Gli ambientalisti statunitensi perdono l’ennesima battaglia, sottolineano alcuni media americani all’indomani della sentenza della Corte Suprema che ha letteralmente stroncato, con voto unanime (8 – 0), la causa volta a limitare le emissioni di gas serra di American Electric Power Co Inc, Southern, Xcel Energy Inc, Duke Energy Corp e TVA, ovvero le 5 multinazionali dell’energia, a cui va attribuito il 10 per cento di anidride carbonica ‘Made in USA’.
È la sconfitta degli ambientalisti e di alcuni Stati americani, California, Connecticut, Iowa, New York, Rhode Island, New Jersey, Wisconsin e Vermont (sebbene New Jersey e Wisconsin abbiano ritirato il loro sostegno recentemente dopo la nomina di due governatori repubblicani) che nel 2004, durante l’amministrazione Bush Jr., avevano indetto causa contro le cinque multinazionali per aver inquinato aria e acqua da loro utilizzata. Una sconfitta dell’intero movimento, quindi, e dell’amministrazione Obama, che nel suo programma elettorale aveva promesso grandi passi in avanti nella lotta al cambiamento climatico.
Ma soprattutto è la sconfitta di chi a gran voce continua a promuovere politiche volte a ridurre le emissioni globali di CO2, causa principale del riscaldamento globale. È la sconfitta dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) che dopo i passi indietro registrati al termine degli incontri tecnici di Bonn, prosegue la strada per la COP (Conference of Parties) di Durban (Sudafrica) con la consapevolezza che il Protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2012, possa rimanere l’unico e solo documento vincolante in materia di clima della nostra storia.
Del resto, se nel giugno 2011 “i governi stanno realizzando che ci sono delle questioni che hanno bisogno di essere regolate con soluzioni globali”, come si legge nel comunicato stampa dell’UNFCCC a firma della sua Segretaria esecutiva, Christiana Figueres, significa che qualcosa proprio non va. La soluzione è una ed una soltanto, come indica la stessa Figueres, ovvero che “i governi possano raddoppiare i propri impegni e presentare soluzioni che possano essere accettate da tutte le parti”.
Parole che si rincorrono e si ripetono ormai da decenni, mentre le emissioni di gas serra continuano ad aumentare così come il rischio che l’innalzamento della temperatura globale superi i due gradi centigradi, ovvero il punto di non ritorno come indicato da gran parte della comunità scientifica.
Secondo le ultime stime fornite all’inizio di giugno dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (International Energy Agency – IEA), infatti, le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione energetica mondiale hanno raggiunto livelli record nel corso del 2010: 30,6 gigatonnellate, il 5 per cento in più rispetto all’anno record precedente, il 2008.
Ma per molti sono solo chiacchiere e alla fine, come sottolinea una battuta della miniserie TV, Burn Up – la cui storia si sviluppa attorno ad un summit sui pericoli legati al cambiamento del clima – durante il dialogo acceso tra i due antagonisti: “Chi si prenderebbe ora la responsabilità di dire al mondo di staccare la spina?” Chi infatti, dall’alto degli scranni del potere, avrebbe il coraggio di dire che è necessario cambiare i nostri stili di vita, rinunciare all’agio di cui oggi ancora godiamo e che rimane un sogno per milioni di persone? Chi sarebbe in grado di, non dico fermare, ma limitare le emissioni di gas serra? Chi, tra di noi, avrebbe realmente il coraggio di fare questo?
La Corte suprema americana non di certo, anche perché nella sentenza si specifica chiaramente che solo il Congresso e l’Environmental Protection Agency (EPA) possono decidere in materia di riduzione delle emissioni, attraverso il Clean Water Act e il Clean Air Act, che al momento regola “l’inquinamento da smog tradizionale”, ma non quello da anidride carbonica. Quel Congresso che dal 1997 si rifiuta di firmare un Protocollo, quello di Kyoto, ormai vecchio e incapace anche di limitare il danno.
Qualcuno spinge l’Europa a dare la scossa necessaria a fare progressi, dopo che a Bonn i canadesi, affiancati da russi e nipponici, ovvero il gruppo dei più accesi nemici del post-Kyoto, hanno confermato che non firmeranno nessun nuovo impegno di taglio delle emissioni fino a quando i Paesi emergenti come Cina, India e Brasile non lo faranno anche loro. Tre Paesi che firmerebbero, secondo il giudizio di commentatori e analisti, se Washington dichiarasse la sua disponibilità.
“Dimenticatevi Kyoto. Kyoto è morto”, è il titolo di qualche giorno fa in prima pagina del Tageszeitung, il quotidiano alternativo di Berlino molto interessato al tema del riscaldamento climatico, sebbene molte agenzie internazionali come la britannica Reuters sottolineino che il Vecchio continente sia ancora il principale sostenitore di Kyoto. Forse, ma le promesse devono diventare realtà per ridurre le emissioni.
Qualcuno, come Dennis Pamlin su China Daily (edizione per l’Europa in lingua inglese), ipotizza un’unione nella lotta ai cambiamenti climatici tra UE e Cina, o meglio, “la squadra perfetta per sviluppare soluzioni a basse emissioni di anidride carbonica”. In attesa che il sogno diventi realtà, è necessario che cambino anche le percezioni di Bruxelles nei confronti di Pechino, sottolinea Pamlin, secondo cui la Repubblica Popolare cinese non è quel “drago aggressivo”, come spesso pensano gli europei. È necessaria, soprattutto, una reciproca comprensione della storia, della politica e di tutti gli aspetti che riguardano la cultura di un Paese, dal cibo alla letteratura, soprattutto tra “gli uomini di impresa”.
Mentre negli USA si confermano certezze e in Europa si dibatte e si discute, da Pechino si aprono le porte per una conferenza internazionale in cui emergano soluzioni per sviluppare un’economia a basse emissioni. Una conferenza che apre le porte ad oltre 30 organizzazioni internazionali e diversi rappresentanti di governi – tra cui USA, Regno Unito, Unione europea, Italia, Svezia, Nazioni Unite, Asian Development Bank, World Bank e l’Intergovernmental Panel on Climate Change – secondo quanto confermato da Huang Wenhang, della Commissione per le riforme e lo sviluppo nazionale. Presenti anche rappresentanti di multinazionali del petrolio, come BP, Sinopec e PetroChina.
“Che sia benedetto il riscaldamento globale!” Con questa frase si conclude il dialogo tra i due contendenti di Burn up. Se avessero ragione gli scienziati, infatti, non ci sarà neanche il tempo di colpevolizzare qualcuno, o andare a cercare le ragioni di un mancato intervento, visto che dovremmo far fronte ad una delle emergenze potenzialmente più gravi che l’uomo moderno e tecnologico abbia mai visto su questo Pianeta.
Articolo tratto da Planetnext
Fonte: Il Cambiamento