Pubblichiamo l’intervista a Maurizio Pallante e Serge Latouche uscita su La Décroissance. Journal de la joie de vivre, n. 138, aprile 2017, pagg. 14-15. Ringraziamo Vincent Cheynet per averci concesso l’autorizzazione alla pubblicazione del testo che segue.

Maurizio Pallante è il papa della decrescita felice in Italia. È autore di di molte opere su questo argomento, tra cui un successo in francese: La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal Pil (Nature et Progrès, 2011). Questo libro ha una prefazione di Serge Latouche, personaggio importante della decrescita in Francia, ma anche dall’altro lato delle Alpi. Con il filosofo Alessandro Pertosa, Maurizio Pallante ha appena pubblicato Solo una decrescita felice (selettiva e governata) può salvarci, Lindau 2017. In questa opera gli autori mettono in discussione alcune posizioni di Serge Latouche sull’argomento. Ne abbiamo approfittato per proporre loro di dibattere su tre punti cruciali. 

La decrescita è uno “slogan” per aprire una breccia nel sistema oppure una proposta politica?

Serge Latouche: Di fronte al trionfo dell’ultraliberalismo e alla proclamazione arrogante del famoso TINA (there is no alternative) di Margaret Thatcher, la piccola massoneria degli antisviluppisti ed ecologisti non poteva più accontentarsi di una critica teorica quasi confidenziale sul modello dei terzomondisti. L’altra faccia del trionfo dell’ideologia del pensiero unico era lo slogan consensuale dello «sviluppo sostenibile», un bell’ossimoro lanciato dal PNUE (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per tentare di salvare la religione della crescita di fronte alla crisi ecologica, a cui il movimento altermondialista sembrava adattarsi perfettamente. Pertanto era urgente, all’inizio del XXI secolo, opporsi al capitalismo del mercato globalizzato un altro progetto di civiltà o, più esattamente, dare visibilità a un disegno in gestazione da lungo tempo, ma che camminava in modo sotterraneo. È così che personalmente sono arrivato alla decrescita, attraverso la critica culturale dello sviluppo. Questa necessità sentita da tutta una corrente dell’ecologia politica e dei critici dello sviluppo di rompere con la langue de bois dello sviluppo sostenibile ha indotto a riprendere la parola decrescita e a farne in primo luogo una «bomba semantica», o una «parola proiettile» capace di rompere il consenso molle alla sottomissione all’ordine produttivistico dominante. Il termine non è dunque in partenza un concetto e, in ogni caso, non è il simmetrico della crescita, ma uno slogan politico provocatore, con l’obiettivo soprattutto di farci ritrovare il senso dei limiti; in particolare la decrescita non è la recessione, né la crescita negativa. Diventata rapidamente il vessillo sotto cui si sono radunati tutti coloro che aspiravano alla costruzione di una vera alternativa a una società di consumo ecologico e socialmente insostenibile, la decrescita costituisce ormai una finzione performativa per indicare la necessità d’una rottura con la società della crescita e favorire l’avvento di una nuova civiltà. Si tratta di costruire una società altra, una società d’abbondanza frugale. La decrescita costituisce così un progetto rivoluzionario, nel senso che presuppone una rottura radicale col sistema sociale in vigore, cioè la società della crescita. Tuttavia non è immediatamente un progetto economico, ovvero di un’altra economia, ma un progetto sociale che implica di uscire dall’economia come realtà e come discorso imperialisti. La prima rottura presupposta dal progetto decrescente consiste nel decolonizzare il nostro immaginario e quindi nell’uscita dalla religione della crescita, e a rinunciare al culto dell’economia (uscire dall’economia). Evidentemente attaccare la crescita economica costituisce un attentato al potere dei «nuovi padroni del mondo» e, in questo senso il progetto tocca i fondamenti del politico moderno e ha delle implicazioni politiche. Ciò non ne fa, tuttavia, un progetto politico in senso stretto, in questo senso da una parte l’organizzazione dell’ordinamento politico, o entità politica, che metterebbe in opera una politica di decrescita resta indeterminata tanto nella sua forma quanto nella sua organizzazione e nel suo modo di funzionamento, e d’altra parte perché questo progetto non prevede una strategia di «presa del potere». Non un progetto politico, dunque, in ogni caso non immediatamente politico, ma sociale – la società d’abbondanza frugale come orizzonte di senso – sicuramente con implicazioni politiche.

