Arte e decrescita

da | 16 Nov 2011

1. L’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale si sta avviando a conclusione. Molti e concomitanti segnali lo fanno intravedere. La crescita della produzione di merci, che ne ha costituito il carattere distintivo rappresentando non solo il fine ultimo delle attività economiche, della ricerca scientifica e delle innovazioni tecnologiche, ma anche il riferimento fondante del sistema dei valori e della coesione sociale, si è inceppata e trova difficoltà sempre maggiori a riproporsi. Il consumo annuo delle risorse rinnovabili ha superato la loro capacità di rigenerarsi e il divario aumenta in continuazione accrescendo la miseria dei popoli a cui viene sottratto il necessario per vivere; il consumo delle risorse non rinnovabili ha ridotto i loro stock, in qualche caso pericolosamente; è stata bruciata almeno la metà delle riserve globali di petrolio e quello che resta viene estratto in quantità sempre maggiori; le emissioni liquide, solide e gassose generate dalle attività antropiche hanno superato la capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle, in particolare l’anidride carbonica generata dalla combustione di fonti fossili. Dopo aver assorbito quantità crescenti di risorse dal pianeta, aver diffuso nei suoi cicli biochimici quantità sempre maggiori di veleni e averne causato sempre più gravi scompensi circolatori, la crescita della produzione di merci, come una neoplasia allo stadio terminale, lo ha debilitato a tal punto da ricavare con sempre maggiore fatica ciò che le serve per continuare a crescere.

 
2. Alla crisi energetica e alla crisi ambientale si è aggiunta nel 2008 una crisi di sovrapproduzione di merci che non è stata debellata dalle tradizionali misure di politica economica finalizzate ad aumentare la domanda mediante le commesse di grandi opere pubbliche, la riduzione delle tasse e i sussidi statali all’acquisto delle merci invendute. Le enormi quantità di denaro investite a tal fine non solo non hanno rimesso in moto la crescita, ma hanno incrementato i deficit pubblici fino all’insolvenza, costringendo gli Stati più indebitati a diminuire la spesa pubblica e aumentare le tasse. Queste scelte comportano una riduzione della domanda e, quindi, un aggravamento della crisi di sovrapproduzione, che si traduce in una diminuzione del numero degli occupati, da cui deriva una riduzione del potere d’acquisto e una riduzione ulteriore della domanda. L’intreccio della crisi ambientale, della crisi energetica, della crisi economica e della crisi occupazionale delinea la diagnosi di una malattia da cui non c’è possibilità di guarigione se la tecnologia e il lavoro non vengono indirizzati a ridurre alle potenzialità fisiologiche della terra il prelievo annuo delle risorse da trasformare in merci e l’immissione delle sostanze di scarto che i cicli biochimici sono in grado di metabolizzare, eliminando del tutto le sostanze nocive che li avvelenano.
 
3. La crescita della produzione di merci non si può realizzare se contestualmente non cresce il consumo di merci. Pertanto le società che finalizzano le attività economiche alla crescita della produzione di merci non possono non porre il consumo a fondamento del loro sistema di valori e dei modelli di comportamento condivisi. Nell’immaginario collettivo di queste società il consumo costituisce il fattore fondamentale del benessere individuale e sociale. Il progresso si identifica con la crescita della produzione e del consumo di merci. Le posizioni di chi, come ha fatto la chiesa cattolica, condanna il consumismo perché comporta un appiattimento materialistico degli esseri umani ed esalta al contempo come un miracolo la crescita della produzione di merci, sono illogiche e non credibili, penose e ridicole.
 
4. Per produrre quantità sempre maggiori di merci occorre introdurre sistematicamente nei processi produttivi tecnologie innovative in grado di aumentare la produttività. Per indurre a consumare quantità sempre maggiori di merci occorre introdurre in continuazione nei mercati prodotti innovativi che tengano alta la domanda ben oltre le necessità effettive. Pertanto, un sistema fondato sulla crescita della produzione e del consumo di merci ha bisogno di valorizzare il nuovo in quanto tale e, quindi, l’innovazione, cioè la capacità di sostituire in continuazione il nuovo con un più nuovo, ovvero di far diventare il nuovo sempre più rapidamente vecchio. «Il capitalismo – quale che sia il concetto e il giudizio che se ne dia – ha scritto Eugenio Scalfari, uno dei più autorevoli esponenti dell’intellighenzia progressista italiana – coincide (dovrebbe) con l’innovazione e con la concorrenza, travolge il vecchio e porta avanti il nuovo».[1] La valorizzazione del nuovo e la svalutazione del vecchio o, in altri termini, la valorizzazione del cambiamento e la svalutazione della conservazione, sono stati i fattori culturali che hanno nascosto sotto la seducente apparenza di un incessante avanzamento verso il meglio i danni causati nel pianeta dalla crescita del prelievo di risorse necessarie alla crescita della produzione di merci e dalla crescita delle emissioni inquinanti che ne conseguono.
 
5. Nella diffusione del valore del nuovo in quanto tale un ruolo decisivo è stato svolto dalle correnti artistiche del novecento catalogate con le formulazioni generiche e intercambiabili, di arte moderna e arte contemporanea. Poiché l’aggettivo moderno significa etimologicamente odierno (deriva dall’avverbio latino modo, che significa ora ed è rimasto sotto la forma contratta mo’ nei dialetti dell’Italia meridionale), tutte le opere d’arte quando vengono fatte sono moderne e sono destinate in breve tempo a non esserlo più. La modernità è un abito che si può indossare per un solo giro di ballo. Con analoga indeterminatezza l’aggettivo contemporaneo indica la contestualità cronologica di un fenomeno con chi l’osserva o lo descrive. Da cui si deduce che contemporanee sono le opere d’arte che si fanno ai nostri tempi, ma col passare degli anni non lo saranno più. Le capacità descrittive degli aggettivi moderno e contemporaneo applicati alle opere d’arte sono praticamente nulle. Solo nel quadro concettuale che considera il nuovo come un valore in sé riescono ad uscire dalla genericità di una definizione temporale relativa e ad assumere la connotazione di un criterio interpretativo. Le opere a cui viene riconosciuto il diritto di essere catalogate nell’arte moderna e contemporanea non sono tutte quelle che vengono fatte ai nostri tempi, ma solo quelle che contribuiscono al processo di modernizzazione proponendosi programmaticamente di essere innovative rispetto alle opere fatte prima. Sono classificabili come moderne e contemporanee solo le opere d’arte che concorrono a rompere i vincoli con cui il passato frena la proiezione dell’umanità verso il futuro. Solo le opere d’arte che concorrono a svellere i legami con cui la tradizione avviluppa la creatività e frena il progresso. Solo le opere d’arte che concorrono all’affermazione della modernità e alla sconfitta dei suoi nemici.
 
6. Il valore dell’innovazione nella ricerca artistica si è manifestato per la prima volta nella storia all’inizio del secolo scorso con le avanguardie artistiche. Una definizione di cui è stata messa in evidenza la matrice militare, come del resto di origine militare è l’etimologia della parola progresso, usata dai generali romani per indicare l’avanzamento dei loro eserciti nei territori da conquistare. Le avanguardie artistiche si sono autorappresentate come manipoli di spregiudicati innovatori che, rompendo con la mentalità e il sistema dei valori vigenti, si spingevano a esplorare territori sconosciuti, a rompere convinzioni consolidate, a sperimentare nuove modalità espressive, con l’obbiettivo di anticipare mutamenti culturali, in senso lato, che, grazie a loro, in seguito si sarebbero imposti a livello di massa. Un atteggiamento programmaticamente anticonformista e sovversivo, che sin dall’inizio ha trovato il sostegno dei settori industriali, finanziari e politici interessati ad accelerare i processi di modernizzazione, industrializzazione e urbanizzazione avviati in quegli anni, a sostituire nell’immaginario collettivo il valore della conservazione e dell’attaccamento al passato col valore del cambiamento e della proiezione verso il futuro, a trasformare le regole da valori sociali condivisi in vincoli mentali che limitano la libertà degli individui, rallentano la penetrazione del nuovo e impediscono la diffusione dei miglioramenti che le innovazioni sono in grado di introdurre nelle condizioni di vita. Anche quando la collaborazione tra le avanguardie artistiche del novecento e i settori economico-produttivi in ascesa non è stata diretta, come è avvenuto con i futuristi, il Bauhaus e Le Corbusier, la sintonia è stata totale e si è tradotta in un sostegno reciproco: gli artisti d’avanguardia hanno contribuito in maniera determinante a fornire dignità culturale al sistema di valori di cui il sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione e del consumo di merci aveva bisogno per affermarsi; il sistema economico e produttivo ha favorito l’affermazione delle avanguardie artistiche mettendo a loro disposizione gli strumenti del suo potere: gallerie, musei, università, istituzioni culturali, committenti, collezionisti, critici, giornali. Valorizzando le avanguardie rafforzava la loro capacità di valorizzare i mutamenti culturali di cui aveva bisogno per conquistare un consenso generalizzato al modello economico e produttivo che stava cambiando totalmente il modo di vivere delle persone e l’organizzazione sociale.
 
7. La persistenza dei valori della civiltà contadina, il rispetto delle regole tramandate dai padri, la sobrietà, la conservazione, la continuità dei modelli di comportamento tra le generazioni, la durata nel tempo degli oggetti, non erano compatibili con la crescita della produzione e del consumo di merci. Dovevano essere ridicolizzati e percepiti come anacronistici per essere sostituiti da un sistema opposto di valori fondato sulla trasgressione sistematica delle regole, la cesura col passato, la proiezione continua nel futuro, la velocità, i cambiamenti, le innovazioni. Le avanguardie artistiche hanno esaltato questi valori, l’arte moderna e contemporanea ne ha fatto i suoi canoni. Canoni ancora più rigidi dei canoni che dichiarava di voler abbattere. Ne è risultato un capovolgimento di senso delle parole e dei concetti che esprimono. La trasgressione delle regole è diventata la regola a cui uniformarsi. La disobbedienza un imperativo a cui obbedire. Bisogna essere disobbedienti. L’innovazione un obbligo. L’anticonformismo si è trasformato nel più rigido conformismo. Impossibile trovare un intellettuale in qualsiasi campo che non fosse anticonformista. A chi ha avuto il coraggio, o l’incoscienza, di non adeguarsi a questo modello e di agire in modo autonomo, si sarebbe potuto chiedere ironicamente perché non facesse l’anticonformista come tutti gli altri.
 
8. Negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale la crescita della produzione di merci ha provocato uno sconvolgimento radicale dei modi di vivere e del sistema dei valori. L’urbanizzazione, il consumismo, gli sviluppi della tecnologia, il potenziamento delle reti e dei mezzi di trasporto e comunicazione, i mass media e la pubblicità hanno reciso i legami coi modi di vivere e con i valori del passato, proiettando l’umanità in un vortice incessante di cambiamenti. La necessità di mantenere alto il tasso di crescita della produzione e del consumo di merci ha imposto una progressiva accelerazione delle innovazioni. La velocità con cui il nuovo veniva sostituito da un più nuovo è stata considerata il parametro dell’avanzamento verso il meglio. Il principale indicatore del progresso. L’arte contemporanea a questi mutamenti ne ha assunto le connotazioni, esaltando l’innovazione e la cesura col passato come elementi fondanti della creatività. La ricerca del nuovo è diventato l’elemento che ha uniformato tutte le correnti artistiche in tutti i settori espressivi, dalla musica, alla letteratura, alle discipline che tradizionalmente si definivano figurative e, pertanto, non potevano più esserlo. «Al nuovo – ha scritto Pierre Boulez, uno dei più autorevoli musicisti della seconda metà del novecento – va attribuita una visibilità sfacciata».[2] Tra gli anni cinquanta e sessanta in letteratura si è sviluppata la corrente del nouveau roman, che avuto i suoi massimi rappresentanti in Francia. Nel 1961 la poesia italiana contemporanea è stata raccolta in un’antologia intitolata I Novissimi, bruciando però con questo superlativo assoluto la possibilità di definire i poeti delle generazioni successive. Più accortamente i letterati innovatori italiani riuniti nel Gruppo 63 si sono definiti neo-avanguardia, lasciando ai letterati che sarebbero venuti dopo di loro la possibilità di evidenziare le loro caratteristiche innovative aggiungendo alla stessa definizione un numero crescente ad libitum di prefissi neo. Tuttavia il testimone non è stato raccolto, probabilmente perché le successive innovazioni si sarebbero inserite in una linea di continuità e non di rottura con le precedenti ricerche innovative. Per marcare la propria discontinuità e caratterizzare la diversità della propria ricerca innovativa rispetto alle ricerche innovative delle precedenti avanguardie, negli anni ottanta una corrente artistica nel settore delle arti non più figurative ha scelto di chiamarsi col nome di trans-avanguardia.
 
