Caro Direttore di Valori,
nel tuo editoriale hai definito la decrescita un “Prozac sociale”. Non sono molto d’accordo con questa definizione (come non condivido minimamente i toni e i contenuti dell’intero dossier), tuttavia un fondo di verità lo si può trovare. Nel senso che la decrescita non è palliativo ma può davvero farci tornare a sorridere agendo sulle cause e non sugli effetti della crisi.

Un mondo sta crollando. Crescita zero, recessione, inflazione, stagnazione, disoccupazione, precarietà, incertezza, default, spread, bund, Btp.
Questo è il deprimente vocabolario della crisi che si legge sui giornali e si ascolta ogni giorno in TV. Queste parole vengono versate come sale sulle ferite aperte dei cittadini che vivono la crisi sulla loro pelle. Crollano gli indici di borsa e aumenta la depressione, non solo dell’economia ma delle persone che perdono la fiducia nel futuro e, nei casi più tragici, anche la voglia e la forza di vivere. Può succedere a chi perde il posto di lavoro e a chi vede andare in fumo i risparmi di una vita e non sa che futuro potrà dare ai suoi figli. Come non cadere in depressione, guardando in TV i politici che annunciano, con facce da funerale, nuove manovre “lacrime e sangue”, tutte tasse, tagli e sacrifici per rilanciare la crescita?
E’ la fine di un’era e di grande illusione collettiva. Negli ultimi trent’anni, grazie alla pubblicità e al frenetico sviluppo dei mass-media, abbiamo subito un autentico lavaggio del cervello ed è avvenuta una vera e propria mutazione antropologica. Si è passati dall’homo sapiens-sapiens all’homo consumans.
Ci hanno illuso, e noi ci siamo lasciati illudere, che la crescita sarebbe durata all’infinito e che più cose avessimo comprato, posseduto e consumato e più noi saremmo stati felici, ma così non è stato.

Numerosi studi di socio-economia, condotti sulla società americana, la più ricca, avanzata, spendacciona e consumistica del mondo, hanno evidenziato il “paradosso della felicità”: soddisfatte le necessità primarie, oltre ad un certo livello, con l’aumento della ricchezza diminuisce la felicità. Perché con l’aumento della ricchezza tende ad aumentare anche l’egoismo, l’individualismo, la diffidenza e lo stress e diminuisce il tempo da dedicare agli altri, alla famiglia e alle relazioni sociali.
Tutti noi abbiamo quotidiana esperienza di quanto sappiano essere generose le persone di condizioni sociali medio-basse. Spesso chi più ha meno dà, senza nulla togliere a chi sa condividere le proprie ricchezze con gli altri, ma questa più spesso è l’eccezione e non la regola. D’altronde, se i ricchi e super-ricchi fossero tutti un po’ più generosi, non ci troveremmo a questo punto.

Abbiamo creato una società e “un mondo diviso in due stanze: in una si spreca, nell’altra si crepa” (Benedetto XVI). Al piano basso c’è una stanza piena di poveri, affamati e anche un po’ arrabbiati. Al piano alto c’è una stanza dotata di ogni comfort dove vive una elìte di ricchi o benestanti, spesso depressi e stressati per la paura di perdere il loro benessere. Infatti sempre più persone stanno scendendo al piano basso e le mutate condizioni generano maggior depressione oppure rabbia. Tutto questo mentre l’edificio trema per le continue scosse di terremoto in borsa e rischia di crollare lasciando solo desolazione e macerie. Non si può continuare a negare l’evidenza: l’attuale sistema economico-finanziario è giunto al capolinea e sta fallendo perchè non è più sostenibile sia dal punto di vista sociale che ambientale.

