L’uscita da un sistema economico di scambio e profitto non può essere né immediata, né collettiva: essa presuppone che personalmente ogni individuo riveda il proprio concetto di produttività e di lavoro, quindi una sostanziale revisione di ruolo e identità.
Non bastano, a mio parere, i consumi consapevoli o l’uso di energie rinnovabili a liberare gli esseri umani dall’economia basata sui combustibili fossili: in realtà ad essa è sotteso un sistema integrato di relazioni finanziarie, in cui l’individuo deve necessariamente accedere ad alcuni prodotti e servizi, pena l’esclusione dalla visibilità sociale; basti pensare agli invalidi, ai disoccupati, ai giovani inoccupati, alle donne in maternità non protetta.
La richiesta di un rimborso spese o di un compenso per la conduzione di gruppi di lavoro all’interno di un intervento di promozione sociale è coerente con il sistema economico da cui proviene: la finalità della transizione dovrebbe farci prospettare un futuro di scambi paritari, non succubi del “potere energetico”. Questa è l’illusione di fondo, infatti la prospettiva di cambiamento può passare solo e soltanto dalla revisione identitaria per essere un apprendimento duraturo, altrimenti si tratta di una posa estemporanea, vissuta con fatica e che facilmente si può abbandonare, se qualcos’altro apparirà più affascinante.
Educare, promuovere la cultura e la socialità non possono essere realmente pagati come prodotti o servizi commerciali; nonostante i tentativi di svariati ministri e di pedagogisti di “riconosciuto valore” di usare il linguaggio commerciale per definire le relazioni d’apprendimento, esse non possono nemmeno configurarsi dal punto di vista statistico, come l’Ocse-Pisa 2006 ha dimostrato: il successo formativo di alcuni studenti è legato alla relazione con il docente, ma questa per ben il 30% non è descrivibile secondo nessun modello finora teorizzato.
Ritengo che gli esseri umani siano in fase d’apprendimento per tutta la loro vita, quindi migliaia di maestri, altrettanto umani e discenti, attraversano la loro vita: perciò come si può essere un’associazione di promozione sociale e chiedere il pagamento del servizio?
Ci sono lavori che non possono essere considerati tali, perché non collegati con la produzione di un prodotto: l’applicazione del sistema capitalistico ai servizi alla persona ha provocato le storture della Clinica Santa Rita, delle scuole/diplomifici e delle case di riposo d’oro. Nel servizio alla persona si gioca innanzitutto la persona; chi ha bisogno è in situazione di sudditanza, rispetto a chi offre il servizio, ma per assolvere al proprio compito e rispondere adeguatamente all’esigenza, l’operatore del servizio deve attivare la propria empatia, l’ascolto attivo, deve scegliere i percorsi migliori per colui che ha davanti, deve farsi carico di parte della vita dell’altro. Tutto ciò implica un continuo lavorio interiore, un ri-aggiustamento quotidiano che arricchisce senza fine,ma che a volte può addirittura destabilizzare la personalità: questo è ciò che le donne fanno da sempre, per i figli, per gli uomini che vivono loro accanto, per gli anziani che curano, per coloro che accompagnano ad una buona morte; anche se nessuno lo rende manifesto, questi sono i compiti che nel nostro sistema economico toccano alle donne, ma non hanno pagamento, non hanno riconoscimento finanziario.
Per fortuna, dico io! Almeno questo non si può vendere!
Naturale sarebbe a questo punto ritenere questi servizi come missioni volontarie, senza compenso da richiedere: anche questo pensiero è figlio del sistema economico attuale, perché il reddito delle persone è legato alla loro produttività, presunta o reale che sia , non al loro diritto all’esistenza, al benessere e alla pace.
In questo momento di tragica transizione attraverso una crisi finanziaria indotta, nella speranza della comparsa di valori etici almeno nel sistema produttivo, chi è consapevole del cambiamento, chi si ascolta ed ascolta gli altri vive una subdola, quanto velenosa, frustrazione: per la sussistenza deve ricorrere a questo sistema, a volte si rende conto di perpetuarlo attraverso gli acquisti o addirittura attraverso il proprio lavoro, vorrebbe sottrarsi ma non ha altri strumenti per farlo, se non il proprio tempo, la propria voce e le proprie mani; così può compiere piccoli gesti, conquistare minuscoli spazi in cui creare e donare, smettere di sentirsi "alieno" per condividere con altri "alieni" il progetto di una comunità vivente diversa. Come spesso accade deve attendere che le proprie comunicazioni germinino anche in altri e si diffondano sempre di più. Tutto ciò logora e può comparire la tentazione di abbandonare tutto, oppure di trasformare in professione il cambiamento.
Giorni fa mi è stato chiesto come la decrescita possa promuovere il miglioramento della vita delle classi sociali deboli, dato che la diminuzione del PIL pesa sempre sulle spalle degli stessi; l’idea che il PIL possa essere un indice di benessere del paese mi pare sempre piuttosto ingenua: il prodotto interno lordo non misura quanto del profitto realizzato sia ridistribuito a tutti gli attori economici. In un paese come il nostro, liberal-protezionistico, gode dell’aumento del PIL solo quella trentina di famiglie, che ha saputo provocare e gestire guerre, crisi energetiche e crisi finanziarie. Così è impensabile che i subalterni migliorino le loro condizioni di vite, giocando con queste regole: liberandosi  dall’idea di un lavoro che occupa tutta la giornata, per rivendicare i tempi per una sana autoproduzione, per partecipare attivamente e consapevolmente alla vita politica del proprio territorio, si giunge ad una salute equilibrata; non si avverte quella sorta di fame insaziabile di oggetti e servizi da consumare tanto e in fretta, si scoprono movimenti, piaceri, progetti che riempiono molto di più di un happy hour a base di tartine sintetiche e paste surgelate, di antidepressivi e sballo chimico; ma quello che mi preme sottolineare è il concetto di sovranità alimentare: coltivare un orto, dedicarsi ad un’agricoltura di sussistenza, accordarsi con i contadini nel proprio territorio per programmare i consumi di un gruppo di acquisto solidale rimette nelle mani di tutti noi la possibilità di decidere cosa mangiare, forse ci restituisce il valore di essere ciò che vogliamo essere, con i piedi ben piantati nella madre terra, in mezzo agli altri esseri viventi, non per consumare, per esserci.
La sovranità alimentare è una delle finalità di alcuni progetti di ManiTese: permettere ad una comunità di decidere cosa coltivare e mangiare, nel rispetto del territorio e della cultura popolare, dà a tutti la possibilità di esserci e di volerci essere, senza il ricatto delle multinazionali delle sementi e della chimica, dei combustibili fossili e senza il controllo della finanza mondiale.
Non vi pare così pacificamente sovversiva la fonte energetica che dalla promozione della sussistenza si può ottenere?
Le classi sociali cosiddette deboli, nel nostro paese, hanno bisogno di liberarsi da quei bisogni indotti, per rivendicare invece con forza i diritti che frequentemente vengono calpestati in favore del profitto: hanno bisogno di andare all’osso delle proprie esigenze reali, di vedere con gli occhi bene aperti cosa producono e consumano davvero per sé e cosa sono costrette a replicare per il mantenimento del sistema. Consumare meno risorse, meno cibo, meno energia, meno territorio non corrisponde a diminuire le opportunità di vita, al contrario permette di ridefinire le priorità, apre altre possibilità di creare differenti modi di vivere, non violenti, non competitivi e generativi.
Non aumentare di peso non è un problema estetico, è un problema esistenziale.
 

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