9. Il sistema economico fondato sulla crescita della produzione e del consumo di merci ha bisogno di individui che non sappiano fare niente e, pertanto, siano costretti a comprare tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere. Di conseguenza deve fare in modo che si perdano le conoscenze che hanno consentito per millenni agli esseri umani di autoprodurre molti beni essenziali alla loro sopravvivenza. Affinché questa perdita non sia percepita come un impoverimento culturale occorre che il saper fare sia disinserito dall’ambito del sapere e considerato una forma inferiore dell’agire umano. Un ruolo fondamentale in questa operazione è stato svolto dalla scuola, dove le attività manuali sono state progressivamente cancellate dai programmi di studio e la conoscenza per esperienza diretta è stata sostituita dalla mediazione libresca. Al contempo la sostituzione dei beni autoprodotti con l’acquisto di merci prodotte industrialmente è stata inserita nella lista delle conquiste sociali e valorizzata come fattore di progresso e liberazione dalla necessità. Un ruolo non meno determinante in questo processo di svalutazione culturale del saper fare è stato svolto dall’arte moderna e contemporanea che ha considerato come vincoli alla creatività l’apprendistato del mestiere, la conoscenza delle tecniche e dei materiali, il perfezionamento delle abilità manuali sotto la guida di un maestro. Vincoli che legano al passato e impediscono di effettuare le cesure necessarie a percorrere senza condizionamenti strade nuove e inesplorate, le strade del futuro su cui mai nessuno si è avventurato, e di cui pertanto non esistono mappe né guide. Da quando l’arte è diventata moderna e contemporanea, da quando cioè l’unico criterio di validazione artistica di un’opera sono diventate le sue caratteristiche innovative, la padronanza tecnica costituisce una ragione sufficiente d’esclusione perché testimonia un legame col passato e l’adesione a un sistema di regole codificato. Il saper fare è stato espulso dallo statuto dell’arte moderna e contemporanea perché è stato considerato la cartina di tornasole dell’antimodernità, lo stigma di una concezione artistica vecchia.
 