Non è possibile una crescita infinita in un mondo finito. La nostra impronta ecologica sul pianeta è insostenibile e stiamo varcando il punto di non-ritorno. Le misure messe in atto per rilanciare la crescita (tagli, tasse e sacrifici) non sortiranno alcun effetto perché è come cercare di rianimare un moribondo a bastonate. I politici, corresponsabili della crisi sia perché hanno lasciato che la finanza prendesse il sopravvento, senza porre alcuna regola o limite alle speculazioni, sia perché hanno creato l’immenso debito pubblico, sono patetici e anche un po’ ridicoli perché fino all’ultimo hanno cercato di negare o esorcizzare la crisi (sapevano da anni quello che sarebbe accaduto) e ora non hanno la più pallida idea di come uscirne. Allora fermiamoci un momento a riflettere e cerchiamo di far entrare un barlume di luce dentro questa fitta coltre di depressione. D’altronde, arrivati a toccare il fondo, abbiamo due scelte: metterci a scavare e lasciarci seppellire dalle macerie oppure alzare la testa, tornare a pensare con la nostra testa sena seguire il “pensiero unico” e cercare un via d’uscita dal baratro in cui ci siamo ficcati per tornare “a riveder le stelle”. Perché, come recita un proverbio indiano reso celebre dall’omonimo libro dello scrittore Dominique Lapierre, “ci sono sempre mille soli dietro alle nuvole”. Allora cerchiamo di sgombrare un po’ di nubi e cerchiamo qualcuno di questi mille soli.

Per uscire dalla crisi serve una nuova visione, un radicale cambio di mentalità, un salto di paradigma culturale. Non si può pensare di risolvere i problemi causati dal vecchio modo di pensare senza adottare nuovi strumenti culturali e nuove categorie di pensiero e di azione. Non si può più pensare nemmeno in termini di crescita e sviluppo sostenibile, perchè siamo sempre all’interno dei vecchi schemi, sia pure in una logica più “umana” o di semplice riduzione del danno.
Per uscire dalla crisi bisogna passare dalla società della crescita infinita e insostenibile a quella della decrescita felice e sostenibile. Bisogna cioè costruire, mediante scelte individuali e collettive, una nuova economia capace di creare valore economico in modo socialmente e ambientalmente sostenibile con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo di combustibili fossili, il consumo di materie prime e la produzione di rifiuti. Bisogna ridurre il superfluo, gli sprechi e la nostra impronta ecologica. Da ciò deriva la necessità e l’opportunità di creare nuova occupazione in attività quali l’agricoltura biologica, il risparmio energetico, il recupero di materiali, la produzione di energia da fonti rinnovabili. Bisogna impostare una nuova politica economica e industriale in grado di creare occupazione di qualità e riavviare un nuovo ciclo economico.

Alcuni semplici esempi concreti: ristrutturare l’intero patrimonio edilizio esistente secondo criteri di efficienza energetica, puntare sulla microcogenerazione diffusa di energia, investire in tecnologia e ricerca in campo energetico e ambientale.
Tale nuova economia richiede una riforma radicale della finanza, che dovrà necessariamente diventare etica, ovvero attenta alle conseguenze sociali e ambientali dell’agire economico. Ma soprattutto richiede un profondo ripensamento individuale e collettivo, una revisione della nostra scala di valori, deformata da trent’anni di pensiero unico neoliberista. Richiede di tornare a pensare al plurale, riscoprire l’altro, riscoprire la bellezza delle relazioni, perché “non si può essere felici da soli” (Raoul Follereau).
Capire che la qualità della vita non dipende dal PIL e che i valori veri sono quelli che non sono quotati in borsa e proprio per questo non si svalutano mai, anzi valgono sempre di più, perché divenuti merce rara. Se riusciremo a ripensare al nostro modo di stare al mondo, di produrre e di consumare, potremo guardare al futuro con maggior ottimismo perché abbiamo un grande patrimonio cui attingere, che affonda nella nostra storia e nella nostra cultura umanistica. Scopriremo così che con meno si può vivere meglio ed essere tutti più felici.

Luca Salvi
v.coord. GIT Banca Etica VR
v.coord. Circolo MDF Verona

Fonte: Valori.it

2 thoughts on “La decrescita un “Prozac sociale”. Non sono molto d’accordo.”

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