Buongiorno a tutti!
Mi chiamo Jean-louis, ho 25 anni, mi sono appena laureato in medicina e lavoro come volontario al Neema, l’ospedale di World Friends a Nairobi. Cercherò nei prossimi mesi di raccontarvi un po’ di quella che è la vita in ospedale, ma prima di fare ciò mi piacerebbe cercare di farvi afferrare un po’ il clima che si vive qui, nella Nairobi di tutti i giorni.
Se comprate una guida del Kenya vedrete in copertina magnifiche foto di giraffe, rinoceronti, leoni stesi al sole con la savana dorata che si staglia all’orizzonte. Ebbene, Nairobi non è decisamente tutto ciò! E più che una Savana si direbbe una Giungla!
Una giungla di macchine, motociclette, camion, camioncini e matatu (piccoli pulmini da 11 posti che fanno da bus e che si trovano ovunque); una giungla di suoni, rumori, urla, musica, clakson, tubi di scappamento; una giungla di odori: dagli scarichi delle auto che sembrano all’istante entrarti fin nelle budella alla puzza nauseante dei rifiuti che ardono lungo la strada. Gli animali feroci non mancano, sono una moltitudine. Corrono, di qua, di là, in lungo e in largo, a destra e a manca. Attraversano semafori fatiscenti, si buttano tra una macchina e l’altra, spingono, si scontrano, imprecano. Alcuni giacciono ormai per terra con lo sguardo vuoto e senza speranza. Altri sembrano più tranquilli, in giacca e cravatta camminano distintamente e a testa alta per la strada. Molti sono “Mzungu” (uomini bianchi, letteralmente “qualcuno che vaga senza meta”), si direbbero i più innocui, anche se in realtà sono probabilmente i più feroci.
Povertà e ricchezza convivono a due passi l’una dall’altra, anche se la prima viene ben nascosta: le baraccopoli dove vivono milioni di persone non saltano infatti agli occhi come i grattacieli del centro, non le si vede facilmente passando in macchina. Contraddizioni su contraddizioni. La cultura occidentale, il capitalismo, il nostro beneamato progresso, invece di portare i loro lati migliori, hanno esportato i loro risvolti più tetri e stanno gradualmente distruggendo ciò che vi è di bello e autentico nella cultura Africana, esaltandone dall’altra parte i lati negativi.
Tutto ciò è la quotidianità di Nairobi. Ogni mattina mi ci trovo di fronte.
Alle 8.00 esco di casa e prendo il bus per andar in città e cerco di capire quanto devo pagare; sì, perché qua per il bus non c’è un biglietto fisso ma si paga in base al traffico!! Scendo poi dal bus per andare a prendere il matatu e mi ritrovo nella giungla. Devo quindi utilizzare tutte le mie energie mentali (che a quell’ora non sono peraltro un granchè!) per riuscire a districarmi nella fiumana, per non scontrarmi con la gente e per non farmi investire da qualche macchina. E non è così semplice, ve lo assicuro!
Arrivo poi dove si prende il Matatu, chiedo se va al Neema (mi dicono sempre si e poi la metà delle volte mi lasciano da un’ altra parte!), mi infilo allora in questa scatola di sardine, appiccicato ad altre due persone e spesso con mezza chiappa fuori dal sedile. Faccio normalmente per aprire la mia grammatica di Swahili, ma la richiudo al volo non appena partiamo quando viene accesa la musica: spesso sembra di essere davanti alle casse in discoteca. Non riesco nemmeno a sentire la mia voce quando parlo e, intontito dal frastuono, mi calo in un’atmosfera quasi surreale, da cui mi riprendo saltuariamente allo sbattere della testa su una qualche superficie metallica, sballottolato qua e là, quando per tagliare il traffico questi piccoli pulmini si lanciano fuori strada, innalzando peraltro enormi nuvole di polvere che non posso fare a meno di respirare.
