Nel parlare di metodi colturali che vanno al di là del biologico una delle questioni che Un pianeta a tavola lascia aperta è quella della permacoltura. Una teoria interessante ma ciò di cui mi ero messo in cerca erano i fatti che le teorie erano stati capaci di generare. Fatti come il magnifico bosco frutteto di Onorio Belussi, un paradiso che produce e che ha puntualmente trovato spazio nel libro. Ma fra i permacultori di fatti ne ho trovati pochi. La teoria tuttavia non è di quelle che mi sento di giudicare campate in aria e dunque vorrei rivolgere a essa, qui, un occhio di riguardo. Parlo soprattutto dell’intervista a Saviana Parodi che non ha trovato posto nel libro ma che non per questo merita il cestino della carta straccia. Eccola dunque, in attesa che anche in Italia qualcuno si decida a sperimentare concretamente.

 

Per giungere alla casa di Saviana bisogna lasciarsi alle spalle la sicura geometria della strada asfaltata, poi la confortevole levigatezza di certe realizzazioni agrituristiche, poi i cartelli indicatori; insomma, bisogna perdersi nella campagna collinare umbra. L’ho fatto e dunque eccomi qua, nella sua cucina dove non s’incontra quasi nulla che non sia fatto di calce, legno o terracotta. E il dialogo può cominciare.

 

Diciamo innanzi tutto quali sono i principi della permacoltura.

«Si basa su tre etiche molto generali. La prima parla ovviamente della cura del pianeta, come insieme di esseri viventi. Si parla poi di cura della propria persona, della propria specie, un’etica che, volendo, è inclusa nella prima perché la cura della propria casa come insieme di esseri ovviamente include anche se stessi. Però è importante che sia separata perché spesso ci si dimentica di sé e invece nei progetti di permacoltura, nel viverla, nel praticarla questo è il punto di inizio. La terza etica esula un po’ dal senso che possiamo avere tutti di etica ed è che ogni resto, quello che si ha in più, deve essere un’energia per altri sistemi, deve essere condiviso con essi; non necessariamente con esseri umani. Questo vuol dire che non creiamo spreco.

Come vedi sono principi amplissimi. Perché la permacoltura non pone regole, non ci dice come risolvere, ci dice che ogni luogo, ogni circostanza ha delle soluzioni diverse. È per questo che è difficile sia praticarla che progettare per gli altri. Si tratta di agire su sistemi complessi, di cui a priori non sappiamo niente, l’ignoranza è totale. Sì, pretendiamo di poter calcolare alcune cose ma mi sembra una grande illusione. Quello che possiamo fare è osservare; osservare a ogni piccola modifica che noi facciamo che cosa fa il sistema che stiamo modificando. Ovviamente i sistemi complessi ci portano delle sorprese, dobbiamo sempre imparare. E dovendo sempre imparare il progettista in permacoltura non è uno che sa, non è uno che ha studiato e quindi può dirci lui cosa accade. Il permacultore si siede, si integra, osserva, apprende e poi inizia a interagire sempre più profondamente col terreno e con le persone, ma molto lentamente, con l’insegnamento dei locali ovviamente, e loro sì che conoscono la terra. Interagisce modificando il sistema ma anche se stesso nel senso che si adatta anche all’alimento che può essere prodotto in quel periodo dell’anno. Questo lo considero un approccio fondamentale.

Lasciare il terreno in equilibrio, o permettergli un miglior equilibrio – e Fukuoka ce lo insegna – in sé non è poi una cosa complessa, è legata probabilmente alla non-azione, che non vuol dire non far niente, piuttosto non aspettarsi niente da quel che si fa. Non avere un preconcetto, cosa molto legata all’attitudine scientifica, all’idea che la logica mi dice che arrivo a quello.

Poi un fatto fondamentale per me è che se non ci si diverte il progetto è sbagliato. Da qui il lavoro su se stessi. Ho notato che c’è sempre un parallelismo fra lo stato della terra e lo stato delle persone che ci vivono.»

Tu sei stata un’agricoltrice. Facevi agricoltura biologica in senso convenzionale?

«No, io ho fatto agricoltura ultra biologica. Da me quando venivano a controllare ridevano perché io ero oltre Fukuoka, cioè facevo produzione però sempre seminando su sodo oppure con falsa semina. Però facevo agricoltura nel senso che producevo e vendevo. Ma non usavo niente, nemmeno le cose che nel biologico sono ammesse, che per me sono dei veleni comunque. Anche la quantità d’acqua che è ammessa è assurda; le piante non hanno bisogno di acqua per crescere, hanno bisogno solo di umidità, quindi se mai lavorare su quello, sulle stagioni. Ho smesso, perché prima di tutto che senso ha produrre così tanto? Sì, vendere, però con la fatica di star dentro a un sistema. E allora ho detto: io preferisco non aver terra; piuttosto che produrre, raccogliere quel che mi serve e che si autoproduce, e vivere in questa maniera, sempre con meno tensioni, meno problemi, meno necessità di soldi. Qui viviamo con molto poco, ma benissimo.»

