene attonito lettore, dice proprio così. Mi faccio dare un po’ di dati sulla sua produzione e, tornato a casa, faccio quattro semplici conti. Per produrre 90 Kg di carne all’anno moltiplicati per 60 milioni di persone con la produttività della cascina di Irene occorrerebbero 100.000 Kmq di pianura padana da dedicare solo a quello. Dico di pianura padana perché il metodo applicato da Irene, che è poi quello del pascolo intensivo sul modello dell’americano Joel Salatin, non si pratica certo sui terreni poveri di montagna. È un metodo che richiede terreno ricco, fertile, insomma terreno agricolo coltivabile da sottrarre dunque all’agricoltura. E comunque di pianura padana ne abbiamo meno della metà di quel che servirebbe. La realtà è che quei 90 Kg all’anno a persona non riusciamo a produrli in Italia nemmeno con la più bieca zootecnia industriale. Non c’è abbastanza territorio, punto e basta. E non serve indignarsi per i prosciutti importati a profusione dalla parte opposta del mondo: se ne vogliamo così tanti accettiamo che vengano da nonsodove perché qui non si vede come li si possa produrre. Non si può far entrare un elefante in una scatola di scarpe. E la zootecnia ha appunto le dimensioni, la leggerezza, le leggiadre movenze di un elefante obeso. È un modo di produrre cibo intrinsecamente dissipativo. E non c’è altro da dire.

Anzi no, un’ultima cosa c’è. Perché una settimana dopo il colloquio con Irene, non amando le cose incompiute, torno alla cascina per fare ciò che avevo fatto in tutti gli altri luoghi che avevo visitato in quei mesi, ovvero vedere tutto di persona. È prevista una visita guidata e non volevo perdere l’occasione di accodarmi. Quanto ho visto di produzione vegetale l’ho brevemente descritto nel libro. Qui parlerò della produzione animale. Non riusciamo a vedere i bovini che «a quest’ora sono già nelle stalle», ci spiega Sandra, la collaboratrice di Irene che ci guida lungo il percorso, ma vediamo i polli e i maiali. I polli sono ospitati in ampie aree recintate al centro di ognuna delle quali c’è una sorta di carrozzone di legno che è il pollaio. Queste aree sono il loro pascolo. Il pollaio ha le ruote perché periodicamente bisogna spostare i polli a rotazione in altre aree man mano che quel pascolo si esaurisce affinché esso possa rigenerarsi. Il numero dei polli di ciascun gruppo è limitato dalla loro capacità di riconoscersi l’un l’altro, come avverrebbe in natura e credo sia attorno al centinaio.

Passiamo poi ai maiali, anche qui pochi, tranquilli e indifferenti alla nostra presenza come nell’altra fattoria. E anche qui confinati in uno spazio ampio ma totalmente spoglio e fangoso. All’interno del recinto tuttavia c’è una cosa dall’aspetto piuttosto lugubre che nell’altra non c’era o quanto meno non in quel momento. Una sorta di tunnel fatto di sbarre metalliche del tutto identiche a quelle di cui avevo visto così gran profusione nel primo allevamento visitato con Sergio, quello intensivo, un tunnel che inizia e finisce senza condurre a nulla, apparentemente del tutto fine a se stesso. Un’opera d’arte contemporanea? Alcuni bambini della comitiva di visitatori domandano cos’è e Sandra spiega che quel tunnel purtroppo (inizia così, dicendo purtroppo) è del tutto identico a quello che i maiali dovranno attraversare di lì a poco nel mattatoio che li attende e serve ad abituarli alla sua presenza affinché nel momento cruciale, quando si troveranno davanti al tunnel vero, lo attraversino senza paura. La comitiva passa oltre, diretta al frutteto e passano oltre anche i pensieri dei suoi membri. I miei rimangono invece attaccati a quella parola, purtroppo, che meriterebbe ben altro approfondimento. Perché Sandra ha detto purtroppo?Pensate se l’avesse detto un po’ più avanti a proposito della raccolta delle pesche, se avesse detto che purtroppo vanno strappate dalla pianta. Tutti l’avrebbero trovato senza senso. Detta in quell’altro contesto invece quella parola appare a tutti perfettamente naturale. Una differenza su cui poco si riflette, anzi su cui non si riflette e che invece spalanca le porte di un discorso vastissimo che coinvolge la posizione stessa dell’uomo sulla Terra e che non era compito di Un pianeta a tavola affrontare. Per questo nell’epilogo scrivo che il vero centro di quel problema che la presenza dell’uomo sulla Terra oggi rappresenta appartiene alle pagine di un libro ancora da scrivere e che su questi territori ancora inesplorati, che sono poi i cupi territori di quella allucinazione collettiva che va sotto il nome di cultura del dominio, Un pianeta a tavola ha solo socchiuso una piccola porticina. Che sarà tuttavia necessario al più presto spalancare. Purtroppo.