Maurizio Pallante: Ho delle forti perplessità a pensare che la decrescita possa essere considerata uno slogan. Innanzitutto perché la parola slogan deriva dalla sintesi di due parole gaeliche che significano “grido di battaglia” ed è entrata nel vocabolario dei Paesi occidentali all’inizio del secolo scorso come la forma del linguaggio tipico della pubblicità, ovvero di un linguaggio non dialogico tra interlocutori alla pari, ma imposto da parte di un mittente che vuole condizionare i comportamenti dei riceventi affinché agiscano in base alle sue esigenze. Lo slogan è costituito da brevi frasi a effetto, facilmente memorizzabili, per indurre il bisogno di comprare qualcosa. Al di là della sua funzione specifica, è la sua connotazione di linguaggio caratterizzato dalla volontà di sopraffazione a essere incompatibile con la decrescita, che è una proposta libertaria, volta a suscitare un processo di emancipazione degli esseri umani dalla subordinazione della loro vita, della loro intelligenza, dei loro affetti, dei loro desideri, della loro creatività, alle esigenze di un’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci. Questo processo di emancipazione può avvenire solo sulla base di un confronto alla pari, tra uomini e donne che si rispettano reciprocamente e che con lo stesso rispetto si propongono di coinvolgere un numero sempre maggiore di persone alle loro riflessioni, che non possono rimanere sterili ma hanno l’obiettivo di promuovere dei cambiamenti negli stili di vita, nei modelli di comportamento e nel sistema dei valori.

La decrescita è una a-crescita (uscita dalla crescita) oppure una decrescita dei paesi ricchi?

Maurizio Pallante: La parola decrescita significa diminuzione. La parola a-crescita significa senza aumento. I due concetti sono diversi e possono dare esiti opposti. Se una persona rimane per più giorni con la febbre a 40, la sua temperatura non cresce, ma le sue condizioni di salute peggiorano. Se invece la febbre diminuisce a 37 gradi, migliorano. L’esito della decrescita è diverso a quello dell’a-crescita.

Per ridurre la crisi ecologica non basta abbandonare la fede nella crescita, occorre promuovere concretamente la decrescita come proposta culturale e politica. Le risorse rinnovabili che la biosfera rigenera nel corso di un anno vengono consumate dall’umanità prima della metà di agosto. Se l’economia smettesse di crescere non se ne consumerebbero di più, ma si continuerebbe a consumarne più di quante la biosfera è in grado di rigenerare. Un miglioramento si può ottenere solo se i consumi di risorse rinnovabili diminuiscono. Le emissioni di CO2 si accumulano nell’atmosfera facendo salire la temperatura della Terra. Se smettessero di crescere, le loro concentrazioni continuerebbero ad aumentare. Per ridurre le concentrazioni, occorre che le emissioni diminuiscano. Lo stesso vale per i rifiuti non biodegradabili e per tutti i fattori inquinanti. Solo una diminuzione dei consumi e delle emissioni consente di rientrare nei limiti della compatibilità ambientale. La decrescita è dunque la strada da intraprendere al più presto, ma non la meta da raggiungere. La meta può essere l’a-crescita?

L’orizzonte a cui fa riferimento la decrescita è definito da due pilastri: la compatibilità ambientale e l’equità, tra gli esseri umani e tra la specie umana e le altre specie viventi. L’abbandono della fede nella crescita è una condizione necessaria, ma non sufficiente per avvicinarsi progressivamente a questi obiettivi. Senza altre indicazioni può essere addirittura fuorviante. La riduzione degli sprechi energetici e lo sviluppo delle fonti rinnovabili non sono l’unico modo per frenare la crescita delle emissioni di CO2. Anche lo sviluppo dell’energia nucleare lo consente, ma genera altre terribili forme d’inquinamento per molti secoli. L’impronta ecologica dell’umanità può essere stabilizzata sia riducendo il consumo di risorse rinnovabili dei popoli ricchi, che eccedono l’impronta ecologica media pro-capite sostenibile dalla biosfera, sia riducendo ulteriormente il consumo di risorse rinnovabili dei popoli poveri, che non hanno il necessario per vivere. L’abbandono della fede nella crescita, l’a-crescita, non implica di per sé una riduzione dell’impatto ambientale e delle iniquità tra gli esseri umani e tra la specie umana e le altre specie viventi. Dobbiamo intraprendere la decrescita.

