I primi sei mesi di quest’anno sono stati caratterizzati da innumerevoli tragedie che hanno riguardato la natura, la tecnica e i popoli. L’entità di tali catastrofi ci interpella. È l’uomo che viene per primo, ed è bene ricordarlo. L’uomo, al quale Dio ha affidato la buona gestione della natura, non può essere dominato dalla tecnica e divenirne il soggetto. Una tale presa di coscienza deve portare gli Stati a riflettere insieme sul futuro a breve termine del pianeta, di fronte alle loro responsabilità verso la nostra vita e le tecnologie. L’ecologia umana è una necessità imperativa. Adottare in ogni circostanza un modo di vivere rispettoso dell’ambiente e sostenere la ricerca e lo sfruttamento di energie adeguate che salvaguardino il patrimonio del creato e non comportino pericolo per l’uomo devono essere priorità politiche ed economiche. In questo senso, appare necessario rivedere totalmente il nostro approccio alla natura. Essa non è soltanto uno spazio sfruttabile o ludico. È il luogo in cui nasce l’uomo, la sua "casa", in qualche modo. Essa è fondamentale per noi. Il cambiamento di mentalità in questo ambito, anzi gli obblighi che ciò comporta, deve permettere di giungere rapidamente a un’arte di vivere insieme che rispetti l’alleanza tra l’uomo e la natura, senza la quale la famiglia umana rischia di scomparire. Occorre quindi compiere una riflessione seria e proporre soluzioni precise e sostenibili. Tutti i governanti devono impegnarsi a proteggere la natura e ad aiutarla a svolgere il suo ruolo essenziale per la sopravvivenza dell’umanità. Le Nazioni Unite mi sembrano essere il quadro naturale per una tale riflessione, che non dovrà essere offuscata da interessi politici ed economici ciecamente di parte, così da privilegiare la solidarietà rispetto all’interesse particolare.
Occorre inoltre interrogarsi sul giusto posto che deve occupare la tecnica. I prodigi di cui è capace vanno di pari passo con disastri sociali ed ecologici. Estendendo l’aspetto relazionale del lavoro al pianeta, la tecnica imprime alla globalizzazione un ritmo particolarmente accelerato. Ora, il fondamento del dinamismo del progresso corrisponde all’uomo che lavora e non alla tecnica, che non è altro che una creazione umana. Puntare tutto su di essa o credere che sia l’agente esclusivo del progresso o della felicità comporta una reificazione dell’uomo, che sfocia nell’accecamento e nell’infelicità quando quest’ultimo le attribuisce e le delega poteri che essa non ha. Basta constatare i "danni" del progresso e i pericoli che una tecnica onnipotente e in ultimo non controllata fa correre all’umanità. La tecnica che domina l’uomo lo priva della sua umanità. L’orgoglio che essa genera ha fatto sorgere nelle nostre società un economismo intrattabile e un certo edonismo, che determina i comportamenti in modo soggettivo ed egoistico. L’affievolirsi del primato dell’umano comporta uno smarrimento esistenziale e una perdita del senso della vita. Infatti, la visione dell’uomo e delle cose senza riferimento alla trascendenza sradica l’uomo dalla terra e, fondamentalmente, ne impoverisce l’identità stessa. È dunque urgente arrivare a coniugare la tecnica con una forte dimensione etica, poiché la capacità che ha l’uomo di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo per mezzo del suo lavoro, si compie sempre a partire dal primo dono originale delle cose fatto da Dio (Giovanni Paolo II, Centesimus annus n. 37). La tecnica deve aiutare la natura a sbocciare secondo la volontà del Creatore. Lavorando in questo modo, il ricercatore e lo scienziato aderiscono al disegno di Dio, che ha voluto che l’uomo sia il culmine e il gestore della creazione. Le soluzioni basate su questo fondamento proteggeranno la vita dell’uomo e la sua vulnerabilità, come pure i diritti delle generazioni presenti e future. E l’umanità potrà continuare a beneficiare dei progressi che l’uomo, per mezzo della sua intelligenza, riesce a realizzare.
Consapevoli del rischio che corre l’umanità dinanzi a una tecnica vista come una "risposta" più efficiente del volontarismo politico o dello sforzo paziente educativo per civilizzare i costumi, i Governi devono promuovere un umanesimo rispettoso della dimensione spirituale e religiosa dell’uomo. Infatti, la dignità della persona umana non cambia con il fluttuare delle opinioni. Il rispetto della sua aspirazione alla giustizia e alla pace consente la costruzione di una società che promuove se stessa quando sostiene la famiglia o quando rifiuta, per esempio, il primato esclusivo delle finanze. Un Paese vive della pienezza della vita dei cittadini che lo compongono, essendo ognuno consapevole delle proprie responsabilità e potendo far valere le proprie convinzioni. Inoltre, la tensione naturale verso il vero e verso il bene è fonte di un dinamismo che genera la volontà di collaborare per realizzare il bene comune. Così, la vita sociale può arricchirsi costantemente, integrando la diversità culturale e religiosa attraverso la condivisione di valori, fonte di fraternità e di comunione. Dovendo considerare la vita in società anzitutto come una realtà di ordine spirituale, i responsabili politici hanno la missione di guidare i popoli verso l’armonia umana e verso la saggezza tanto auspicate, che devono culminare nella libertà religiosa, volto autentico della pace.
Tratto dal discorso ai nuovi ambasciatori presso la Santa Sede di Moldavia, Guinea, Belize, Siria, Ghana e Nuova Zelanda, 9 giugno 2011.
Fonte: www.avvenire.it