 Filippo Schillaci

4 thoughts on “La favola del “benessere” animale. Parte seconda”

  1. Come circolo MDF Milano ci dissociamo da quanto viene espresso in questo articolo, laddove in particolare viene utilizzato un tono “capzioso”, dunque inopportuno, a discredito dell’operato di Irene Di Carpegna, proprietaria e conduttrice della Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese.

    Pensiamo che l’uso dell’ironia, dello “sprezzo”, delle iperboli, sia un vero e proprio registro letterario, oggi uno stile “giornalistico” sempre di più diffuso, ma tutto questo può rivelarsi letale.

    Riteniamo che la Cascina Santa Brera non meriti un trattamento di questo tipo, in quanto realtà unica nel panorama agricolo milanese, nonché modello di progetto virtuoso orientato alla diffusione di stili di vita sostenibili che sono in sintonia con il pensiero del nostro movimento e che quindi intendiamo sostenere.

    Pensiamo che le buone pratiche, come l’intero processo di “ritorno al rurale” intrapreso da Irene Di Carpegna (abbandono di una attività lavorativa per tornare in campagna, recupero completo di una cascina con fatica e dedizione, avvio di una impresa agricola e di attività di formazione sui temi della sostenibilità, presidio di un territorio destinato al degrado e/o allo sfruttamento urbanistico o agricolo/industriale, attività sociali per i bisognosi a supporto delle istituzioni), siano molto più importanti, incisive e utili per la comunità locale, che non quanto viene espresso nell’articolo.

    Restiamo umani, sempre.

    MDF Milano – circolo territoriale di Milano del Mov. per la decrescita felice.

  2. Non riesco a capire il collegamento fra la citazione finale di Arrigoni ( personaggio che io ammiro, peraltro) e il resto del commento. Perchè, “restare umani” è forse in antitesi con lo scandalizzarsi per il modo con cui vengono allevati milioni di animali,anche nelle fattorie simili a quella così lodata da MDF Milano? E dove sarebbe il tono capzioso? E l’ironia è una qualità dell’intelligenza, che pochi, a mio parere, sanno usare. Da antispecista quale sono, e non semplicemente umana come si invoca alla fine del commento, non posso che concordare con quanto scritto nell’articolo e , anzi, mi meraviglio dell’indifferenza di tante,troppe persone, che dovrebbero essere illuminate ( ad esempio gli aderenti a Mdf)riguardo alla sofferenza animale. Direi, allora, per concludere parafrasando il commento, diventiamo umani verso tutti gli esseri senzienti.

  3. E’ inaudito. Un circolo del MDF che attacca uno dei più validi esponenti del Movimento. E in difesa di cosa poi! Di un allevamento. Ovvero di un’attività produttiva fra quelle a più alto impatto ambientale, che i circoli del MDF dovrebbero essere i primi a condannare senza riserve.

    Vi ricordo che Schillaci ha lavorato tre anni per definire un modello alimentare sostenibile e ha dimostrato con solidi argomenti che in un tale modello per la zootecnia (per ogni tipo di zootecnia), come per la pesca e per l’acquacoltura, non c’è posto. Se voi la pensate diversamente allora vi corre l’obbligo di dimostrare innanzitutto che quegli argomenti sono campati in aria. Solo dopo che lo avrete fatto potrete dargli del “capzioso”. E buon lavoro.

  4. Cara Giulia,
    ti ringrazio per avermi segnalato questo commento, che in realtà già conoscevo. Poiché mi solleciti una risposta, eccola.

