Una città che conosco bene: Messina. Una strada che conosco bene: la via Bellinzona. Un condominio che conosco bene: l’isolato 505A. E una storia che conosco bene: la sua. Provate a girarci intorno: vi sembrerà una catapecchia in rovina. L’intonaco cade a pezzi, la pittura è sbiadita e scrostata, i cornicioni sono sbrindellati. Entrate nel cortile: la pavimentazione è piena di crepe, molti dei portoni sono rotti. Entrate in uno di essi: ciò che avete visto fuori si ripete identicamente all’interno.

Entrate ora in un appartamento. Cosa vi aspettate a questo punto? Lo stesso desolato spettacolo di incuria, fatiscenza, disfacimento. E invece no: vi ritrovate in un appartamento perfettamente ristrutturato, pulito, luccicante, curato nei minimi dettagli. Entrate in un altro portone, tappatevi il naso per la puzza di miscela che emana dai motorini parcheggiati all’interno alla faccia del regolamento condominiale, entrate in un altro appartamento: anch’esso perfetto, ancor meglio del precedente. E così via.

Questo è l’isolato 505A di Messina, dove da quarant’anni i condomini non riescono a mettersi d’accordo su niente mentre tutto ciò che è proprietà comune va lentamente in rovina. Questo è l’isolato 505A di Messina, dove da quarant’anni ciascuno cura il ‘suo’ e ignora il ‘nostro’. Una sera vidi uno dei condomini manomettere un cancello. Il giorno dopo lo dissi a una giovane donna che vidi uscire da uno dei portoni: indifferenza assoluta. Lo dissi a un altro condomino offrendomi di testimoniare se avessero fatto una denuncia: stessa reazione. Spiegazione del (non) insolito fenomeno: quel cancello era del condominio, cioè di nessuno. Non li riguardava. Interessarsene significava mettere mano a un concetto che in quel regno del ‘mio’ è sconosciuto: il bene comune.

Pensavo a questo lontano luogo la sera del 18 dicembre 2010 guidando sull’autostrada mentre tornavo da Fidenza dove avevo appena incontrato Luca Rigoni e altri tre membri del gruppo Ecosol che stanno avviando un’esperienza di cohousing tutta all’insegna dell’idea di bene comune.

E non c’entrano il nord e il sud, non sono due latitudini che confronto ma due modelli di società. L’isolato 505A non è un esempio di degenerazione sociale all’interno di una società sana, tutt’altro. È una punta avanzata di quel modello sociale che ha fatto della disgregazione della comunità locale uno dei suoi punti fermi, dell’idea di cooperare per il bene comune una baggianata, della solidarietà un’impensabile favoletta. È un luogo in cui l’ideale dell’isolamento individuale nel proprio ottuso, egoistico, disastroso ‘mio’ ha raggiunto un esemplare livello di perfezione. Tanto perfetto che sono le stesse vittime a reggere l’arma del boia. È un modello inebriante per chiunque sia un fautore di questo mondo.

Ma torniamo a Fidenza dove qualcuno sta cercando di scrivere un’altra storia. Il sole è da poco tramontato quando ci arrivo. Suono al citofono di un austero palazzone del centro storico, entro in uno studio ampio e ordinato, mi presento a una segretaria efficiente che mi introduce al cospetto dell’architetto Luca Rigoni. Fin qui tutto ‘normale’. Il diverso viene dopo.

Siamo in cinque attorno al tavolo: io, Luca e altri tre membri del gruppo Ecosol: Fulvia, Fabio e Lucio. Tiro fuori il registratore e cominciamo. È Fulvia a raccontare l’inizio della vicenda.

Fulvia – La storia parte da lontano. Il nucleo iniziale che ha formulato l’idea è costituito da 4-5 famiglie che da molti anni cercavano una soluzione per poter abitare vicine. Non siamo riusciti a trovare qualcosa che permettesse la realizzazione del progetto senza allontanarci dal nostro territorio e allora c’è stata l’idea di allargare il giro, contattare altre persone, amici che condividono con noi certe scelte: di impegno sull’ambiente, nei GAS, eccetera, e chiedere di condividere con noi una progettualità possibile costruendo una casa insieme, con possibilità di vita autonoma delle famiglie ma anche con degli spazi comuni.