Serge Latouche: Per parlare in modo rigoroso bisognerebbe senza dubbio utilizzare il termine di a-crescita, con la «a» privativa greca, come si parla di a-teismo, piuttosto del termine decrescita. D’altra parte si tratta esattamente dell’abbandono di una fede e di una religione. Poiché anche la crescita è una fede, conviene, in effetti, diventare atei della crescita e dell’economia, agnostici del progresso e dello sviluppo. La decrescita non è un’uscita dalla crescita, per parlare correttamente, ma piuttosto dalla società della crescita. La parola non deve dunque essere presa nel suo senso letterale: decrescere per decrescere sarebbe altrettanto assurdo che crescere per crescere. Beninteso i decrescenti vogliono far crescere la qualità della vita, dell’aria, dell’acqua e di una quantità di cose che la crescita per la crescita ha distrutto. La rottura della decrescita è basata sia sulle parole che sulle cose, implica una decolonizzazione dell’immaginario e la messa in pratica di un altro mondo possibile. La decrescita non è l’alternativa, ma una matrice di alternative, che riapre l’avventura umana alla pluralità di destini e alla creatività, sollevando la cappa di piombo del totalitarismo economico. Si tratta di uscire dal paradigma dell’homo oeconomicus, o dell’uomo a una dimensione di Marcuse, principale fonte dell’uniformazione planetaria e del suicidio delle culture. Evidentemente per le società del Sud l’uso dello slogan «Decrescita» sarebbe assurdo, quasi indecente. In alternativa, il progetto di costruire una società di abbondanza frugale ha tutto il suo senso. Riaprendo lo spazio alla diversità culturale, la decrescita è fondamentalmente plurale, da cui una preferenza per un pluriversalismo piuttosto che l’adesione a un universalismo sempre sospetto di occidentalo-centralismo. Il cammino verso la società d’abbondanza frugale può dunque essere preso in considerazione da tutte le società e, a priori, dalle più diverse organizzazioni politiche. Ne consegue che la società di a-crescita non si realizzerà nella stessa maniera in Europa, nell’Africa sub-sahariana o in America latina, né sotto il vessillo della parola slogan «decrescita», intraducibile al di fuori delle lingue neolatine, e assurdo per le società in cui la popolazione vive al di sotto della soglia della povertà. Non si può dunque proporre un modello chiavi in mano di una società di decrescita, ma solo lo schizzo dei fondamentali di ogni società non produttivista sostenibile, e degli esempi concreti di programmi di transizione.

Possiamo parlare della decrescita senza austerità (nel senso di Illich o Berlinguer) senza cadere nella demagogia?

Serge Latouche: Come ogni società umana, una società di decrescita dovrà organizzare la produzione della propria vita, e per questo utilizzare ragionevolmente le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e servizi, ma un po’ come quelle società d’abbondanza dell’età della pietra descritte da Marshall Salhins, che non sono mai entrate nell’economico1. Non lo farà nella camicia di forza della rarità, del bisogno, del calcolo economico e dell’homo oeconomicus. Queste basi immaginarie dell’istituzione dell’economia devono anche essere rimesse in discussione. Come aveva ben visto il sociologo Jean Braudillard a suo tempo, il consumismo genera «una pauperizzazione psicologica», uno stato d’insoddisfazione generalizzata, che «definisce – egli dice – la società della crescita come il contrario di una società d’abbondanza»2. È giustamente la frugalità/austerità/sobrietà ritrovata che permette di ricostruire una società d’abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Ovvero «il modo di vivere in un’economia post-industriale in cui le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza dal mercato e ci sono arrivate proteggendo – attraverso scelte politiche – una struttura nella quale tecniche e strumenti servono, in primo luogo a creare valori d’uso non quantificati e non quantificabili dai fabbricanti professionisti di bisogni»3. Da qui deriva l’idea di una società senza crescita che sia sostenibile, equa e prospera che non può che essere frugale, sobria o austera. «Per Aristotele come per Tommaso d’Aquino, nota ancora Illich, l’austeritas è ciò su cui si fonda l’amicizia. Trattando del gioco ordinato e creatore, Tommaso definisce l’austerità come una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile che la supera e l’ingloba: è la gioia, l’eutrapelia, l’amicizia.4» L’abbondanza frugale non è più allora un ossimoro, ma una necessità logica. «La scelta – nota correttamente Jacques Ellul – è tra un’austerità subita, inegualitaria, imposta dalle circostanze sfavorevoli e una frugalità condivisa, generale, volontaria e organizzata, derivante da una scelta per una maggiore libertà e meno consumi di beni materiali. Sarebbe una scelta legata a un consumo allargato di beni di prima necessità […] un’abbondanza frugale5». Poiché l’austerità ha legato il suo destino con le sinistre politiche economiche di precarietà, imposte dai diversi governi europei ai cittadini, noi preferiamo, come Ellul, utilizzare il termine di frugalità (ossia sobrietà).

