Quando ero studente mi capitava a volte di assistere agli incontri che la facoltà organizzava con le aziende. Imparai molto ascoltando i loro discorsi; imparai, soprattutto, che io con quel mondo non volevo averci nulla a che fare.

Una volta vennero un dirigente “senior” e un giovanotto di “belle” speranze che, quando parlava,  ogni due frasi si voltava tre volte verso il “senior” per accertarsi che egli approvasse. Il giovanotto proiettò una serie di fotografie della loro azienda fra cui una veduta aerea dello stabilimento di produzione. Inutile che lo descriva: un accatastarsi di parallelepipedi, cubi, cilindri che parevano fare a gara a chi fosse il più grigio e smorto. In un angolo dell’immagine c’era un’indistinta macchia color verde scuro che non si capiva bene cosa fosse. Il giovanotto, nel descrivere punto per punto l’immagine, la lasciò per ultima: «…e quello», disse con aria cupa, quasi scusandosi, «…quello era un bosco ma adesso» e la sua voce riprese vigore «adesso non è più così (questa, sapete, è una fotografia di qualche anno fa), adesso lì c’è il nostro nuovo impianto di diffusione!».

Mi venne naturale ripensare a quel giovanotto lontano nel tempo e ormai forse (spero) nello spazio il giorno, non lontanissimo questo, in cui mi trovai ad ascoltare un docente universitario di “zootecnia speciale” (significa non industriale, dal pastorello omerico in poi) il quale dopo averci informato come niente fosse che per produrre cibo da animali occorre sette volte più terreno che per produrlo dai vegetali (dico: sette volte!) passò a illustrarci le sue chiarissime idee su ciò che egli chiamava agricoltura, parola che, si capì presto, considerava sinonimo di allevamento. E a un certo punto disse: «A che servono le foreste? Non ci danno mica da mangiare.»

Bene, al momento di iniziare la ricerca che ha portato a Un pianeta a tavola le mie idee sulle foreste erano un po’ diverse. Alla fine del lavoro lo erano ancora di più. Perché se c’è una cosa di cui abbiamo un bisogno imperativo, qui e adesso, sono proprio loro, la sede della più alta biodiversità esistente sulla Terra, i più intensivi catturatori di carbonio atmosferico, il più efficace ostacolo all’erosione del suolo, quei biotopi insomma, quelle complesse comunità viventi la cui molteplice azione viene indicata sui testi con l’asettico temine di “servizi ecosistemici”. E che fra le altre cose, qualunque cosa ne pensi quel tale, ci danno anche cibo. Pensiamo a ciò che è stata per secoli l’economia del castagno nell’appennino toscano o quella del nocciolo sui Nebrodi.

Nel libro il discorso sulle foreste entra in campo perché la prima causa assoluta della loro distruzione è da sempre il settore agroalimentare il quale al contrario, in un’ottica di sostenibilità, di equilibrio non può prescindere dal loro mantenimento. Sono giunto dunque a porre con fermezza l’accento sulla necessità di accelerare quella che viene chiamata la transizione forestale, ovvero il ritorno delle foreste nei luoghi da cui erano state estirpate. Questo fenomeno è iniziato spontaneamente in alcune regioni del mondo fra cui l’Europa ma non perché siamo improvvisamente rinsaviti; no, siamo più folli che mai, tutto “normale”, è solo che siamo passati a metodi di sfruttamento del territorio più intensivi e ciò ha condotto all’abbandono di quei luoghi ritenuti poco idonei allo scopo e dunque divenuti “marginali”.

Siamo più folli che mai, è vero, tuttavia bisogna anche dire che a volte, qua e là, qualche momento di stasi, forse perfino di decrescita della follia si è verificato, si verifica tuttora. Nel libro cito il caso della foresta rediviva dei monti Peloritani, in Sicilia; la cito soltanto, senza aggiungere molto ma il suo ruolo nella definizione di alcune tesi del libro va al di là delle poche righe che le sono dedicate. E dunque parliamone qui, raccontiamone la storia, come quella di un esempio da seguire[1].

Se fossi un regista e mi fosse chiesto di girare un remake del Segreto del bosco vecchio lo girerei in questa foresta. Perché è bella forse? Sì, lo è ma molte altre lo sono; non è questo il motivo. Lo girerei qui perché la sua storia le conferisce oggi, proprio oggi che di foreste abbiamo più che mai bisogno in tutto il mondo, un significato, dunque un valore, particolare.

