Pubblichiamo di seguito un estratto del libro “Lavorare sfianca” di Alessandro Pertosa e Lucilio Santoni, edito da Enrico Damiani editore.

Ringraziamo gli autori per la gentile concessione e invitiamo tutti a farsi sanamente provocare da un pensiero non convenzionale.

Acquisto responsabile

Una strana follia sembra impossessarsi dell’homo laborans  e consumisticus. È la follia che si trascina zeppa di miopia e miserie. È la follia dell’amore per il lavoro, per la fatica, per la routine. È la follia che sfinisce l’intelletto e imbarbarisce l’uomo gioioso, fino a spingerlo nel ciclo infernale e perpetuo della produzione-consumo-produzione.

Inserito in un contesto consumistico, l’uomo contemporaneo è stimolato quotidianamente ad acquistare: i mezzi d’informazione lo dis-informano sui nuovi prodotti, pronti per essere comprati con quei soldi guadagnati lavorando ogni giorno di più. In questa follia generale, il dominato cerca di scalare la piramide sociale lavorando un numero di ore sempre crescente; il capitalista sposta la produzione in contesti in cui i costi del lavoro risultano inferiori (e al contempo si disinteressa di chi resta disoccupato in un mondo basato esclusivamente sul lavoro salariato). E nessuno sembra accorgersi che questo sistema è destinato fatalmente a collassare, perché nel lungo periodo se io (imprenditore) trasferisco sistematicamente il lavoro dal mondo cosiddetto avanzato al mondo in via di sviluppo, finisco per massimizzare i miei utili, senza tuttavia accorgermi che questo mio comportamento determina una riduzione generale del potere d’acquisto.

Proviamo a chiarire meglio il ragionamento: se l’imprenditore paga 1000 operai 1000 euro ciascuno, distribuisce una certa cifra X; ma nel momento in cui sposta la produzione nei paesi in via di sviluppo (e che Dio li salvi dallo sviluppo!), ai 1000 operai conferisce uno stipendio di 200 euro (X/5): non c’è bisogno di una mente matematica per capire che con la delocalizzazione della produzione, il quantitativo di denaro che resta nelle mani dell’imprenditore (e che quindi non circola) è maggiore di cinque volte: il che vuol anche dire che il volume di denaro distribuito (e circolante) è minore di cinque volte.

Questo meccanismo diabolico spinge l’occidente (che è anche il luogo in cui si perdono posti di lavoro) in un vicolo cieco. Da anni si parla di crisi, ma si farebbe meglio a definirla guerra: è una guerra che le classi dominanti stanno vincendo destrutturando tutti i diritti civili acquisiti fino ad ora. Il capitalismo, per mantenersi nel primo mondo – ovvero per non delocalizzare ulteriormente la produzione –, ha bisogno di chiedere lacrime e sangue al dominato, ormai disposto a tutto pur di mantenere un minimo di salario. Il lavoro diventa allora una sorta di viatico verso la schiavitù (e in tale contesto si giustifica il lavoro sottopagato, così come quello domenicale).

Proprio per questo motivo ci sembra ormai non più procrastinabile quello che potremmo definire l’«acquisto responsabile». Prima di comprare un oggetto, magari per i nostri figli o nipoti, dovremmo riflettere sul fatto che stiamo acquistando un giocattolo assemblato con buona probabilità da bambini denutriti e sfruttati. Acquistare responsabilmente diventa allora una sorta di «principio morale personale». È necessario partire da se stessi, rivoluzionarsi, perché non si può pensare che il mondo cambi se io in prima persona non sono disposto a mettermi in gioco, a trasformare la mia intera esistenza. «Siate la rivoluzione che volete vedere nel mondo», diceva Gandhi.

Crediamo che questo sia uno dei manifesti più belli e rivoluzionari che siano mai stati proclamati. E crediamo che chi ha a cuore la costruzione di un mondo migliore abbia un compito complicatissimo, ovvero cercare di cambiare se stesso. Si lavora una vita per rivoluzionare il proprio cuore, e solo dopo averlo rivoluzionato si può ambire a trasformare il contesto.

 

Io sono proprio questo Io in virtù dei legami che costituisco con gli altri – siano questi altri la natura o uomini –, ovvero non posso pensarmi senza l’essere circostante. Per questo motivo, nel momento in cui cambio vita e decido di trasformarmi, modifico anche le mie relazioni con il contesto in cui mi trovo, e quindi modifico ontologicamente il mio «ambiente». In tal senso, allora – ma ripeto la questione meriterebbe un approfondimento che ora non possiamo qui permetterci –, la rivoluzione del singolo comporta anche una rivoluzione sociale e comunitaria. Cioè: se Io sono in relazione al contesto – dove la relazione è costituita da due poli (Io e l’altro) collegati fra loro – nel momento in cui trasformo il mio modo di essere, apporto delle mutazioni anche alla relazione che costituisco con il contesto. Perciò, ogni rivoluzione singolare produce fatalmente degli effetti collettivi, senza tuttavia esercitare violenza nei confronti dell’altro.

 

Per tornare agli acquisti, allora, il primo compito è di essere compratori critici, nonché soggetti politici responsabili. Noi votiamo ogni volta che andiamo a comprare qualcosa. E quindi è indispensabile non solo domandarsi se è davvero necessario comprare tutto ciò che acquistiamo, ma soprattutto assume un’importanza capitale conoscere la genesi del prodotto, sapere con quale modalità è stato costruito e soprattutto da chi. Se fossimo realmente in grado di fare una sorta di obiezione di coscienza nei confronti del mercato, probabilmente cominceremo a creare le condizioni di possibilità per uscire dalla schiavitù del dominio tecnologico capitalista.

Ci si obietta spesso che la nostra proposta è un’utopia destinata alla sconfitta. Bisogna dire che questa obiezione ha un certo fondamento. Nel senso che se proponiamo di operare in modo a-competitivo all’interno di un orizzonte competitivo, il nostro agire è destinato alla marginalità, è condannato alla sconfitta, non ha alcuna possibilità di riuscita.

Proviamo a spiegarci meglio: non si può combattere una logica competitiva restando in una logica competitiva. Se ci si sottrae alla competizione si è destinati fatalmente alla sconfitta. Sconfitta che tuttavia potrebbe trasformarsi in gloria allorché ci si mostri del tutto indifferenti a questa stessa sconfitta. Lo sconfitto, infatti, è lo sconfitto che ha la percezione di essere tale. Mentre chi si sottrae a questa logica dispotica e si disinteressa del fatto che altri lo concepiscano come sconfitto, non è sconfitto. E in ciò vediamo una grande convergenza fra la razionalità cristiano-evangelica e l’anarchismo. Chi non riconosce la fragilità del Cristo come un gesto straordinario e  dirompente, così come chi critica l’anarchismo per la sua infruttuosità, legge le opzioni cristiana e anarchica come velleitarie. Ma non è così, nel senso che la sensibilità a-competitiva nega alla radice qualsiasi ipotesi di competizione. Ovvero, ci sono due modi per non vincere una gara. Il primo è quello di colui che accetta la sfida e perde. Il secondo – ed è questo il modello di cui qui parliamo – è quello di chi rifiuta la sfida e decide di non cominciare neppure la gara, sottraendosi alla razionalità della competizione violenta.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *