Processo Resit: non solo la mafia è “una montagna di merda”

da | 20 Lug 2016

Cipriano Chianese, l’inventore dell’ecomafia, è molto diverso dall’immagine da delinquente che rimandano le foto segnaletiche in giro per il web. Non l’ho riconosciuto subito. E’ un uomo alto, elegante, con i capelli bianchi che scendono in un’onda: solo il naso, grande e con una piega carnosa nel mezzo, lo associa a ciò che ricordavo di lui. E lo sguardo altezzoso e tranquillo nonostante segga da imputato in un processo per disastro ambientale e associazione mafiosa.

Cipriano Chianese - Fonte foto: www.ilfattoquotidiano.it

Cipriano Chianese – Fonte foto: www.ilfattoquotidiano.it

Secondo le indagini di Roberto Mancini, il poliziotto romano della Criminalpol che in una preziosa informativa del 1996 per primo lo denunciò, l’avvocato Chianese è l’anello essenziale dell’iniqua catena che lega camorra, servizi deviati, pezzi dello Stato e imprenditoria allo smaltimento selvaggio dei rifiuti in Campania. E’ sua la discarica Resit a Giugliano, piena Terra dei Fuochi, dove soltanto tra il 1987 e il 1991 vengono accatastate più di 30.000 tonnellate di rifiuti provenienti dall’Acna di Cengio, azienda savonese produttrice di coloranti. La perizia del geologo toscano Balestri, richiesta dalla Procura di Napoli e depositata nel 2010, ci consegna ad un futuro agghiacciante: è tale il livello di inquinamento provocato che entro il 2064, quando il percolato tossico avrà raggiunto le falde sottostanti, i veleni contamineranno decine di km quadrati di terreno e la vita che ospitano. Un disastro da trattare come quelli nucleari, se pare che l’unica soluzione – peraltro mai applicata – sia quella di sarcofagare la discarica con il cemento.

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Sulla base di questa perizia, il boss Francesco Bidognetti, clan dei Casalesi, è stato condannato nel 2013 a 20 anni per disastro ambientale e avvelenamento della falda acquifera. E sulla base di questo studio che la difesa ha cercato in tutti i modi di smontare, sull’informativa di Mancini e su un quadro probatorio che appare molto solido, la Direzione Distrettuale Antimafia ha chiesto, nel complesso, 280 anni di carcere per 29 persone coinvolte a diverso titolo nel disastro della Resit. Tra queste, c’è Giulio Facchi, sub-commissario all’emergenza rifiuti tra il 2000 e il 2004 (quando commissario governativo era Antonio Bassolino) e Gaetano Cerci, imprenditore affiliato ai Casalesi e legato alla loggia massonica Propaganda 2.

Attendiamo la sentenza per ore, dietro il vetro dell’aula 116, impegnati in una prova emotiva non da poco. Quando si parla di criminali, di mafiosi, ci si aspetta inconsciamente che siano mostri anche nell’aspetto, come per negare la loro appartenenza al genere umano già alla prima occhiata. Invece, hanno volti comuni, perfino belli, curati. Anche Gaetano Cerci, che assiste al processo dalla gabbia per detenuti, sembra soltanto il ragioniere che è. Questi uomini sono, invece, tra i principali responsabili del biocidio perpetrato in Campania, della morte di troppi bambini e di una devastazione ambientale a cui non potremo porre rimedio.

La pioggia battente di questo 15 luglio, così disarmonica in un giorno d’estate, è la compagna perfetta di una cupezza crescente. Ascolti i giornalisti presenti ripercorrere date, luoghi, nomi conosciuti ad ogni livello della politica italiana, nomi stanati tra giudici, carabinieri e imprenditori gettati nell’immane calderone di una “società alla deriva” – per citare Castoriadis – in cui è così nauseabonda la puzza di marcio da farti salire le lacrime agli occhi. E ti chiedi, abbracciando una mamma che ha perso il suo unico figlio nella Terra dei Fuochi, come la speranza possa ancora chiamarsi tale e come (come!!!) siamo potuti arrivare a tanto. Nessun candore. Mai più.

È intollerabile vedere così nitidamente.

Mentre in aula il numero degli attivisti, delle mamme e dei preti sale al lento susseguirsi delle ore e man mano che la pioggia lascia timida un po’ di spazio alla sera, faccio appello – in mancanza di fede –  a tutti i miei riferimenti culturali. Nel brusio sorvegliato dalla Polizia, mentre porto lo sguardo dai capelli chiarissimi della vedova Mancini alle toghe degli avvocati, mentre mi indicano i consulenti che si sono venduti alla difesa e fissiamo nervosi, dalla stessa sala che ospita due familiari del Cerci, la porta dalla quale entreranno i giudici, ricordo le parole di Alex Langer sulla “cultura del limite”. Io ho davanti l’eccesso, la tracotanza, la superbia dell’Uomo che non ha saputo guardare oltre sé stesso. La corsa sfrenata al profitto, legittimata da questa folle economia del “più” ad ogni costo, ha trascinato nella sua piena qualunque cosa e ha lasciato al suo passare solo una profonda mancanza di dignità. E molti morti.

Se non fosse per gli sguardi puliti delle persone con cui condivido questa assurda attesa, per quello del PM Alessandro Milita che è venuto a salutarci al mattino e per quello ormai privo di luce delle tante vittime campane, io non avrei ragioni per andare avanti. Sono loro il mio limite, il limite alla mia pazzia.

Pochi istanti ancora e sapremo, mentre tratteniamo il respiro, che Chianese Cipriano, Cerci Gaetano e Facchi Giulio vengono condannati rispettivamente a 20, 16 e 5 anni di reclusione in primo grado di giudizio e in un giorno che rimarrà, per noi, storico. Anche se si tratta di uno dei tanti round di un lunghissimo match, riaffiora la speranza nei giorni che verranno: ora è scritto che sono gli imprenditori e la politica ad essi vicina i veri protagonisti del nostro eccidio ambientale, mentre la camorra ne è solo il braccio armato. La “montagna di merda” di Peppino Impastato si popola sempre più di inquietanti figure dall’aria per bene e dallo sguardo tranquillo.

Distolgo il mio da quell’aula piena di gente e lo rivolgo verso i tanti attivisti che negli anni non hanno mai mollato. E’ loro l’immagine che voglio rimanga impressa nei miei occhi, non quella di Chianese in completo scuro o di Cerci dietro le sbarre. Appartiene a loro la sofferenza, la povertà, lo splendore di questo giorno lento e terribile, come appartiene a tutti noi il sacrificio di Roberto Mancini, “morto per dovere”.

A casa, spiegando alla mia piccola cosa ha fatto la sua mamma assente fin dal mattino, mi sento rispondere che “quell’uomo cattivissimo” dovrebbe rimanere in prigione non per 20, ma per 2300 anni. E così, di colpo, mia figlia mi restituisce un po’ di quell’innocenza che, guardando attraverso il vetro dell’aula 116, credevo il mondo avesse perso per sempre.

Miriam Corongiu

Riferimenti bibliografici:

“Io, morto per dovere” – Luca Ferrari, Nello Trocchia – Chiarelettere, febbraio 2016

“Monnezza di Stato” – Antonio Giordano, Paolo Chiariello – Minerva Ed., gennaio 2015

Per documenti Video:

Pino Ciociola, inviato speciale di Avvenire

Fonte foto in evidenza: www.diariopartenopeo.it