Alla fine costruiremo questa casa di 14 appartamenti di cui 12 di famiglie che ci abiteranno e due con altra destinazione. Uno sarà un appartamento sociale, un altro sarà la sede di un’azienda, cui partecipa anche Luca, che ci sta facendo la progettazione energetica.

Ovviamente le famiglie hanno molte cose in comune già a livello di precedenti percorsi. Quasi tutti noi ad esempio siamo all’interno di un movimento politico locale che ha espresso un assessore. Quindi si tratta di persone con una grossa base di fiducia reciproca nata da precedenti storie che si sono intrecciate.

Luca – Storie però anche eterogenee, sia come età che come ambiente di formazione.

Fabio – C’è anche come punto in comune un approccio alle relazioni interpersonali. È difficile trovare sostanzialmente persone che sono capaci di ascoltare, con un’attenzione all’altro, che in qualche modo mettono l’altro al proprio pari come idee e nei processi decisionali. Non è poi così scontato.

Luca – E ci si sta ancora lavorando su. Perché poi di fatto c’è stato un cammino, un percorso relazionale fra i componenti del gruppo, che si è stabilizzato direi da due anni. Finché non c’è stato un oggetto preciso il discorso partecipativo era molto più frastagliato.

Lucio – C’è stato anche un lavoro preliminare per capire che cosa i singoli e le famiglie volevano da questo edificio da costruire insieme: definire gli spazi individuali e quelli che avremmo voluto condividere con gli altri. Ci sono stati dei questionari, dei momenti di riflessione comune. C’erano delle assemblee generali, con tutte le famiglie, in cui si prendevano degli input: lo vorremmo così, con questo tipo di cose comuni, di spazi, con questi accorgimenti energetici, fino alle piccole cose, anche a livello estetico.

E poi ci si è divisi in ‘comitati’ (chiamiamoli così): il comitato che andava a vedere quali possibilità finanziarie potevano esserci, di finanziamento pubblico oppure con banche (un conto è andare da soli in una banca, un conto è andarci in 7 o 8). Insomma, cercare insieme tutte quelle strade che ci potessero in qualche modo agevolare durante il percorso.

Nei processi decisionali non ci sono mai state controversie particolari. Tutto si è sempre risolto senza discussioni, con la messa in comune delle cose. C’è a questo proposito il gruppo processi che si occupa delle relazioni interne, di cercar di creare momenti di benessere comune, al di là delle riunioni. Se ci sono delle questioni, prenderle in mano e sviscerarle tutti insieme per cercare di raggiungere una decisione condivisa. Questo è il metodo del consenso. C’è stata poi la necessità di creare un gruppo ad hoc per la gestione dell’appartamento sociale.

Io – Qual è il suo scopo?

Fulvia – Ospitare persone o gruppi familiari che abbiano bisogno di un momento di appoggio per un tempo determinato per poi andare verso un’abitazione autonoma. Penso ad esempio a persone con disabilità, persone che escono da comunità o famiglie monogenitoriali con bambini, anche stranieri. Adesso stiamo aiutando una signora africana che ha un bambino ed è da sola.

Fabio – La combinazione che ha funzionato è stata quella di avere fra noi tutta una serie di competenze e abilità. Alcuni si occupano del sociale, anche dal punto di vista psichiatrico, per cui hanno una conoscenza e contatti con chi potrà poi introdurre dei soggetti a valore sociale. Luca è il progettista, e verrà ad abitare lì. Fa parte di Sistema Energia che progetterà il sistema energetico dell’edificio. Io ho una certa competenza in relazioni interpersonali, dinamiche di gruppo e gestione dei conflitti. E anche fra gli altri ci sono varie competenze che agevolano il nostro percorso.