Quando poi si tratta di pagare spesso e volentieri cercano di fregarmi e devo insistere per avere il resto…
Ed è così che, dopo circa un’ora di viaggio, quando intravedo il Neema in lontananza, cerco di divincolarmi velocemente fra sedili e persone, tiro con forza lo zaino che regolarmente rimane incastrato in qualche anfratto e scendo dal matatu.
Ci sono quasi, ora però arriva la parte più difficile: attraversare la strada! Thika road. Qui è forse l’unico momento in cui ho davvero paura. Le macchine sembrano non finire mai e ad un certo punto, volente o nolente, mi devo lanciare! Se c’è qualcuno del posto che attraversa con me sono un po’ più tranquillo, lo affianco stretto stretto, lo seguo passo per passo come fossi la sua ombra; quasi mi verrebbe voglia di prendergli la mano come facevo un tempo con la mia mamma. Se ho fortuna la attraverso tutta in un colpo, altrimenti rimango per un po’ nel limbo, in un corridoio invisibile, né di qua, ne di là, irrigidito come un birillo con le macchine che mi sfrecciano davanti e dietro. Penso allora fra me e me: ” Eh no, dai proprio adesso! Cacchio, ho 25 anni, son qui a cercare di fare qualcosa di buono e non avrebbe proprio senso lasciarci le penne così!”
Trattengo la voglia di chiudere gli occhi, il fiato e appena intravedo un varco mi lancio oltre frontiera! Un respiro di sollievo, un centinaio di metri ed eccomi varcare le soglia dell’ospedale, salutando il guardiano con il solito “jambo” (salve).
Quando il cancello si apre sembra quasi di entrare in una dimensione parallela, un’oasi in mezzo alla giungla: il blu dei tetti che si mischia con l’azzurro del cielo, il verde delle aiuole, la gente che si muove con tranquillità, qualche camice bianco, l’aria che si fa più leggera. I pazienti che aspettano seduti davanti alla reception. Tutto è pulito, ordinato, al suo posto. Si percepisce la cura per il particolare e un sottile tocco di estetica. Mi sento così a mio agio, rilassato e dimentico quasi il trambusto che stavo vivendo fino ad un attimo prima.
Tutto ciò non è un lusso per privilegiati, ma, grazie agli sforzi di World Friends e al sostegno di tutti voi, è realtà anche per persone che non dispongono di nulla e che non posso pagarsi neanche le cure mediche di base: circa 100 pazienti al giorno ad oggi (il 50% del totale).
Due giorni fa nella “casualty” (il pronto soccorso/day hospital), ho visitato una signora sulla cinquantina con un tumore al seno in stadio avanzato che le aveva praticamente divorato la mammella: io pensavo fosse un esito di ustione perché era come fosse carbonizzata, atrofica, rattrappita con le squame di pelle morta che si staccavano al tatto e un’escoriazione che ha prontamente sanguinato non appena abbiamo tolto il cerotto. Probabilmente vi sarà stato un ritardo diagnostico e non so quanto tempo rimarrà ancora da vivere a questa povera signora. Sta di fatto che quando sono entrato nella stanza era lì tranquilla e mi ha fatto un gran bel sorriso, ha mantenuto la stessa serenità per tutta la durata della visita, interrotta solo da una smorfia di dolore allo strappo del cerotto, e ci ha infine sorriso ancor più dolcemente quando l’abbiamo salutata per andarcene.
Vi sono tanti fattori che potrebbero spiegare una reazione del genere: per esempio la non piena coscienza del problema (perché non si sa o perché non si vuole sapere) o le differenze culturali nel relazionarsi con la propria esistenza e con la morte.
Chissà però da dove sarà partita per venire a farsi medicare al Neema, chissà a che ora si sarà svegliata e che peripezie avrà dovuto affrontare per arrivare fin lì. Chissà quali vicissitudini dovrà affrontare ogni giorno.
E chissà che non sia merito anche di questa particolar atmosfera che si gusta una volta varcati i cancelli dell’ospedale se questa “mama”, come dicono qui, ci ha voluto regalare il suo bel sorriso…
Jean-louis Aillon
World Young Friends
e MDF Torino
Fonte: www.world-friends.it