Il presidente Usa insegue una crescita impossibile, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale sollecita «400 milioni di posti di lavoro nei prossimi anni»
Detto in due parole: non sanno più come uscirne. Ormai iniziato il terzo anno di crisi, a partire dalla reazione a catena che si scatenò nell’estate del 2008 e che mise in ginocchio l’apparato finanziario occidentale, specialmente ma non solo negli Usa, i principali indicatori economici confermano i giudizi più drastici. Anzi, più realistici. La cruda verità è quella che noi stessi abbiamo sostenuto fin dal primo momento. La crisi non è affatto congiunturale ma sistemica. Quello che è accaduto non è un incidente di percorso, sia pure di proporzioni eccezionali, ma l’esito naturale delle contraddizioni (perversioni) insite nell’attuale modello economico, basato sull’espansione ossessiva del consumo e del credito. Ergo, le possibilità di uscirne, mantenendo l’impostazione precedente, sono praticamente nulle.
Ciononostante, i leader politici e le massime autorità bancarie continuano imperterriti a guardarsi bene dal prenderne atto. Negli Stati Uniti Obama rincorre una crescita del Pil che permetta di recuperare il terreno perduto, ma di cui non esistono i presupposti né a breve né a lungo termine. Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, auspica a gran voce che il lavoro diventi «la priorità della nuova mondializzazione», quantificando l’obiettivo nella cifra esorbitante di «400 milioni di posti di lavoro da creare nei prossimi anni». Anche nel suo caso, però, non si vede proprio in quale modo si dovrebbe pervenire alla realizzazione di un obiettivo tanto ambizioso. E infatti, al di là di queste reboanti dichiarazioni, non arriva alcun chiarimento sul percorso da intraprendere.
Il nodo cruciale, rimanendo all’interno della logica imperante, è che la stessa globalizzazione che l’Occidente credeva di usare a proprio vantaggio – assicurandosi nuovi mercati di sbocco per le merci e nuove opportunità di speculazione e di profitto usurario per i capitali – si è trasformata in un boomerang. Gli allievi hanno imparato la lezione e ne hanno rovesciato il senso. La debolezza derivante dalla miseria è diventata un elemento di forza, permettendo di produrre a basso costo e di esportare più di quello che si importa, accumulando risorse da investire all’estero. Vedi, per citare l’esempio più cospicuo e più noto, la massiccia e crescente penetrazione della Cina nell’economia statunitense, sul doppio binario dell’acquisto di proprietà private e di titoli del debito pubblico.
Parlare di un ripensamento è certamente prematuro, ma intanto prende corpo la disillusione riguardo alle ottimistiche, e avventate, certezze del passato. Proprio negli Stati Uniti, la pubblicazione a ridosso delle elezioni di Midterm di un ampio e dettagliato rapporto sulla situazione interna, completo di sondaggi sulla percezione della realtà da parte dei cittadini, mostra che la fiducia nel futuro è ai minimi termini. Il documento, realizzato da un think tank autorevole e vicino al governo quale la Brookings Institution, si chiama appunto “How We Are Doing Index”, vale a dire “Come stiamo andando”, e attesta che appena il 20 per cento è soddisfatto delle condizioni odierne e che solo il 39 «sente che le cose si stanno evolvendo nella direzione giusta».
Da qui a chiedersi cosa bisogna cambiare, nel modo di relazionarsi al nuovo quadro dell’economia planetaria, il passo è breve. Ma quali che possano essere le risposte, non c’è dubbio che le domande diventeranno più precise e, in quanto più precise, anche più stringenti. L’epoca delle speranze generiche alla Obama dello “Yes We Can”, e degli auspici campati per aria dello Strauss-Kahn di turno che invoca «400 milioni di posti di lavoro da creare nei prossimi anni», sta inesorabilmente finendo. Bisognerà cominciare a specificare cosa bisogna attendersi per ciascun Paese, illustrando in dettaglio, e in anticipo, come si intende arrivarci. Ovverosia con quali modi e con quali tempi. E, soprattutto, con quali pro e quali contro.
Fonte: La Voce del Ribelle