Ci sono invece aziende in Italia che producono in permacoltura?

«Producono per vendere dici? Difficile perché la gente fa il processo che faccio io. Inizi ma poi dici: chi me lo fa fare? Perché non è il produrre che interessa.»

Cioè è un metodo che va bene per l’autoproduzione a livello di piccole comunità ma non per il commercio?

«No, va bene per il commercio ma questo non è proprio lo spirito della permacoltura. Io ho venduto localmente, sono tuttora agricoltrice quindi potrei farlo ancora ma preferisco scambiare. Ho olio? Lo scambio con qualcosa che non ho. Questo sì che è nello spirito della permacoltura: hai tutto quello che cresce intorno a te e quello che non hai lo scambi. Perché il punto non è essere autosufficienti; esserlo non ti permette di scambiare idee e altro ancora con le persone.»

Dalle mie letture ho colto una differenza abbastanza netta fra permacoltura e agricoltura naturale. Nella prima c’è un accento abbastanza forte sulla progettazione, quindi un’impostazione razionale; nella seconda invece sul discorso del non fare, dell’immergersi nei sistemi naturali, il cosiddetto Tao. Nell’ascoltare te mi è sembrato invece che questa differenza si sfumasse parecchio, che ci sia una sorta di territorio comune fra le due tecniche.

«Io non vedo differenze, vedo che sono due ambiti. Diciamo che se tu fai progettazione, non è detto che hai un’azione; tu solo progetti ed è qualcosa di innato per un essere umano: noi osserviamo, badiamo, modifichiamo e continuiamo a progettare dentro la nostra testa. Anche i bambini progettano. Poi decidi tu quanta azione hai bisogno e quanto vuoi modificare. È qualcosa che fa anche Fukuoka: osserva, dopo di che decide cosa vuole ottenere dalla terra e lo fa esattamente come fa la natura. La permacoltura può essere lo stesso perché imita i processi naturali. Io non vedo nessuna differenza, solo una varietà di livelli di necessità d’azione.

Poi ci sono persone che prendono la permacoltura un po’ più tecnicamente. Non è che la tecnica non sia interessante, è interessantissima, però diventa obsoleta quando tu hai l’istinto e quindi riesci già a vedere come le cose andranno a finire. Se non ci riesci hai bisogno di un apporto di dati e di un calcolo. Quindi la tecnologia ci aiuta quando siamo distratti ed è un ottimo apporto anche per confermare certe intuizioni.»

Parliamo della suddivisione in zone: quali sono, quanto è importante, quanto viene seguita?

Qui Saviana ride, un po’ imbarazzata: «Le zone io durante i corsi o le faccio fare a qualcun altro oppure dico: io non le uso però adesso vi dico come funzionano. Intanto te ne dico lo scopo. Le zone suddividono le strutture che hanno bisogno di un’attenzione differente; più hanno bisogno della tua attenzione e supervisione, più devono essere vicino a te, ad esempio un orto che d’estate devi annaffiare almeno due volte al giorno devi averlo vicino. Le zone aiutano a razionalizzare questa dislocazione. Ma è ovvio che se tu hai dell’intuito non hai bisogno di esse, il buon senso ti aiuta. Iniziamo dalla zona 5, che è la parte selvatica, che tu non modifichi mai. Ma questa la puoi trovare dentro te stesso anche se tu stai a Manhattan e hai un orto sinergico sul terrazzo dove hai creato un angolo di contemplazione. Cioè è il selvatico che puoi trovare in te stesso, nella tua vera natura, oppure nella natura esterna, dove osservi e non modifichi niente, solo vedi come va senza il tuo continuo controllo. Vedi che c’è Fukuoka; c’è tutto.

La zona 4 sono i campi di produzione, gli oliveti, dove vai una, massimo due volte l’anno, alla raccolta o alla potatura o hai animali allo stato brado. Nella zona 3 iniziano i frutteti, luoghi più frequentati. Tre, quattro volte l’anno, anche di più. Stagni, laghetti, oche, anatre. Animali abbastanza indipendenti dove tu vai ogni tanto a vedere uova o nidiate. Nella zona 2 può esserci un orto esteso o un frutteto-orto: una foresta alimentare, dove puoi andarci ogni giorno.

