Da qualche tempo la politica, l’economia, gli ambienti accademici stanno contrabbandando per “bioeconomia” qualcosa di molto diverso da quello che questo termine ha assunto nel dibattito scientifico e culturale. In occasione di un convegno promosso dalla Regione Lombardia sdal titolo La bioeconomia come chiave per lo sviluppo futuro tutto declinato in termine di biogas, biomasse, chimica verde, terreno di spregiudicate operazioni speculative che implicano a fronte di rendite parassitarie pesanti impatti sociali ed ambientali ci è parto doveroso puntualizzare la mistificazione insita nell’attribuire l’etichetta “bioeconomica” a queste operazioni del biocapitalismo speculativo e predatorio

Origine della bioeconomia

La bioeconomia o economia ecologica ha come padre fondatore Nicholas Georgescu-Roegen, matematico-statistico ed economista rumeno scomparso nel 1994. Professore di economia presso la Vanderbilt University di Nashville, Tennessee, sale alla ribalta con l’opera The Entropy Law and the Economic Process del 1971, che scava una profondo solco con il pensiero economico classico incorporando nel ciclo produttivo le leggi della fisica. Egli sostiene, in particolare, che la scienza economica non può ignorare il secondo principio della termodinamica, secondo il quale in ogni processo l’energia subisce un incremento di entropia, un degrado che ne riduce la qualità e quindi la possibilità di compiere lavoro. Georgescu-Roegen propone anche un quarto principio della termodinamica, applicato ai materiali, e per spiegarlo porta l’esempio di una moneta di rame che, girando di mano in mano, si usura, disperdendo molecole qua è la e perdendo così la sua integrità e utilità. Il medesimo destino attende qualsiasi altra materia che entra nel ciclo produttivo: precedentemente concentrata nei giacimenti o in altri luoghi, una volta dispersa nell’ambiente non può più essere ricomposta o lo può essere solo parzialmente e al prezzo di un elevato dispendio energetico. Qualsiasi attività economica che produce beni materiali diminuisce così la disponibilità di energia e materia per il futuro e quindi la possibilità di produrre altri beni materiali.

Il processo economico non può più ora essere inteso come un processo circolare, permanente e riproducibile all’infinito. Diviene invece un processo unidirezionale (secondo la freccia entropica) e irreversibile, senza possibilità di ritorno alle condizioni iniziali, accompagnato da un progressivo deterioramento del sistema fino al suo totale scompaginamento (la morte termodinamica).

 

 Evoluzione del pensiero di Georgescu-Roegen

 

Oggi nessuno mette più in discussione l’applicabilità della legge di entropia al processo economico ma, diversamente da Georgescu-Roegen, si pongono distinzioni tra gli ambiti di applicazione. L’irreversibile degradazione della materia e dell’energia è tale solamente nei sistemi isolati, che non hanno scambi con l’esterno; non lo è necessariamente nei sistemi chiusi o aperti, che scambiano energia (i primi) e anche materia (i secondi) con l’esterno. L’ingresso di energia e materia va ad abbassare l’entropia del sistema (si introduce entropia negativa) e, se questo abbassamento è superiore all’incremento interno, non si ha degrado del sistema, bensì una maggiore strutturazione. I sistemi economici non sono isolati, quindi per essi questo bilancio entropico è decisivo. Nel caso sia favorevole (entropia negativa superiore all’incremento interno), il sistema conserverà o migliorerà la sua capacità produttiva. Ciò non contraddice il secondo principio della termodinamica, perché il degrado esiste, non è eliminato; semplicemente è scaricato all’esterno. Il processo economico, cioè, si conserva a danno dell’ambiente, che si vede distruggere le risorse e ricevere inquinanti che impattano sugli ecosistemi e sugli equilibri ecologici. Da qui la necessità di porre dei limiti al sistema economico e allo sfruttamento delle risorse, idea che sta alla base della teoria della decrescita, della quale Georgescu-Roegen va considerato capostipite.

