Di Filippo Schillaci

Le presentazioni di un libro hanno due scopi; il primo è quello ovvio di promuoverlo ma ce n’è un altro, se non più importante sicuramente più istruttivo: dialogare con le persone, ascoltarle soprattutto. Può sembrare un’affermazione retorica ma non è così: le persone sono proprio quella parte del mondo reale in cui noi vorremmo che si concretizzasse il cambiamento di cui parliamo e dunque dialogare con loro, ascoltarle, significa fare esperienza diretta del mondo reale. Non esagero ad esempio nel dire che tutta la terza parte di Un pianeta a tavola nasce da certe “stranezze” (chiamiamole così) in cui mi sono imbattuto dialogando con il pubblico presente alle presentazioni del mio precedente libro. Dedicherò dunque questo articolo e il successivo ad alcune persone incontrate durante le ultime presentazioni di Un pianeta a tavola. Questo sarà dedicato a due persone immerse in questo presente, il prossimo ad altre che da esso vogliono uscire.

 

La presentazione del 29 marzo si svolse nella saletta di un centro yoga di Acilia (RM). Circondata da un bel giardino, è uno di quei luoghi ovattati e accoglienti in cui si entra scalzi lasciandosi alle spalle, insieme alle scarpe, tutti gli stridori del mondo esterno. Fu proprio lì che, imprevedibilmente, durante la discussione che seguì la presentazione del libro, incontrai due sostenitori di questo mondo.

Il primo fu una donna che si presentò come un medico e mi chiese se il nostro no agli OGM e alle agrobiotecnologie è da considerarsi un no di principio. Avendo sempre considerato con antipatia le posizioni “di principio” risposi ovviamente di no e precisai che il nostro è un no basato su argomenti razionali. «Dunque un no contingente e revocabile?» Le domandai in che senso. Allora lei cominciò un discorso sui benefici degli OGM, che esemplificò citando il caso di una varietà antica di frumento molto sensibile a una certa malattia, di cui sarebbe bene realizzare una versione geneticamente modificata che ne fosse immune. Le feci notare innanzi tutto che le biotecnologie presuppongono l’agricoltura industriale; sostenerle significa sostenere a monte quel modo di coltivare e bisognerebbe dunque innanzi tutto dimostrare che esso va bene, con il suo degrado del suolo e degli ecosistemi, con i suoi pazzeschi consumi energetici, con la sua dipendenza accentratrice dall’industria, le sue emissioni di gas serra e tutto il resto. Le biotecnologie inoltre sono in mano, come ogni altra componente dell’agricoltura industriale, a gigantesche aziende il cui scopo dichiarato è il lucro, a prescindere da qualsiasi altra considerazione. Che compatibilità possiamo ipotizzare che ci sia fra costoro e l’obiettivo del bene comune? Ma soprattutto ci ha orientati verso il no la constatazione per così dire “storica” che ogni volta che si è preteso di intervenire sulla biosfera con “soluzioni” tecnologiche si è sempre scoperto a posteriori qualche effetto collaterale di ampia portata cui nessuno aveva pensato e che vanificava il beneficio circoscritto che quella “soluzione” forniva. Il caso famigerato del DDT è solo l’esempio più noto ma certamente non l’unico. Il fatto è che la biosfera è un’entità di complessità inaudita, di cui noi oggi abbiamo una conoscenza immensamente parziale. La distanza fra ciò che sappiamo e ciò che dovremmo sapere per poter agire su di essa con un barlume di cognizione di causa è tale che, parlando di OGM, la differenza fra la flessibilità di un no razionale e l’assolutismo di un no di principio, benché teoricamente rimanga abissale, in pratica diventa irrisoria. La mia interlocutrice rispose che a tutti questi problemi si poteva ovviare con opportuni studi scientifici che nel giro di alcuni anni avrebbero colmato quel deficit di conoscenze di cui io parlavo. «Anni?», risposi. «Decenni piuttosto, o più verosimilmente secoli. E siamo ancora entro i confini dell’ottimismo». «No, anni», ribadì la dottoressa. Non è la prima volta che mi imbatto in questa fede incrollabile nell’onnipotenza dei costruttori di protesi tecnologiche e non me ne meraviglio; in fondo, se non esistesse non saremmo a questo punto. La mia interlocutrice era un medico; è facile immaginare cosa penserebbe di me se le dicessi che nel giro di pochi anni riusciremo ad avere una conoscenza così perfetta del corpo umano da trovare una cura per tutte le malattie, tutte, anche le più gravi e invasive. E poiché la biosfera è qualcosa di molto più complesso di un corpo umano, spero che ella non si offenderà se oggi penso la stessa cosa di lei.