10. Prima che lo scopo dell’economia diventasse la crescita della produzione di merci, quando il fare umano non era finalizzato a fare sempre di più, ma a fare bene per aggiungere bellezza alla bellezza originaria del mondo, il saper fare nell’arte era finalizzato a preservare la bellezza dalla sua intrinseca caducità. Fissata dall’opera d’arte nel suo massimo splendore, rimaneva al riparo dalle offese che inevitabilmente le infligge lo scorrere del tempo. Quando il fare è stato finalizzato a fare sempre di più ha cominciato a distruggere sistematicamente la bellezza. Sia la bellezza originaria del mondo, sia la bellezza aggiunta dal fare bene nel corso dei secoli. Nella finalizzazione del fare al fare sempre di più, il mondo è stato ridotto a serbatoio di risorse e discarica di rifiuti. Per ricavare quantità sempre maggiori di risorse si è distrutta senza rimpianti la bellezza di paesaggi naturali o antropizzati. Per trasformarle in quantità sempre maggiori di merci la superficie terrestre è stata ricoperta di incrostazioni orripilanti di edifici e d’asfalto, i fiumi sono stati trasformati in fogne e riempiti di sostanze velenose, l’aria è stata intossicata di fumi orribili a vedersi e devastanti a respirarsi, sono stati abbattuti boschi secolari. Per liberarsi delle quantità sempre maggiori di merci rese vecchie dall’offerta e dall’acquisto merci più nuove, gli oggetti dismessi sono stati accumulati in ammassi sempre più grandi, orribili a vedersi, maleodoranti, con effetti devastanti sul ciclo dell’acqua. Sarebbe stato possibile perseguitare la bellezza originaria del mondo e la bellezza aggiunta dal fare umano quando non era finalizzato a fare sempre di più, ma era un fare bene finalizzato alla contemplazione, se la bellezza fosse ancora stata considerata un valore nell’immaginario collettivo e nel sistema dei valori condivisi? Se l’arte avesse continuato a proporsi di difenderla anche dalle cause naturali che ne intaccano l’integrità? Se all’arte si fosse continuato a chiedere di esprimere l’esigenza, tanto utopica quanto inalienabile dall’animo umano, di superare i limiti dello spazio e del tempo e creare una continuità tra le generazioni proprio attraverso la difesa della bellezza? Ma come può l’arte preservare la bellezza se le capacità tecniche necessarie a rappresentarla vengono disprezzate e ritenute un freno alla capacità creativa? Se si ritengono dannosi e si aboliscono i maestri in grado di trasmetterle?
 
11. Nei consigli d’amministrazione dei musei d’arte moderna e contemporanea siedono i più autorevoli rappresentanti del potere politico, economico e finanziario. Che li finanziano abbondantemente, perché nonostante gli enormi mezzi a disposizione, il lodevole impegno degli staff che li dirigono, il sostegno di critici e storici dell’arte, la copertura mediatica di cui godono, i proventi dei biglietti che staccano non basterebbero a coprire neanche i costi di pulizia. Come è possibile che il potere offra un sostegno così decisivo a un’arte che programmaticamente si propone di combatterlo, di sovvertire i fondamenti culturali su cui si sostiene? Anche se si cerca di occultarlo con una cortina fumogena di parole, il fatto è che l’arte moderna e contemporanea è in realtà un’arte di regime. L’arte di regime nell’epoca storica connotata dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. L’arte che offre al regime la valorizzazione culturale dell’innovazione e del cambiamento di cui il regime ha bisogno per mantenere intatta la propensione degli esseri umani a consumare quantità crescenti di merci, la cui appetibilità consiste nel fatto di essere nuove indipendentemente dal fatto di essere utili. Se dalle stanze di un museo di arte moderna e contemporanea si sposta lo sguardo sul paesaggio che si vede dalle loro finestre, non si può non percepire la sintonia tra le innovazioni introdotte sul territorio dal fare finalizzato a fare sempre di più e le opere realizzate con lo scopo di essere innovative: la distruzione della bellezza. Emblematicamente il direttore di un’Accademia di Belle Arti (per quale pigrizia mentale si continuano a chiamare così queste istituzioni?) scrivendo sul giornale di un grande gruppo industriale ironizzava sui superstiti esemplari di artisti che, a causa della loro ottusità mentale, si ostinano a fare ciò che spregiativamente definiva la bella pittura.
 