Luca – Un percorso, secondo me, in cui ci si è anche scoperti. Non è che si è partiti mettendo insieme queste competenze. Chi c’era ha messo sul tavolo quello che era in grado di fare. Poi un’altra cosa che mi viene spesso da dire è che siamo partiti – alcuni di noi soprattutto – pensando di migliorare la propria condizione abitativa e oggi sempre di più invece si parla di relazioni tra di noi. Su questo, almeno dal punto di vista mio, tecnico, ho visto un cambiamento molto forte.

Prima le indicazioni erano su quante stanze, su quanti metri, su che tipo di casa volevamo. Questo in parte è stato superato, in parte si è proprio evoluto nel comprendere tutti quanti – mi metto dentro anch’io –che l’abitare comporta una serie di relazioni molto profonde. E la fortuna sta nel fatto di potere in qualche modo analizzare e poter organizzare prima. Questo ci ha consentito di fare una serie di scelte – che poi si traducono anche in strutture – che normalmente il mercato non consente mai di fare, e qui parlo anche come progettista: quasi mai mi è consentito di proporre o entrare in certi aspetti perché il mercato ha delle regole blindate per cui lì c’è tutto un altro tipo di logica.

L’altra cosa secondo me importante è che in questo contesto è maturato molto chiaramente, per i motivi detti prima, il concetto di sostenibilità declinato non solo dal punto di vista ambientale. All’inizio la prima sostenibilità che è venuta in mente a tutti era quella: facciamo un edificio che sia ambientalmente il più rispettoso possibile. Poi questo si è allargato come dicevamo prima all’aspetto sociale sia all’interno del gruppo che verso l’esterno, verso il territorio; e infine a quello economico.

Io – Ecco, a questo proposito nel materiale che mi hai inviato c’è quel diagramma che a me è piaciuto molto con quei tre cerchi che si intersecano.

Luca – Sì, non è tutta farina del mio sacco, eh? È chiaro che solo nella porzione in cui si intersecano tutti e tre i cerchi riusciamo ad avere un po’ di sostenibilità seria. Poi, per essere molto chiari, questo percorso ritengo che sia sempre un percorso di compromesso, proprio perché se no si sbilancia questo triplice appoggio. In questo senso nessuno di noi ha mai radicalizzato eccessivamente. Io adesso, ad esempio, sto guardando tutta una serie di materiali “top di gamma” dal punto di vista bioedile.

Sappiamo già tutti che se l’aspetto economico non lo consentirà dovremo fare dei compromessi e nessuno si straccerà le vesti nel senso che l’importante è l’assestamento generale. Se no uno va automaticamente a limitare o a non rendere possibili gli altri. L’altro enorme compromesso è il fatto che andremo a intervenire in un’area di nuova espansione. Questo è ciò che forse brucia di più a tutti, però non abbiamo trovato alternative. Ed è stato, anche questo, il frutto di una ricerca che non ha avuto successo, però piuttosto che non far niente abbiamo detto: andiamo avanti. Sappiamo che è un grosso…

Fulvia – Neo!

Luca – Un grosso neo, sì. Non tanto il fatto che sia una nuova costruzione quanto che sia una nuova area. Fosse stata un’area interna da riprendere sarei stato molto più tranquillo. Il fatto è che il mercato locale qui non aveva disponibilità. Noi abbiamo bussato a più porte e non avendo terreni nostri abbiamo preso quello che era possibile.

Tornando a noi, il discorso del condominio dunque è diventato un discorso di relazioni e di condivisioni non solo nelle parti comuni ma anche nei servizi comuni, servizi anche materiali come la gestione dell’energia che sarà fatta collettivamente, come pure la dispensa perché tutti apparteniamo ai gruppi di acquisto e dunque tanto vale mettere tutto insieme. Poi accompagnare i bambini che andranno a scuola o seguire gli anziani.

Fulvia – Una delle famiglie ha una figlia con una disabilità. È una nostra amica che punta moltissimo sul fatto che questo insediamento le permetta in qualche modo di vivere da sola con la figlia avendo nel contempo anche un minimo di libertà di movimento in più perché per me e tanti altri scendere mezz’ora a stare insieme alla ragazza non è un problema.

Continua…

Fonte: Il Cambiamento

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