 

Venne a seguire un uomo di cui sapevo che era un membro della FAO. Partì dai crescenti consumi di risorse della Cina, in particolare dalle richieste sempre più massicce di cereali, per gli allevamenti e per i biocarburanti, le cui produzioni sono entrambe in fortissima crescita. Tutto ciò, disse, provocherà forti squilibri nel mercato mondiale dei cereali che bisogna prevenire aumentando convenientemente le produzioni. Questa esigenza, unita all’incombere delle variazioni climatiche, rende necessario orientarsi verso varietà geneticamente modificate a più alto rendimento e che richiedano un minore apporto di acqua. Risposi che forse sarebbe meglio convincere i cinesi a non imboccare la stessa demenziale strada su cui si sono incamminati i paesi occidentali. «Questo», ribatté lui, «mi sembra un obiettivo irrealistico; cercare di perseguire questa via è puro idealismo». E in effetti bisogna ammettere che la furia con cui la Cina si è buttata nella corsa al saccheggio delle risorse mondiali è tale da non lasciare spazio a ipotesi di ripensamenti. E che in generale la sproporzione fra le forze orientate sulla folle strada della crescita e coloro che sono consapevoli della sua assurdità, è tale da rendere scontato qualsiasi pronostico. Trovo dunque questo argomento sensato. Io tuttavia credo di averne un altro ancora più sensato. Ovvero che la vera assenza di realismo sta nella speranza di riuscire a inseguire perennemente la crescita della produzione inventandosi sempre nuovi espedienti posticci anziché constatare l’ovvia realtà che niente può crescere per sempre in un pianeta di dimensioni finite, e che dunque un sistema basato su queste premesse è destinato prima o poi a crollare rovinosamente (come di fatto sta già cominciando ad accadere). Il vero realismo pertanto non è quello di dare per scontata la perenne crescita produttiva e domandarsi come realizzarla, bensì quello di metterla criticamente in discussione, di constatarne l’impossibilità. E chi se non un organismo internazionale come la FAO dovrebbe assumersi questo compito, piuttosto che continuare, come ha fatto finora, a inchinarsi di fronte all’esistente?

 

Non bisogna credere tuttavia che le posizioni di queste due persone fossero rappresentative della totalità del pubblico presente. Quando ad esempio citai Vandana Shiva che parla di quel dirigente della Cargill secondo cui le api “rubano” il polline vidi, in fondo alla sala, un giovane di poco più di vent’anni che, esasperato, si metteva le mani nei capelli. Fu solo lui, d’accordo, ma ci fu. E io credo che finché ci sarà qualcuno capace di percepire la farneticante follia di quel loro mondo sarà sempre lecito affermare che non tutto è perduto. Non credo ai trionfalismi di chi, di fronte al movimento alternativo, parla di “moltitudine inarrestabile”. Ma meno ancora credo alla passiva acquiescenza di chi afferma l’inevitabilità di quanto accade oggi sulla Terra. Quest’ultima, mi sembra appartenere alla categoria nefasta delle profezie che, inducendo all’inerzia, realizzano se stesse.

 

 

Per approfondimenti sugli OGM: L’imprenditore che gioca coi geni di C. Grassi in Un pianeta a tavola, a cura di F. Schillaci, Ed. per la Decrescita Felice, Roma, 2013.

 

La citazione completa di Vandana Shiva è nel capitolo Teschi e tibie per l’agricoltura.

 

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