12. Quando un’epoca storica si avvia a concludersi, davanti all’umanità si apre un bivio: o un regresso verso una fase storica meno evoluta e lo scatenamento di una conflittualità generalizzata, come è successo con la caduta dell’impero romano, o l’inizio di una fase storica più evoluta in cui della fase precedente si conservano le conquiste positive e si superano gli aspetti negativi, come è successo nel passaggio dal Medio-evo al Rinascimento, sia detto senza che ciò suoni come disprezzo per il Medio-evo, né come esaltazione acritica del Rinascimento. Se si continuerà a pensare che la crisi dell’economia della crescita si possa superare tentando di rilanciare la crescita, come sta succedendo, il consumo di risorse continuerà a intaccare gli stock, le superfici ricoperte da incrostazioni di materiali inorganici continueranno ad estendersi, le sostanze di sintesi chimica ad avvelenare i cicli biochimici, i rifiuti occupare estensioni sempre più vaste del globo terracqueo, le disuguaglianze tra la percentuale ristretta di umanità che si suicida per eccesso di consumi e la percentuale priva del necessario per vivere aumenteranno, il denaro continuerà ad essere l’unico valore a cui dedicare la vita, l’occupazione nei paesi industrializzati a diminuire, la conflittualità internazionale ad aggravarsi. La crisi è destinata a precipitare nel caos. Se, invece, un soprassalto dell’istinto di sopravvivenza farà prevalere la scelta di ridurre la produzione e il consumo di merci alla capacità fisiologica del pianeta, potrà avviarsi una fase storica più avanzata in cui le attività economiche e produttive torneranno ad essere il mezzo utilizzato dagli esseri umani per raggiungere il fine di più piena realizzazione delle potenzialità insite nella loro natura e gli esseri umani smetteranno di essere i mezzi utilizzati dal sistema economico-produttivo per raggiungere il fine della crescita della produzione di merci. Soltanto un nuovo Rinascimento può consentire di superare la crisi dell’epoca storica avviata dalla rivoluzione industriale con l’apertura di una fase storica più avanzata e non con un regresso caratterizzato dalla diffusione di una conflittualità generalizzata.
 
13. Per quanto radicalmente innovativi siano gli elementi caratterizzanti dell’arte rinascimentale rispetto all’arte medievale, non hanno rappresentato una cesura nei suoi confronti, ma si sono definiti mediante una serie di spostamenti successivi fino a manifestarsi come espressione compiuta di una cultura altra solo nella pienezza della maturità. Analogamente una ricerca artistica inserita in un paradigma culturale che si proponga di riportare gli esseri umani dal ruolo di mezzi della crescita economica a fini delle attività economico-produttive non può respingere in toto la cultura della fase storica che si sta chiudendo. La consapevolezza del ruolo nefasto dell’innovazione come valore in sé non può semplicisticamente portare al suo rifiuto e alla valorizzazione della conservazione in quanto tale. Il punto di riferimento, a partire dalla valutazione che un’economia fondata sulla crescita illimitata della produzione di merci è una distopia e storicamente è arrivata al capolinea, è la valutazione delle scelte in base alla loro capacità di futuro. In questo contesto non hanno un valore assoluto né l’innovazione né la conservazione, perché alcune scelte innovative hanno più capacità di futuro rispetto all’esistente e altre ne hanno meno. In sintonia con questa impostazione culturale, un’arte che si liberi dall’obbligo dell’innovazione non può sottomettersi all’obbligo di rifiutarla. Un’alternativa di questo genere non esiste. Tuttavia, un’arte che si liberi dall’obbligo dell’innovazione non può essere d’avanguardia, perché le avanguardie hanno lo scopo di organizzare gruppi di artisti accomunati da un progetto condiviso di carattere innovativo con una precisa volontà di cesura rispetto all’esistente, dove nell’esistente sono compresi anche gli altri movimenti d’avanguardia. Ma l’appartenenza a un gruppo che si propone di essere innovativo comporta l’adesione a un modello, per di più coerente con i fini dell’economia della crescita, e l’adesione a un modello comporta l’accettazione di un condizionamento esterno e di un vincolo all’autonomia individuale, mentre la ricerca artistica di carattere individuale assume necessariamente i connotati dell’irripetibilità e, in quanto tale, è per definizione innovativa proprio perché non si propone di esserlo.
 