Maurizio Pallante: Senza analizzare le analogie e le differenze tra l’austerità teorizzata da Berlinguer, la sobrietà di Illich e la frugalità di Latouche, queste definizioni sono accomunate dalla finalità di ridurre i consumi. Da ciò deriverebbe una riduzione degli investimenti e, di conseguenza, dell’occupazione. Io credo che la proposta della decrescita debba fondarsi sulla consapevolezza di cosa sia la crescita economica. L’indicatore con cui si misura il prodotto interno lordo è il valore monetario dei prodotti e dei servizi, scambiati con denaro nel corso di un anno. Cioè delle merci. Non dei beni, ovvero dei prodotti e dei servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Ci sono delle merci che fanno crescere il Pil, ma non hanno nessuna utilità. Ad esempio l’energia che si spreca a causa dell’inefficienza (in Italia è il 70%, in Francia forse ancora di più), il cibo che si butta (in Italia l’ISTAT ritiene che sia l’1% del Pil, ma è sicuramente una valutazione per difetto), l’abuso di farmaci, l’obsolescenza programmata ecc. D’altra parte ci sono beni che non fanno crescere il Pil perché non vengono comprati: i beni autoprodotti o scambiati sotto forma di doni reciproci nell’ambito di rapporti comunitari (ciò che Illich definiva «economia vernacolare»). E ci sono beni che non si possono comprare ma danno un senso alla vita, i beni relazionali, mentre molti di quelli che si comprano generano insoddisfazione e frustrazione. Se si riduce la produzione e il consumo delle merci che non hanno alcuna utilità, se si riduce la produzione di merci perché aumenta la produzione dei beni autoprodotti o scambiati sotto forma di dono, se si riduce il tempo di lavoro perché si dedica più tempo agli affetti, si riduce la crescita, ma non ci si priva di ciò che è utile e piacevole e si riscopre la dimensione di un benessere reale che non può essere soddisfatto dal consumismo.
La valorizzazione del benessere al posto di un’abbondanza che genera malessere si può definire demagogia?

1 Marshall Salhins, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980.
2 Jean Braudillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna 2010.
3 Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli, Milano 2005.
4 Ivan Illich, La convivialità, Red Edizioni, 2013.
5 Jacques Ellul, Lavoro e religione. Per chi e perché lavoriamo?, Fondazione Centro Studi Campostrini, 2015. Anticipando la decrescita Bernard Charbonneau e Jaques Ellul organizzano una conferenza intitolata «La rivoluzione per una civilizzazione ascetica, contro la miseria e contro la ricchezza». Anche Illich evoca la necessità di una ascesi. Se nel senso del greco askésis, si tratta di una necessaria disciplina, la parola ha assunto una connotazione mistica che la rende difficilmente utilizzabile per rendere popolare il progetto della decrescita.

 Fonte: Lindau.it

One thought on “Decrescita o a-crescita? Un’intervista a Serge Latouche e Maurizio Pallante”

  1. Ma siete usciti dal 4 maggio in Italia?
    DECRESCITA FELICE DOVE?????
    la gente forsennata in giro, per i parchi, per le strade lasciando il motore acceso dell’auto (esattamente come prima)
    I negozi di scarpe, borse, che vengono languidamente desiderati sotto i portici…
    Ieri pomeriggio abbiamo assistito all’inseguimento forsennato da parte di due ragazze verso un gruppetto di coetanei per sapere dove avevano preso lo Spritz d’asporto…
    Siamo senza aria dicevano abbiamo bisogno dell’Apericena…
    E le code davanti ai risto per il take away…??
    tutti in fila come in mensa per portare a casa il vezzo del ristorante delle “impareggiabili prelibatezze della cucina parmigiana,”cosi si legge nella vetrina del locale!
    Ergo,
    o l’uomo e’ inemendabile e la malasorte o il virus di turno non ha insegnato nulla, o sta benone e non ha nessuna voglia di cambiare.
    Purtroppo direi, ma stiamo coi piedi per terra, il cluod lasciamolo ai software
    Ditemi voi…
    Io 4 figli allegra mente molto adulti guardo il loro comportamenti che non hanno intenzione di grandi cambiamenti

    Attendo con gioia

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