A fine novembre, nella totale indifferenza della classe politica italiana, la Commissione europea ha pubblicato un documento dal titolo “La Pac verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio”. Pac sta per Politica agricola comunitaria. È uno dei capitoli più importanti della politica europea, anche dal punto di vista del bilancio. All’agricoltura è infatti destinato il 34% del bilancio complessivo dell´Unione, da sommare ad un ulteriore 11% destinato allo sviluppo rurale. Quarant’anni fa l’agricoltura assorbiva ben il 70% del bilancio comunitario, ma per una volta possiamo salutare questa inversione di tendenza con favore, perché, sia pure nella drastica riduzione dei fondi disponibili, sta cambiando in meglio sia il modo di utilizzarli, sia la visione complessiva di cui il comparto è oggetto.

Le linee guida e le priorità di questo documento condizioneranno contributi, investimenti ed economie degli stati membri dell´Unione e per questo la discussione coinvolge classi dirigenti e società civile. In Francia, ad esempio, si costruisce non solo identità e comunicazioni, ma anche significativi pezzetti di economia, sulla competenza diffusa a proposito di agricoltura, e negli anni più recenti, il movimento della società civile si è coagulato proprio intorno a un sindacato contadino che, nel bene e nel male, ha consentito che non si smettesse di parlare di agricoltura nelle case, nei bar, sui giornali, anziché solo nelle “sedi deputate”.

In Italia, invece, di agricoltura non si parla. Certo, il cibo è al centro dei nostri dibattiti culturali e mondani, economici e sociali. Negli ultimi vent’anni persino la sinistra ha iniziato ad accettare l’idea che occuparsi di cibo non è cosa indegna per un vero intellettuale, e la destra ha iniziato ad accettare l’idea che occuparsi di cibo non deve solo servire a solleticare i peggiori istinti identitari e nazionalisti. Ma l’agricoltura resta un argomento da evitare, buono per riunioni tecniche e convegni noiosi che potendo non si sceglierebbe di frequentare.

L’Italia del dopoguerra, proiettata sulla siderurgia, l’edilizia, il massacro di coste e ambiente a fini di lucro e di sedicente progresso, vedeva nell’agricoltura un imbarazzante ritratto di quel che era stata: povera, arretrata, inadeguata. Così per decenni i ministeri dell’agricoltura furono i meno ambiti. E gli ultimi due ministri, pur appartenendo allo stesso governo, si sono distinti per politiche e visioni totalmente opposte. Quote latte, Ogm, nuova ruralità: se il primo, Luca Zaia, diceva bianco, il secondo, Giancarlo Galan, dice nero. C’è da chiedersi cosa pensino a Bruxelles di questa politica schizofrenica; di certo, queste contraddizioni non sono state intercettate dall’opposizione perché su questi temi è più confusa dei due ministri.

Ci rincuora, invece, la recente presa di posizione degli assessori regionali all’agricoltura che, all’unanimità, hanno invitato il ministro Galan a rinunciare a stabilire le regole della coesistenza tra coltivazioni Ogm e coltivazioni convenzionali o biologiche e a definire invece le clausole di precauzione. L´Italia non ha bisogno di Ogm. Ha bisogno di un’agricoltura dei territori e della qualità, al servizio dell’ambiente e del tessuto sociale. Questo infinito, paziente lavoro lo svolge l’agricoltura di piccola scala, che è quella che dagli Ogm sarebbe completamente spazzata via, e che ha bisogno di riconquistare un posto nei conversari delle feste.

Quanto sia in salita il percorso che collega la società civile alle sedi istituzionali lo abbiamo visto tante volte, eppure qualcosa sta cambiando. Per tutto il 2010, il nuovo commissario europeo all’Agricoltura, Dacian Ciolos, ha consultato non solo le organizzazioni di categoria, ma anche il movimento dei consumatori, le associazioni ambientaliste e i piccoli produttori. Questo confronto deve continuare e si deve sviluppare anche in Italia, altrimenti il nostro Paese resterà fuori da questo importante momento decisionale. Si fa un gran parlare di nuovi posti di lavoro e di come uscire da questa drammatica crisi e non si mettono in conto le straordinarie potenzialità di una nuova politica agricola.

Il documento pubblicato dalla Commissione a novembre lascia ben sperare, perché chiarisce, fin dal titolo, che l’agricoltura è una cosa che riguarda parecchi settori: l’alimentazione, certo, ma anche l’ambiente e il territorio. La sostenibilità è la parola chiave, anche quando si chiarisce che uno degli obiettivi resta ovviamente quello di assicurare l’approvvigionamento alimentare: produrre, certo, ma in maniera sostenibile. Allo stesso modo, ed è il secondo obiettivo, occorre ragionare di comunità agricole, perché sono loro che garantiscono – a lungo termine – la gestione assennata delle risorse naturali, la mitigazione dei cambiamenti climatici, la tutela della biodiversità, la dinamicità di un territorio e la sua vitalità economica.

E il terzo obiettivo ha di nuovo a che fare con la sostenibilità, quando parla di preservare le comunità rurali (che sono qualcosa di più complesso, diversificato e ampio delle comunità agricole), per le quali a partire dall’agricoltura è possibile creare occupazione locale, con una serie di effetti positivi a cascata sull’ambiente, la società, i territori. Per tutti questi motivi forse è giunto il momento di considerare non solo la matrice cristiana dell’Europa, ma il fatto che certamente gli europei hanno una matrice contadina. Proviamo a ricordarcene un po’ più spesso.

(Carlo Petrini, “Il paese del buon cibo che umilia i contadini”, da “La Repubblica” del 28 dicembre 2010, www.repubblica.it).

Fonte: Libre

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