14. Una ricerca artistica libera dall’obbligo dell’innovazione, non inseribile nei canoni dell’arte moderna e contemporanea, è un tassello fondamentale nella costruzione di un paradigma culturale capace di far superare con l’apertura di un fase storica più evoluta il tornante della storia che l’umanità si trova di fronte. Se nella definizione di questo paradigma culturale la scienza e la tecnologia hanno il compito di indirizzare la ricerca al superamento del fare finalizzato al fare sempre di più e alla sua evoluzione in un fare connotato qualitativamente, in un fare bene che consenta di migliorare il mondo mentre se ne utilizzano le risorse per migliorare la qualità della vita, il compito dell’arte è reinserire nell’immaginario collettivo il valore della bellezza come fine del fare bene. La difesa della bellezza originaria del mondo dai guasti che può arrecarle un’umanità convinta di esserne la padrona autorizzata a sfruttarne le risorse e a utilizzare per i suoi scopi tutte le altre specie viventi senza altri limiti se non quelli posti dalla potenza tecnologica raggiunta, e la valorizzazione della bellezza che può aggiungere al mondo un’umanità consapevole dei legami vitali che la inseriscono nel contesto della biosfera insieme a tutte le altre specie viventi con la specifica capacità di poterla parzialmente, ma sostanzialmente, modificare in meglio o in peggio. Il contributo che, mediante la difesa e la valorizzazione della bellezza nell’immaginario collettivo, l’arte può dare alla definizione di un paradigma culturale capace di arrestare la deriva in cui l’umanità è stata trascinata dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, è un compito entusiasmante anche se non facile, perché occorre ricostruire dalle macerie accumulate in un secolo di distruzioni, di demolizione culturale del saper fare, di semplificazioni, di banalizzazioni, di ideologie spacciate per idee, di marketing spregiudicato spacciato per critica artistica e storia dell’arte, di fatue valorizzazioni verbali del nulla, di arroganza nella gestione del potere. Ma un secolo, in fin dei conti, è un attimo nella storia millenaria dell’umanità e della ricerca artistica.
 
15. Le fondamenta di questa ricostruzione non potranno che poggiare su un solido legame col passato. «[…] non c’è progresso – sosteneva Pier Paolo Paolini pochi mesi prima di essere assassinato, ma questa è la cifra di tutta la sua ricerca esistenziale – senza profondi recuperi nel passato, senza mortali nostalgie per le condizioni di vita anteriori: dove si era comunque realizzato l’uomo spendendovi interamente quella cosa sacra che è la vita del corpo». E aggiungeva: «Un tecnico americano e una guardia rossa disprezzano analogamente (sia pure per ragioni del tutto diverse) la necessità di questi recuperi, e si pongono con spirito analogamente sacrilego di fronte al passato».[3] Gli artisti moderni e contemporanei hanno contribuito per più di un secolo a fornire una presunta dignità culturale a questi atteggiamenti. Gli artisti che contribuiranno a definire un paradigma culturale in grado di riaprire una prospettiva di futuro per l’umanità troveranno nella loro nostalgia per il passato la forza necessaria a recuperare quanto di vitale ancora contengono i suoi lasciti scampati al disprezzo dei tecnici, dei politici progressisti di tutti i colori e degli artisti moderni e contemporanei.
 
