Dopo la fuga di materiale radioattivo nell’impianto di riprocessamento russo, rinvenuto non solo rutenio, ma anche cesio. Si teme un’incidente di larga portata

La provenienza della famosa nube di Rutenio-106 è ormai chiara.

 

L’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni, il primo ente ad accorgersene, interpellò a inizio ottobre il Ministero di Pubblica Sicurezza della regione di Chelyabinsk e ROSATOM, l’ente governativo che si occupa di energia nucleare, i quali affermarono che non ci fossero stati incidenti e che il livello di radiazioni nella regione russa non fosse aumentato.

 

Successivamente, l’IRSN, l’Istituto di radioprotezione e sicurezza nucleare francese, in un report edito il 9 novembre, rende pubbliche le rilevazioni effettuate tramite le varie stazioni di monitoraggio europee, che avrebbero interessato anche l’Italia, nelle regioni di Lombardia, Piemonte, Friuli, Toscana ed Emilia Romagna, a partire dalla giornata del 3 ottobre 2017, ed identifica come periodo del rilascio, l’ultima settimana di settembre.

 

Si parla di rilevazioni con esito positivo nella maggior parte dei paesi europei, con picchi di 100 microbecquerel/metro cubo, in rapido calo a partire dal 6 ottobre. Da sottolineare che il calo non è dovuto alla scomparsa dell’isotopo, ma al fatto che, depositandosi a terra, non viene più rilevato in aria.

 

I livelli riscontrati vengono ufficialmente considerati innocui, nonostante numerosi studi, tra cui quelli del professor Bandazhevsky, abbiano dimostrato che l’assorbimento da parte degli organismi viventi sia cumulativo.

 

 

Indipendentemente dalla dose ricevuta, chiunque abbia subito dosi di radiazioni aggiuntive, corre il rischio di contrarre tumori, disturbi del sistema immunitario o altro. In questo caso, l’irradiazione agisce come una sorta di “innesco” per l’insorgenza della malattia e porta ad una riduzione dell’aspettativa di vita media della popolazione. La nozione di “dose collettiva”, ci spiega che una percentuale delle persone esposte avrà necessariamente problemi di salute, e dato che la contaminazione si sviluppa nello spazio di migliaia di chilometri, sono coinvolte decine di milioni di persone.

 

La provenienza, è stata accertata dall’ IRSN nella zona tra il Volga e gli Urali, nella quale è attiva la centrale nucleare di Mayak, già interessata dal più grande incidente nucleare della storia.

 

Dopo circa un mese di silenzio, l’agenzia governativa russa Roshydromet ha ammesso che nelle aree limitrofe alla centrale di Mayak, la presenza di isotopi abbia raggiunto quantità allarmanti, di quasi mille volte sopra la soglia consentita.

Nonostante questo, ROSATOM e il governo regionale di Cheliabynsk hanno smentito il fatto che l’incidente possa essere avvenuto negli impianti di Mayak e che si stia trattando di Rutenio-106 proveniente da non si sa dove, ed “in transito” nella loro regione…

 

A mettere in allarme la popolazione locale e quella della vicina regione di Sverdlovsk, il fatto che il 25 settembre sia scattata la sirena d’emergenza della centrale, poi giustificata con la scusa di un test di funzionamento.

 

La tesi riportata da molte testate, che si tratti di una fuga di Rutenio-106 usato a scopi medici, non regge, come ci spiega anche Andrey Ozharovskiy, di Bellona Foundation, visto che la centrale di Mayak non si occupa di queste operazioni.

 

Secondo l’ingegnere nucleare francese Jean-Claude Zerbib della Commissione per l’Energia Atomica (CEA), sarebbe avvenuto un incidente durante il processo di vetrificazione degli elementi ad altro rischio, come accadde ben due volte nel 2001 alla centrale di Le Havre in Francia, dove una discreta quantità Rutenio-106, che durante la vetrificazione può trovarsi in forma gassosa si è liberata in aria.

 

Molto preoccupata l’attivista Nadezhda Kutepova, originaria di Ozeorsk, la città proibita adiacente alla centrale, ed attualmente in asilo politico in Francia, a causa minacce ricevute per aver difeso le vittime dei precedenti incidenti avvenuti all’impianto di Mayak.

 

La sua ricostruzione, che aggiunge dettagli a quella dell’ingegner Zerbib, ci conferma che il forno per le operazioni di vetrificazione è in funzione solo dallo scorso dicembre, dopo anni di ritardi causati dalle ditte costruttrici, e di fallimenti nei test di utilizzo.

 

A questo dobbiamo aggiungere dei dati non considerati dall’IRSN, I quali mostrano che oltre al Rutenio-106 ci sia stato un aumento di altri contaminanti radioattivi. Persino l’ EPA (United States Environmental Protection Agency), in un breve comunicato, nomina anche la presenza di RUTENIO-103.

 

A conferma di ciò,i dati raccolti dalle stazioni di rilevazione dell’ Enviromental Radioactivity Grup svizzero, ci mostrano senza possibilità di errore, che assieme al RUTENIO-106, nello stesso periodo, sono stati riscontrati in tutta Europa, importanti aumenti nella concentrazione minima rilevabile dei pericolosissimi CESIO-137 e IODIO-131, con picchi record proprio a Cadenazzo, in Svizzera.

 

Sulla base di questo, Greenpeace sospetta sia in atto il tentativo di copertura di un incidente ben più grave e chiede di aprire un’indagine internazionale. L’insabbiamento degli incidenti nucleari in Russia, e soprattutto nella regione di Chelyabinsk, è purtroppo una pratica usuale.

 

BREVE CRONOSTORIA DEGLI INCIDENTI ALLA CENTRALE DI MAYAK

1949-1952: Riversamenti continui di materiale ad alto rischio nel fiume Techa. Il tutto restò segreto per 40 anni.

 

29 Settembre, 1957: Esplosione di un deposito sotterraneo – Segreto per 32 anni.

Agosto 1967: Tifone con polveri radioattive dal Lago Karachay – Mai stato ammesso.

 

2005: Riversamento di 60,000 tonnellate di materiale radioattivo nel fiume Techa. Mai stato ammesso.

 

2007: Incidente avvenuto all’impianto di riprocessamento con contaminazione dei territori limitrofi. Mai stato ammesso, ma fu palesato dall’allarme della centrale.

 

Il governo si limitò a considerare come incidente soltanto quello del 1957, di sesto livello nella scala INES (Scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici), conosciuto come “Kysthym 57”.

 

I dati di Greenpeace ed altre ONG stimarono che la contaminazione dei primi tre incidenti sommati, fu pari a 22 volte quella del disastro di Chernobyl.

 

Le popolazioni colpite sono ad oggi soggette a varie patologie, da problemi cardiaci, a diverse tipologie di tumori, e la situazione peggiora di generazione in generazione, avendo la contaminazione prolungata compromesso il patrimonio genetico.

 

Il RUTENIO-106, usato anche per la medicina nucleare, non esiste in natura ed è prodotto dalla fissione dell’uranio. Questo isotopo, con un’emivita di 368 giorni, cessa di essere pericoloso dopo circa 30 anni. Emette principalmente raggi beta, che gli apparecchi più semplici non possono rilevare.

Fonte: LaStampa.it

 

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