Naomi Klein confessa: sì, ha preso in considerazione di buttarsi in politica. E’ tempo di bilanci per la canadese che a soli 29 anni scosse il mondo con la bibbia del movimento no global, “No logo”. Lei – come i “suoi” movimenti – ha incassato sconfitte, ha incontrato ostacoli, è quindici anni più matura. E ora rilancia: “L’utopia della globalizzazione ha fatto il suo tempo”, dice, “dobbiamo agire”. Un invito che va molto oltre le 700 pagine de “Una rivoluzione ci salverà”, l’ultimo libro che la giornalista sta presentando in Italia per ricordarci che la lotta al cambiamento climatico è un’emergenza e soprattutto un’opportunità. Con carisma misurato Klein dà un nome ai sentimenti: la delusione porta il nome di Barack Obama, la speranza si accende con Syriza e Podemos, Matteo Renzi non la convince e neppure Hillary Clinton, mentre si entusiasma al nome di Elizabeth Warren. Soprattutto, agli italiani manda a dire: “Basta con la vostra solita frammentazione. Partiti, movimenti, prendete spunto da Grecia e Spagna. Siate capaci di fare squadra”. E dall’Italia Klein lancia un appello: “anti-austerity di tutta Europa, unitevi”.

Naomi Klein, lei dice di trovare nella vittoria di Syriza una speranza. Alexis Tsipras, anche cercando convergenze nell’Europa mediterranea, prova a ribaltare la questione del debito. Come andrà a finire?
Fanno bene Tsipras e i suoi a fare incontri, cercare convergenze: ora è fondamentale che la Grecia non rimanga isolata. Il successo di Syriza e Podemos è il segno che la gente non ne può più. Ma ora è necessario che  i movimenti non si smobilitino. Sarebbe la cosa più deleteria: che dicano “ok, li abbiamo eletti, torniamo a casa”. E’ andata così quando Obama è stato eletto nel 2008 – ed è stato disastroso. A tutte quelle forze che in Europa fanno pressione perché Syriza tradisca le promesse elettorali bisogna ricordare che c’è un sostegno popolare dietro, che stanno ostacolando la democrazia.

C’è il rischio che il cambiamento rimanga soffocato da compromessi e realpolitik?
E’ un rischio concreto, ce lo dice la Storia. Perciò bisogna rimanere mobilitati non solo in Grecia, ma in tutti i Paesi con forti movimenti anti-austerity, e l’Italia è tra questi: dobbiamo assicurarci che Syriza realizzi un modello positivo. Ci sarà un’enorme pressione sulla Grecia per dimostrare che non è esemplare imporsi ai creditori per rinegoziare: chiunque voglia opporsi a quelle politiche di austerity ha interesse a prevenire l’isolamento. E’ fondamentale.

Dopo il G8, i movimenti hanno subito una battuta d’arresto e  faticano in Italia a trasformarsi in alternativa politica. Vede soluzioni?
La frammentazione politica è un enorme problema in Italia. Ma quello greco e spagnolo sono cambiamenti contagiosi, e i modelli contano. Vede cosa succede ora in Grecia? La gente ricomincia a sperare. Quell’esperienza può essere uno stimolo a coalizzarsi anche da voi, che avete movimenti sociali molto frammentati e partiti che finora si sono attaccati tra loro. Unirsi è
fondamentale, con le enormi sfide e le criticità che abbiamo davanti.

“L’uomo del cambiamento e della speranza”: così Matteo Renzi si è presentato all’Italia. E lei come lo vede?
Vedo che in realtà molto è ancora da fare. Basti pensare al fronte del cambiamento climatico: le azioni del governo italiano mi lasciano molto perplessa. Non solo in Italia, anche nell’America del “fracking”, a parole si parla di una nuova strategia energetica, ma poi nei fatti si percorrono in modo ancora più intensivo le vecchie strade.

Lei non nega la delusione nei confronti di Barack Obama, ma come vede i due nomi dem di Hillary Clinton ed Elizabeth Warren?
L’Obama di fine mandato sta cambiando atteggiamento, ma ormai è troppo tardi. Sa che la Storia gli presenterà il conto ma fa promesse difficili prima di andarsene. E non sarà Hillary Clinton a tirarci fuori dal disastro: basti ricordare quanto è legata all’episodio del gasdotto Keystone. La Warren mi piace molto, ma con elezioni così dispendiose è difficile anche solo concorrere. Finché industriali come i fratelli Koch metteranno due miliardi per le elezioni e non troveremo modi alternativi per finanziare le campagne, un cambiamento sarà davvero difficile.

Non ha mai pensato di uscire dal ruolo di guida e ispirazione, e fare politica in prima persona? Magari candidarsi?
Sì, ammetto che ci ho pensato. E mi rendo abche conto che sto svolgendo sempre più un ruolo di questo tipo. In particolare con il nuovo libro, di fatto sto facendo da raccordo tra il movimento ambientalista, partiti, organizzazioni, in modo che alla prossima conferenza sul clima ci si presenti con incisività. Ma non penso di essere “un politico”, non è questa la mia specifica abilità.

Da quando scrisse “No logo” sono passati 15 anni. Nuovi accordi per la liberalizzazione commerciale sono in cantiere (basti pensare al TTIP tra Usa e Ue). Dopo il “brand degli oggetti” rischiamo i monopoli dell’informazione (Google, Facebook, le realtà della Silicon Valley). Le cose peggiorano?
Sembra, che le cose vadano peggio. Ma vede, quando presentai “No logo” in Italia, all’epoca il dibattito era tra l’utopia di quel modello “global” inteso come progresso ed eliminazione della povertà, e chi invece vi si opponeva sostenendo che metteva a rischio l’equità, la dignità del lavoro, la sostenibilità ambientale… Il sintomo della svolta è che oggi il dibattito c’è ancora, ma nessuno più osa più presentare quel modello come quello ideale. Anche se magari per difenderlo vi contrappone ipotesi apocalittiche, stile “armageddon”. Ciò che è profondamente cambiato da quando ho pubblicato “No logo” è proprio che quel modello ideologico è in profonda crisi. La cosa è sotto i nostri occhi: basti pensare alla reazione che ha suscitato il libro di Thomas Piketty, con una parte dello stesso mondo lib che gli ha dato ragione. Certo, siamo costantemente oggetto di marketing noi stessi, siamo sotto sorveglianza. Ma allo stesso tempo il bisogno di cambiamento non è mai stato così grande. Oggi la questione non è più se fare qualcosa, ma come farla. Agire.

di FRANCESCA DE BENEDETTI 

Fonte: LaRepubblica.it

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