In Sicilia si vietano le trivellazioni petrolifere in mare. Ma nulla si fa per quelle sulla terraferma. Un controsenso che si spiega facilmente con la volontà di non perdere gli affari del comparto energetico. Riannodiamo, allora, i fatti: nessuna trivellazione off-shore nelle acque territoriali della Sicilia. Il ministero dello Sviluppo economico ha respinto l’istanza della compagnia petrolifera Petroceltic Italia Srl per la ricerca di idrocarburi al largo delle coste siciliane, in modo da “tutelare tanto l’ambiente marino, quanto il lavoro dei pescatori”. Una decisione che fa eco a quanto espresso dalla stessa Regione lo scorso settembre, ossia “la netta contrarietà al rilascio di autorizzazioni di idrocarburi nel mare Mediterraneo nelle vicinanze dell’isola”.

Atto finale di una politica iniziata lo scorso luglio dal ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo: che cela, dietro a un insolito amore per l’ambiente da parte delle Istituzioni italiane, i tipici intrecci fra politica e affari privati. I limiti imposti alle trivellazioni in mare non riguardano quelle sulla terraferma, e soprattutto non toccano le concessioni di esplorazioni e trivellazioni attualmente in vigore nel Bel Paese. Nel frattempo, anche negli Stati Uniti Barack Obama ha imposto nuovamente il veto alle trivellazioni nei mari della Florida, uno Stato cruciale nella prossima campagna elettorale americana.

Proprio sull’onda emotiva dell’incidente alla piattaforma BP Deepwater Horizon del 20 aprile 2010, una delle più grandi catastrofi della storia, discende il nuovo veto della Regione Sicilia, ancora contraria al rilascio di autorizzazioni per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi vicino alle sue coste. Veto che ora si conferma, a diversi mesi di distanza dal provvedimento del ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, che propose al governo il divieto di trivellazioni fino a 8 km da tutte le coste italiane e 20 km dalle riserve marine.

A differenza del presidente Obama, che solo mercoledì scorso è tornato a vietare le trivellazioni nell’Oceano Atlantico (e nelle acque della Florida in particolare), dopo averle permesse nuovamente, in seguito al breve divieto dovuto alla catastrofe BP, la convinzione della Regione Sicilia di salvaguardare ambiente, pesca e turismo è sempre stata di una inconsueta fermezza, considerando il panorama politico nostrano.

Secondo l’assessore siciliano al Territorio e all’Ambiente, Calogero Gianmaria Sparma, il rigetto dell’istanza da parte del ministero, che rispetta la posizione della Regione siciliana, “è la conferma che il governo regionale aveva ben individuato la problematica legata alle trivellazioni off-shore”. Già a luglio la giunta Lombardo aveva espresso “chiara e netta contrarietà al rilascio dei permessi di ricerca nel territorio siciliano”. “Grande soddisfazione” anche da parte di Giuseppe Ruvolo, vicepresidente di Noi Sud a Montecitorio: “Oggi – ha commentato l’ex deputato UDC – possiamo tirare un sospiro di sollievo perché è evidente che l’economia siciliana deve indirizzarsi verso altre prospettive, verso uno sviluppo incardinato sulle ricchezze naturali della regione e su un turismo di grande qualità”.

Affermazioni sensate, ammettono gli ambientalisti: ma allora perché la Sicilia resta favorevole alle trivellazioni su terraferma, anch’esse pericolose e potenzialmente molto dannose, in caso di incidente, per l’agricoltura, per il turismo e, più o meno direttamente, per la stessa pesca?

Se Obama vieta le trivellazioni al largo della Florida per evidenti scopi elettorali in vista della campagna presidenziale 2010, anche in Italia la prudenza petrolifera nel mare nostrum può essere riconducibile alla necessità di trovare un compromesso con un’opinione pubblica sempre più allarmata, senza però rinunciare ai tradizionali interessi economici dell’energia. La Regione Sicilia, infatti, guadagna dalle trivellazioni su terraferma l’85% delle royalty, mentre da quelle in mare (per le quali non ha nessuna competenza) il 55%, e solo se vicine alla costa. Inoltre, sono attualmente 66 le concessioni di estrazione di idrocarburi, e 24 quelle di esplorazione di nuovi pozzi (non solo nel canale di Sicilia, ma anche nelle Marche, in Abruzzo ed in Puglia), e casualmente il nuovo provvedimento non intacca questi accordi.

Al di là del fatto che il divieto proposto dalla ministra Prestigiacomo di estrarre vicino alla costa non basta, essendo troppo pochi 8 km (ed anche 20, in realtà) per limitare i danni sulle coste di un eventuale incidente in Sicilia, c’è da considerare un altro aspetto preoccupante: le compagnie interessate non hanno l’obbligo di un protocollo di sicurezza per le attività petrolifere, che preveda ad esempio un comando remoto per la chiusura delle valvole, in modo da ridurre il rischio di incidenti.

Non c’è da stupirsene, in un Paese che i parchi naturali li vuole privatizzare, trasformare in discariche (come in Campania) o impedisce che nascano: è il caso del Parco degli Iblei, nel ragusano. Un progetto che dovrebbe abbracciare, in un solo parco, diverse zone di alto pregio naturalistico già parte di riserve o aree tutelate presenti nelle province di Ragusa, Siracusa e Catania. Un patrimonio di biodiversità che può rivelarsi, se ben gestito, un’interessante opportunità economica (favorevole al progetto la stessa Prestigiacomo, siracusana e a conoscenza del valore di quella zona). Un territorio, però, nel quale l’Eni (di cui lo Stato italiano rimane l’azionista di maggioranza), sta costruendo cisterne in attesa di cominciare a estrarre petrolio o gas naturale. I politici oggi così entusiasti dello stop al petrolio in mare come si comporteranno quando si tratterà di perforare il futuro Parco degli Iblei?

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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