Per il colosso petrolifero anglo-olandese i biocarburanti rappresentano la nuova frontiera del business. Se non altro perché, come ammesso dal suo amministratore delegato, Peter Voser, la produzione di petrolio “declina del 5% all’anno”. In Brasile l’aggressiva espansione delle coltivazioni destinate alla produzione di canna da zucchero sta facendo svanire un pezzo alla volta la Foresta Atlantica, una selva formata da ben otto aree protette (patrimonio dell’umanità e tutelata dall’Unesco) già ridotta di quasi il 90% rispetto alla sua estensione originaria. Secondo una ricerca della Tropical Conservation Science questa importante foresta primaria, habitat di oltre 7.000 specie di animali, è in estremo pericolo proprio per la produzione di etanolo.
I biofuel stanno diventando un fenomeno così ambiguo e controverso che in Europa, dove l’etanolo brasiliano è stato classificato come “sostenibile”, alcune Ong hanno scritto al presidente Barroso per chiedere maggiori controlli sulla loro provenienza ed effettiva sostenibilità: sono ben cinque, infatti, gli studi che mettono in dubbio i loro benefici per l’ambiente. Lo fa in particolare il più recente di questi, un rapporto del comitato scientifico della European Environment Agency (Eea), in cui si fa presente che considerare i biocarburanti come carbon neutral è un grave errore, dalle “immense conseguenze potenziali”.
Conseguenze che riguardano sia i prezzi alimentari che il settore agricolo delle nazioni più povere. Per il dottor Pierre Laconte, portavoce degli autori dello studio della Eea, nel mondo si potrebbe presto andare incontro “ad un collasso delle economie rurali”. “L’agricoltura potrebbe essere spazzata via, così come il cibo che produce”, avverte Laconte, “portando a grossi problemi di scarsità alimentare”.
Ma da dove nasce l’improvviso ed enorme interesse delle maggiori compagnie petrolifere per i biocombustibili? Dal fatto che, secondo recenti calcoli, il petrolio sta per finire. Il greggio estratto in Europa, proveniente per lo più dal Mare del Nord, da un decennio cala ogni anno del 6%. A livello globale, invece, è stato calcolato che nel 2021 la produzione di greggio passerà dagli attuali 87 milioni di barili al giorno (già corrispondenti all’odierno consumo giornaliero) a 33-36 milioni.
Insomma sembrerebbe che il “picco del petrolio” è stato non solo raggiunto, ma anche superato. Da quando anche l’Agenzia internazionale dell’energia ha riconosciuto che, già dal 2006, la domanda di oro nero nel mondo ne supera l’offerta, persino le grandi compagnie petrolifere si sono rassegnate ad un destino ineluttabile, su cui da anni organizzazioni come l’Aspomettono in guardia.
Una di queste compagnie è Shell che, attraverso le parole del suo amministratore delegato, intervistato recentemente dal Financial Times, ammette che per continuare a soddisfare la domanda globale di idrocarburi sarà necessario “aggiungere l’equivalente di 4 Arabie Saudite o di 10 Mari del Nord nei prossimi dieci anni, solo per mantenere l’offerta al suo attuale livello”. E questo, avverte Voser, “anche prima di un qualunque aumento della domanda”. A farne le spese, popolazioni come quella dei Guaranì brasiliani, che ora chiedono di non occupare più le terre formalmente riconosciute dal governo brasiliano come di loro proprietà, per ricavarne biocarburante.
È il lato oscuro della green economy, sempre più tinta di verde ma non per questo meno bramosa di risorse. Per Stephen Corry, direttore generale di Survival, Movimento per i popoli indigeni, “è tragicamente ironico che i consumatori acquistino l’etanolo della Shell come un’alternativa ‘etica’ ai combustibili fossili”, quando la conversione dei loro terreni in monocolture di canna da zucchero li sta portando a “vivere in condizioni spaventose, in riserve sovraffollate o accampati ai margini della strada”.