La zona 1 è quella intorno alla casa. Tutte le cose che hanno un continuo bisogno del tuo controllo. Qui però entriamo in un discorso che faccio sempre con un po’ di fatica in ambienti occidentali perché coinvolge anche l’ego della persona. Se io prendo un sistema dipendente da me quale un figlio e gli do attenzione continua io creo dipendenza. Questo mi fa contenta se sono una mamma perché il figlio ha bisogno di me però in realtà la maggior parte di questi sistemi non hanno bisogno del nostro controllo. È un fatto che io li tengo sotto controllo per poter essere qualcuno, per  avere un’importanza. È come un orto: vogliamo farlo? Facciamolo, però è un sistema dipendente, non è un’agricoltura naturale, anche se lo fai sinergico. Ma uno si deve guardare dentro: io chi devo controllare? Non riesco neanche a controllare me stesso e controllo anche la fauna e la flora esterna? È per questo che questa cosa delle zone è utile per chi inizia da zero ma poi va superata. C’è infine la zona 00 che pare sia una novità della permacoltura italiana e che è la tua psiche. La zona 00 è fondamentale anche perché se non risolvi quella che cavolo sei venuto in vita su questo pianeta? Ed è la zona 5 che ti aiuta a comprendere la zona 00 e viceversa. Sono molto connesse.»

Dall’orizzontale al verticale: permacoltura significa coltivare su tre dimensioni quindi anche qui simulare la struttura di una foresta con alberi d’alto fusto, di basso fusto, cespugli, erbe e suolo. Parlami un po’ di questo.

«Sono molti di più i livelli; sono infiniti», mi corregge Saviana. E ritorna nelle sue parole l’idea della non confinabilità dei sistemi naturali entro schemi stilizzati, si riaffaccia il pensiero di Fukuoka. Poi Saviana si immerge in un complesso discorso in cui si intrecciano la compresenza dei livelli spaziali con quelli temporali «che molto spesso non si considerano», mi parla delle nicchie: «dove c’è spazio, tempo ed energia, lì può crearsi qualcosa, c’è l’essere che te la può trasformare», una visione dinamica fatta più di flussi di energie che di materie statiche. Le domando se il suo concetto di “nicchia” è in relazione con quello di “margini” e ciò la conduce a una dissertazione sul rapporto fra forma e funzione: «Il progettista cosa fa? Impone una forma. Io penso invece che la forma non la possiamo imporre, perché la imponi a chi? A duemila flussi di energia di cui a malapena riesci a vederne tre? E allora devi capire perché noi abbiamo questa forma. Se tu hai uno spazio tu devi pensare all’energia che passerà. Questa energia lascia una forma. Quindi la forma è secondaria. Ci sono tantissime forme che svolgono la stessa funzione.» Mi parla dell’inseparabilità delle innumerevoli componenti di un sistema: «la permacoltura è fatta di connessioni, utili connessioni. La nostra mente scinde tutto, divide, per comprendere siamo sempre lì che dividiamo mentre quando togli le membrane e vedi tutto insieme è abbastanza pauroso riuscire a rendere conto dei flussi di energia che possono esserci in una foresta e quindi poterli riproporre».

Per chi come me proviene dalla lettura di testi di agricoltura “normale”, biologica o chimica che sia, ascoltare Saviana equivale a discutere di fisica quantistica dopo aver letto un trattato di fisica classica. Ci si trova insomma immersi in tutt’altro mondo. Le domando infine con quale piede partire quando si vuol cominciare a impiantare un sistema permacolturale. «Credo che l’osservazione aiuti più di tutto» mi risponde «poi si parte con le piante pioniere, piante più resistenti, che crescono velocemente, che fanno ombra. È anche interessante modificare il meno possibile raccogliendo quello che si può. Ad esempio io ho seguito varie scuole di potature a alla fine sono arrivata a Fukuoka e non poto più.»

Mi descrive poi il processo concettuale che porta a trasformare una nicchia in un sistema produttivo ma aggiunge anche: «però vedi che stiamo rendendo il sistema sotto il nostro controllo e a me non piace molto questa cosa, preferisco andare a raccogliere.»

Filippo Schillaci

One thought on “Produrre? No, raccogliere Incontro con Saviana Parodi”

  1. Bellissimo leggere Saviana, preziosa ispirazione per tutti noi “diversamente agricoli”. E dunque…chi dice a Filippo Schillaci che se gli esperimenti concreti in Italia non li ha trovati forse non li ha cercati abbastanza?
    Molti non usano internet e non sono sui giornali, eppure sono nostri maestri, come Saviana. Vi invitiamo dunque a cercar meglio, prima di dire che in Italia non ci sono esperienze concrete!

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