    Capisco la tua indignazione, ma simili reazioni vanno innanzi tutto comprese, dove comprendere non significa giustificare ma identificare i meccanismi mentali che le generano.
    Certamente, se ponessimo la questione su un piano razionale, si potrebbe rispondere, come tu fai, che chi vuole affermare la sostenibilità di simili attività produttive ha davanti a sé il compito di confutare le decine di pagine di argomenti che nel libro “Un pianeta a tavola” sono esposti per sostenere la tesi opposta. E di confutarli nell’unico modo lecito, ovvero con argomenti migliori. Si potrebbe notare che ai “dissociati” milanesi non dovrebbe risultare difficile visto che hanno fra le loro file un agronomo, e associarsi a te nell’augurare loro buon lavoro.
    Si potrebbe far loro notare che il 70% delle emissioni di gas serra dovute alla zootecnia sono provocate dagli allevamenti basati sulla terra, cioè proprio del tipo della cascina Santa Brera.
    Si potrebbe dire che nel documento programmatico dell’Istituto di Studi interdisciplinari sulle Bioeconomie (ISIB) di cui due membri del circolo milanese fanno parte si condanna esplicitamente “l’uso di terreno agricolo per produrre cibo per gli animali da allevamento” e questo è esattamente ciò che viene fatto nella cascina Santa Brera e far notare loro che per coerenza dovrebbero dissociarsi anche dall’ISIB.
    Si potrebbe parlare di quel corteo di milanesi in giacca e cravatta (i maschietti) e gonne attillate e tacchi a spillo (le femminucce) diretto al ristorante dell’azienda che ho incrociato mentre andavo via e ricordare ai “dissociati” milanesi che noi abbiamo bisogno di un modello alimentare valido per 7 miliardi di persone che stanno per diventare 9, su un pianeta ormai allo stremo, non per una elite di milanesi incravattaetacchiaspillo che nei fine settimana giocano a fare gli alternativi andando a mangiare in un contesto “alla Nonna Papera”.
    Si potrebbe notare l’assoluta non pertinenza delle righe finali poiché il mio articolo confina la sua critica a una e una sola attività dell’azienda: l’allevamento e non si capisce come il presidiare un territorio altrimenti destinato all’urbanizzazione, o le attività in favore dei disabili, ecc. debbano necessariamente implicarlo.
    Si potrebbe rispondere questo e altro ancora ma queste argomentazioni non centrano il cuore del problema perché la forza motrice di simili reazioni non appartiene all’attività razionale della mente ma proviene da zone ben più profonde della psiche. Dunque ricominciamo da capo.

    Nota innanzi tutto che il mio articolo descrive due allevamenti “alla Nonna Papera” ma solo in difesa di uno di essi si sono levati gli scudi metropolitani. E nota due caratteristiche del loro commento: una certa dose di carica emotiva (che giunge fino al limite dell’attacco personale nella fantasiosa accusa di “capziosità”, ovvero ingannevole cavillosità, insomma malafede) e l’assoluta assenza di argomenti (ad esempio si definisce l’azienda “sostenibile” ma non ci si preoccupa di darne alcuna dimostrazione). Nota anche come nelle argomentazioni del mio articolo essi abbiano percepito un tono “ironico” in realtà del tutto inesistente (a parte una frecciatina contro certa arte contemporanea, comunque non pertinente al nostro argomento). Simili reazioni sono così tipiche da sembrare a volte scritte con la carta carbone. Perché di null’altro si tratta che della classica reazione di un gruppo di fronte alla violazione di un dogma identitario.
    Per capire cosa voglio dire bisogna considerare che il circolo milanese conosce la cascina Santa Brera e la frequenta o l’ha frequentata. Essa è divenuta con ciò per il circolo un luogo di aggregazione assumendo così connotati simbolico-identitari.
    Adesso ricorda (terza parte di “Un pianeta a tavola”) che Durkheim assimila la componente “affettiva” della dimensione collettiva a quella del sacro e ti sarà chiaro cosa è accaduto. La cascina Santa Brera in quanto luogo catalizzante di tale dimensione è entrata nel dominio del “sacro”, è divenuta per i “felici decrescenti” milanesi un temenos. E pertanto ogni analisi critica di essa che giunga a conclusioni negative è una bestemmia. Naturalmente essi non “sanno” che è così perché questi meccanismi, come tutte le dinamiche di gruppo, si scatenano in quelle zone profonde della psiche che vanno sotto il nome di inconscio.
    Ma soprattutto, questo discorso si può riproporre in forma più generale ricordando i valori simbolico-identitari che hanno, ovunque e comunque, le scelte alimentari e in particolare, nella società di massa occidentale, quella che Jeremy Rifkin chiama la “cultura della bistecca”. Questa “cultura” che tutti noi assorbiamo dal gruppo sociale fin dai primi anni dell’infanzia (insieme a ogni altra cosa che devo fare-dire-pensare affinché io possa emettere correttamente a ogni istante il messaggio “io sono uno di voi” e dunque non diventare un paria) questa cultura, dicevo si trasferisce in forma “virale” anche in tutti quei gruppi “alternativi” che non abbiano inserito fra i loro valori identitari un diverso sistema simbolico legato all’alimentazione. Ecco spiegato l’inspiegabile fenomeno del signor Rossi felice decrescente che parla di decrescita con la bistecca nel piatto. E non c’è nulla da fare: la mente umana funziona così. E gli argomenti razionali sono meno, molto meno che armi spuntate di fronte alla potenza dei dogmi identitari collettivi abbarbicati nelle profondità dell’inconscio di ogni individuo.

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