Secondo la concezione originaria, la bioeconomia, non può pertanto essere svincolata dalla decrescita. Va ritenuta, perciò, inconciliabile con il capitalismo (ma anche con il marxismo) e la visione antropologica sottesa. Avendo al centro la competizione, il capitalismo non ammette limiti, alla crescita come allo sfruttamento delle risorse. L’uomo competitivo (l’homo, homini, lupus di Hobbes) ne è il dominatore e tutto è al suo servizio, a sua disposizione, controllato e regolato. Diverse sono state le forme di capitalismo succedutesi nella storia, ma tutte, pur con diverse sfumature, hanno recepito questi paradigmi. Chi ritiene che il capitalismo sia piegabile a logiche meno invasive e aggressive, di contenimento, forse non ha compreso fino in fondo la natura di questo modello. Senza competizione e crescita il capitalismo non solo non è più tale, ma implode, perché incapace di stazionarietà, condannato a crescere.

 

Il tradimento

 

Negli ultimi tempi si è venuto imponendo un modello di bioeconomia (e, allargando il campo, di Green economy) molto lontano, purtroppo, da quello di Georgescu-Roegen, un modello che sarebbe più corretto definire biocapitalista o con altro appellativo privo del prefisso bio, eco o green. Accettando acriticamente e pienamente i tratti essenziali della competizione e della crescita, questo modello si è fatto fagocitare dentro il paradigma capitalista, mantenendone la visione antropocentrica e, in definitiva, il medesimo rapporto di sfruttamento nei confronti della natura. Il darwinismo sociale non è stato rigettato, per cui l’uomo è ancora inteso come un essere essenzialmente competitivo, non empatico. Nonostante un’indubbia maggiore sensibilità ambientale, espressa nell’opzione per le fonti energetiche rinnovabili e le sostanze naturali, nella centralità delle biotecnologie e nel continuo richiamo alla sostenibilità, l’ambiente è ancora accostato anzitutto come una risorsa, non la casa in cui abitiamo. L’uomo si percepisce ancora come un soggetto al di fuori della biosfera e delle sue reti ecologiche, con il potere di decidere suldestino degli ecosistemi e delle altre forme viventi.

Egli non sicoglie ancora come entità in relazione, stoltamente convinto che sia la biosfera ad avere bisogno di lui e non viceversa. Anche quando intende operare virtuosamente a tutela della natura e della biodiversità egli lo fa ponendosi all’esterno, come colui che può impunemente decidere del destino di tutto. Si tratta ancora di un atteggiamento ecologico superficiale, di tipo sostanzialmente riparativo, oggi del tutto inadeguato a fronteggiare la gravità dei problemi ambientali. Un esempio emblematico è la valutazione monetaria dei servizi ecosistemici, quei servizi che gli ecosistemi svolgono in favore della collettività (produzione di materie prime, filtrazione dell’acqua, depurazione dell’aria, protezione dei suoli, stoccaggio di carbonio, tutela della biodiversità e così via). Ciò permette di introdurre in un bilancio economico il valore degli ecosistemi, proteggendoli così dalla distruzione, o per compensare chi con la propria attività li conserva. Sono finalità indubbiamente buone, ma che non tutelano fino in fondo gli ecosistemi laddove il valore di potenziali investimenti fosse in termini economici molto elevato. Sarebbe ancora un approccio semplificatorio e riduzionista, antropocentrico, che sacrifica la complessità degli ecosistemi e aliena l’uomo dalla natura.

Un’economia autenticamente biologica, come quella ispirata alle intuizioni diGeorgescu-Roegen, adotta invece un’ecologia profonda, ecocentrica, capace di riconoscere l’intelligenza della natura e imparare da essa, dove l’empatia ha il primato sull’aggressività, dove l’uomo sa vedersi inscindibilmente connesso alle reti ecologiche della vita. Solo in questa prospettiva, nel primato dell’ecologia sull’economia diviene possibile una protezione dell’ambiente in linea con le gravi necessità del momento attuale.

 

Fausto Gusmeroli

Fonte: Ruralpini.it

 

 

 

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