In questi giorni ferragostani in cui incendi apocalittici in Russia e bibliche alluvioni nell’Europa Centrale, in India, Pakistan e Cina, sembrano volerci scuotere dai nostri stanchi rituali vacanzieri per sbatterci in faccia l’evidenza dei cambiamenti climatici in atto, ho ritrovato e riletto “La fine del lavoro”, un libro del 1995 di Jeremy Rifkin.

Con lucida preveggenza Rifkin descriveva il progressivo aumento della disoccupazione, in seguito alla sistematica automazione dei processi produttivi. La sostituzione, in pratica, di tutti i lavoratori: operai, impiegati, ricercatori, progettisti, da parte di macchine sempre più sofisticate, definite addirittura “intelligenti”, più affidabili, precise, e soprattutto meno costose e più obbedienti.

E come la Conferenza di Rio del 1992, con la “Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”, da cui scaturì il Protocollo di Kyoto, aveva anticipato il progressivo estremizzarsi dei fenomeni climatici di cui oggi cominciamo ad essere testimoni, così, negli stessi anni, un intellettuale, con largo anticipo, aveva descritto altri fatti di cui adesso leggiamo le notizie sui giornali.

In questi giorni, ad esempio, la Fiat, non solo delocalizza parte della produzione in Serbia, passando da salari di 1.200 a 300 €, ma approfitta del trasloco per attuare una ristrutturazione produttiva, che prevede di incrementare la già avanzata automazione delle suo catene di montaggio, con l’introduzione di ulteriori robot.

Quindi, non solo riuscirà a mantenere inalterata la propria potenzialità produttiva, riducendo ad un quarto il costo della manodopera, ma riuscirà, incrementando l’automazione, ad ottimizzazione ulteriormente il proprio ciclo produttivo, riducendo il numero complessivo dei lavoratori: un vero miracolo.

Le macchine, si sa, non mangiano, non dormono, non si stancano, non si ammalano, non si lamentano. Però non comprano, non pagano contributi e tanto meno le tasse.
Quindi, tenendo conto che il costo del lavoro incide il 7/8% del valore complessivo di un’auto e che quindi le mutate condizioni di produzione non incideranno significatamene sull’attuale prezzo di vendita delle auto, viene spontanea una domanda. Chi comprerà le auto prodotte in Serbia?
Non certo i lavoratori serbi pagati 300€. Tanto meno i lavoratori italiani messi in mobilità. Quindi a comprare le nuove auto prodotte in Serbia non potranno essere i lavoratori che le producono.
Chi le comprerà allora?

I profeti del mercato ci spiegano che le macchina che sostituiscono gli uomini sono progettate e costruite da altri uomini, e che quindi quando si distruggono posti di lavoro in un settore se ne creano in altri settori. Peccato che il rapporto sia di uno a dieci. Per ogni posto creato nell’automazione se ne perdono dieci nei settori automatizzati. C’è chi urla la meraviglia di macchine in grado di progettare e costruire altre macchine!
Quindi, man mano che l’automazione viene estesa ad ogni settore produttivo, paradossalmente all’aumento delle unità di prodotto corrisponde una parallela diminuzione dei posti di lavoro: una spirale perversa.

Rifkin concludeva il suo saggio auspicando che l’incremento di produttività generato dall’automazione, venisse restituito ai lavoratori, almeno, sotto forma di riduzione dell’orario di lavoro e dell’età pensionabile.
Ma questa conclusione del libro sui giornali non la sto ancora leggendo. Anzi leggo di aumentare gli straordinari e spostare in avanti l’età pensionabile.

Sicuramente sono io che non capisco le meraviglie del mondo in cui vivo, ma continuo a chiedermi come possa continuare a funzionare un processo economico che continua a produrre più merci ed a ridurre il potere d’acquisto dei propri potenziali acquirenti, o, chi pagherà in futuro le pensioni degli anziani, se i giovani non sono in grado oggi di trovarsi un lavoro e garantirsi un reddito.
Qualcuno di voi conosce la risposta?

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