In principio i monti Peloritani erano, come molti altri luoghi in Italia e nel mondo, coperti da un’unica, uniforme foresta spontanea. Poi vennero i primi insediamenti umani; erano piccoli all’inizio, forse perfino inoffensivi, ma ben presto cominciarono a crescere. Ed ebbe inizio lo scempio. Quella che oggi chiamiamo con asettico eufemismo “forte pressione antropica”, ovvero l’espandersi sempre più smisurato di un’unica specie animale, l’uomo, a danno di ogni altra forma di vita, animale e vegetale, per secoli, per millenni costrinse la foresta ad arretrare e sostituì a essa successivi, sempre più intensi stadi di degrado. La grande foresta primaria di latifoglie d’alto fusto cedette il posto alla macchia, poi alla gariga, infine alla monotona desolazione della steppa. Solo le zone più impervie, disertate dalle attività umane, si salvarono e lì sopravvissero sparute oasi di bosco naturale, insufficienti però a garantire adeguate risorse e rifugio agli animali selvatici, che infatti poco a poco scomparvero da questi monti. Il risultato finale fu un susseguirsi di pendii completamente spogli, con tutto il codazzo secolare di frane ed erosioni che ne conseguì. Accadde qui insomma, nei secoli e nei millenni passati, come in ogni altra parte d’Europa, ciò che oggi accade in Amazzonia, e accadde molto prima dell’industrializzazione su cui (ne parlavo un articolo fa recensendo il libro di Dorst) si tende oggi a concentrare in maniera esclusiva le accuse col risultato di assolvere, anzi esaltare, una “tradizione” che al contrario ha la sua grande parte di responsabilità nella devastazione degli ecosistemi.

Fu negli ultimi decenni dell’ottocento che le cose cominciarono a cambiare con l’istituzione di un Consorzio per i rimboschimenti cui subentrò, a partire dal 1920, l’Azienda di Stato Foreste Demaniali. E si cominciò dunque a piantare alberi. Si formò così poco a poco, attraverso innumerevoli acquisti ed espropriazioni di terreni, il Demanio Forestale dei Peloritani, finché, fra il 1950 e il 1960 esso raggiunse l’estensione attuale di 4.102 ettari. La foresta tornò a essere tale anche se non è la stessa foresta: soprattutto nella prima fase di impianti su grande scala, fra il 1920 e il 1936, l’esigenza di avere risultati apprezzabili in tempi brevi indusse a utilizzare specie estranee alla flora locale come varie conifere e perfino l’eucalipto.

Nel 1950 entrò in funzione il vivaio Ziriò, situato a 800 metri di quota, nella zona più alta della foresta, che fu ed è la nursery in cui sono nate e da cui sono uscite milioni di plantule destinate a riportare i boschi in numerosi luoghi dentro e fuori la Sicilia. È un’imponente cavea di oltre 3 ettari in cui si succedono, come un’immensa scalinata, decine di terrazzamenti di pietra circondati da una cornice ancor più imponente di conifere.

Molte volte ho camminato fra quelle schiere interminabili di alberi neonati: castagni, cerri, tuie, roverelle, lecci, abeti marittimi e molto altro ancora, alberi alti ancora pochi centimetri ma destinati a diventare torri di dieci o venti metri. Nascono lì, in un luogo dove ancora null’altro che il vento, l’acqua della vicina sorgente e i richiami degli uccelli si sovrappongono all’uniforme sfondo del silenzio perfetto. Camminare in mezzo a loro significa camminare accanto a un pezzo insostituibile di futuro.

Sono passati credo trent’anni dalla mia prima scoperta di questa foresta. A quel tempo la “pressione antropica” o meglio la massiccia azione degradante, quando non distruttiva, della più infestante specie animale che la Terra abbia mai conosciuto era presente in maniera desolante. Le zone più basse, più vicine alla città, erano martoriate da ricorrenti incendi, la caccia veniva praticata ovunque in maniera tanto abusiva quanto massiccia e, nei giorni festivi, orde di gitanti domenicali si avventavano sui boschi lasciando immancabilmente sul posto i loro rifiuti in mezzo ai quali quelli che sarebbero venuti dopo di loro, con totale indifferenza avrebbero poi sostato e avrebbero consumato le loro due o tre ore di frenetico relax.

Oggi molto è cambiato: esiste un buon servizio di sorveglianza antincendio, i cacciatori sono spariti e i gitanti hanno imparato a riportarsi i rifiuti a casa. Ignoro in che modo sia avvenuta questa trasformazione, ma è avvenuta. Credo si possa dire che l’Azienda Forestale gestisca oggi bene questo luogo, tanto che qualche anno fa, quando seppi che un tentativo di trasformare la Foresta dei Peloritani in parco regionale era fallito non me ne indignai più di tanto: di fatto questo luogo è protetto come se fosse già un parco.

Ho detto prima che la storia di questa foresta le conferisce oggi un significato che va oltre la sua semplice esistenza. Oggi che le alterazioni del clima globale dovrebbero porre ai primi posti nelle nostre priorità il ritorno delle foreste lì dove nei decenni, nei secoli, nei millenni passati esse sono state distrutte per farne pascoli, monocolture intensive, ricavarne legname ed altro ancora, oggi quest’opera imponente di riforestazione compiuta in Sicilia lungo l’arco di quasi un secolo ci dice che riportare la vita, la biodiversità e, non ultima, la bellezza dove tutto era stato ridotto a deserto, è possibile. E che nessuna scusa dunque è accettabile.

Filippo Schillaci


[1] Molte delle notizie seguenti sono tratte da A. Gatto,  Il demanio Monti Peloritani, Azienda Regionale Foreste Demaniali, Palermo, 2001.

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