Alla fine il Governo ha ceduto alle pressioni di Francia, Inghilterra e Stati Uniti: nell’anniversario della liberazione, in una lunga telefonata ad Obama, Silvio Berlusconi ha annunciato che anche l’Italia bombarderà in Libia. Una decisione presa in fretta e furia, senza consultare il parlamento né avere una linea compatta all’interno del Governo, con la Lega che si è fermamente opposta alla risoluzione.

Ma si sa, quando c’è di mezzo la democrazia il nostro Paese non vuole essere secondo a nessuno. E così l’ennesima violazione dell’articolo 11 della Costituzione, quello che vuole che l’Italia ripudi la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” viene giustificata con la scusa dell’appoggio ai ribelli in lotta per la libertà e delle missioni su obiettivi specifici che – ha dichiarato il ministro La Russa – “eviteranno ogni rischio di colpire la popolazione”.

L’ex amico Gheddafi, cui il nostro premier baciava pubblicamente le mani mesi or sono, è diventato frettolosamente un sanguinario dittatore. E che dire della popolazione insorta, che una scontata retorica bellica chiama ribelli e vuole in lotta per la democrazia? Ormai più di una fonte testimonia che a differenza delle insurrezioni in Egitto e Tunisia la partecipazione popolare è in Libia del tutto marginale e i ribelli non sono altro che un gruppo composto da ex fedeli del colonnello, soldati, occidentali, qualche studente e probabilmente qualche fondamentalista religioso. E la loro pare non sia una lotta per la democrazia ma per le risorse.

Già, le risorse. Sarà un caso ma negli ultimi anni le democrazie da salvare sono sempre state situate nei paesi ricchi di petrolio. Nel caso della Libia, poi, le risorse sono tante e talmente ghiotte che si comprende bene l’interesse e la mobilitazione internazionale.

C’è, ovviamente, il petrolio, circa il 3-5 per cento dell’estrazione mondiale, gestito dalla National Oil Corporation, società nazionale libica che fa gola alle multinazionali inglesi ed americane. C’è il gas, che la Libia esporta in tutta Europa. C’è, infine l’acqua: la Libia poggia sul Nubian Sandstone Aquifer, un oceano d’acqua dolce grande quanto la Germania che tramite condutture sotterranee rifornisce i maggiori centri libici. Se tale impianto verrà accidentalmente danneggiato dai bombardamenti, forse le multinazionali francesi Veolia, Suez e Saur – che da sole controllano il 40 per cento del mercato mondiale dell’acqua – potrebbero aiutarne la ricostruzione o assumerne la gestione.

Ora non ci è dato sapere come hanno deciso di spartirsi il bottino libico i paesi all’attacco, né quale sarà la ghiotta ricompensa che spetterà all’Italia. Sono invece alla luce del sole i rischi che tale operazione comporta per il nostro paese.

Innanzitutto l’Italia è la prima importatrice delle risorse libiche: il petrolio di Gheddafi copriva fino ad ora il 22 per cento del fabbisogno nazionale; il gas circa il 10, prima che fosse chiuso il metanodotto Greenstream, in seguito alla guerra. Ci si prospetta, in pratica, una gravissima crisi energetica.

Inoltre l’Italia è di gran lunga il paese più vicino alla Libia fra quelli che hanno portato l’attacco, dunque l’obiettivo naturale di una possibile controffensiva portata dalle truppe di Gheddafi. Viene da chiedersi se qualche goccia di petrolio, d’acqua o un po’ di gas valgano questi rischi. Ah no, che sbadato, è per la democrazia!

Fonte: Il Cambiamento

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