16. Per dare una connotazione qualitativa al fare, per fare bene, e per consentire alle cose fatte bene di superare i limiti dello spazio e del tempo, occorre saper fare. L’arte moderna e contemporanea ha disprezzato e ridicolizzato la dimensione artigianale, la paziente e tenace acquisizione del mestiere, in nome di una presunta libertà creativa che ne verrebbe ostacolata. Il disprezzo delle abilità manuali guidate dalla progettualità, non solo ha aperto lo spazio al dilettantismo, alle stravaganze e alle banalità, ma ha consentito ai critici inseriti nel sistema di potere che governa le istituzioni dell’arte moderna e contemporanea di effettuare valutazioni soggettive, prive di qualsiasi possibilità di riscontro con parametri condivisi, ma funzionali alla valorizzazione economica degli investimenti in opere di artisti inseriti nella categoria degli emergenti. Acquistare le opere di artisti già emersi dal magma indistinto degli innovatori, grazie alla valorizzazione effettuata da critici accreditati dal sistema di potere, e ormai quotati sul mercato, non remunera il capitale investito nella stessa misura in cui lo remunera l’acquisto delle opere di artisti emergenti, che cioè sono stati garantiti dai critici ma non ancora valorizzati appieno dal mercato, per cui le loro quotazioni non hanno ancora raggiunto il valore degli artisti emersi, ma lo raggiungeranno. Comprare le opere di artisti emergenti significa ottenere un’ottima plusvalenza quando saranno emersi. Nel passaggio dal participio presente al participio passato del verbo emergere, l’arte moderna e contemporanea passa dal ruolo di strumento della valorizzazione culturale del nuovo di cui il sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci ha bisogno per continuare a far crescere il consumo di merci, a un inserimento diretto nella dinamica mercantile della crescita: l’offerta dei prodotti nuovi degli artisti emergenti è indispensabile per mantenere intatta la domanda in questo settore merceologico.
 
17. La dimensione artigianale, ovvero la capacità di realizzare un progetto mediante le abilità manuali, la conoscenza dei materiali e delle loro potenzialità, la padronanza delle tecniche e del mestiere, è il carattere distintivo della specie umana rispetto a tutte le altre specie viventi. D’altra parte, solo la consapevolezza di quanto si sa fare con le proprie abilità manuali, abbinata alla conoscenza di quanto consentono di fare i materiali che si manipolano e gli strumenti con cui si manipolano, permettono di concepire un progetto e di tradurlo in una realizzazione. Più raffinate sono le abilità manuali, più approfondita è la conoscenza delle potenzialità dei materiali e degli strumenti con cui si lavorano, più complessi e articolati sono i progetti che si possono concepire. La capacità di modellare la materia mediante le abilità manuali è il tramite tra il dentro e il fuori di sé, tra la potenzialità e l’attuazione. Si può pensare di fare solo ciò che si sa di poter fare. Il saper fare non è soltanto il mezzo per attuare ciò che si progetta, ma costituisce anche la misura di ciò che si può pensare e progettare. Il collegamento biunivoco tra il saper fare guidato dalla progettazione e la capacità di progettare guidata dalla consapevolezza di ciò che si sa fare, consente di realizzare al massimo grado la natura specifica della specie umana tra tutte le specie animali. Solo la capacità di progettare in base a quanto si sa fare e di fare ciò che si progetta consente agli esseri umani di liberarsi dalla sottomissione totale alla natura e di esprimere le loro potenzialità creative. A far credere che il saper fare e la manualità rientrassero in una sfera inferiore dell’agire umano è stata la necessità di aumentare la dipendenza di un numero crescente di persone dall’acquisto di merci, perché chi non sa fare nulla deve comprare tutto ciò che gli serve per vivere e, quindi, è più funzionale a un sistema fondato sulla crescita della produzione di merci di chi sa fare e non deve comprare ciò che sa fare. È stata l’esigenza di rappresentare nell’immaginario collettivo un impoverimento culturale come una conquista di libertà, a decretare l’ostracismo delle conoscenze tecniche e dell’apprendistato, la loro damnatio nominis e la loro damnatio memoriae nell’ambito dell’arte moderna e contemporanea.
 
18. Come si potrà recuperare nell’immaginario collettivo il valore della bellezza se non lo riproporrà la ricerca artistica? E se non lo farà, come si potrà rifiutare che la bellezza venga distrutta in nome del profitto, che, col consenso generalizzato, in nome della modernità e del progresso una chiesetta medievale venga abbattuta per costruire un centro commerciale, una collina boscosa sia trasformata in un agglomerato di villette a schiera, un sentiero campestre diventi una strada di scorrimento, le acque limpide di un fiume che scorre tra due filari di alberi siano trasformate in una discarica di rifiuti tossici, un villaggio di pescatori circondato dalla macchia mediterranea venga cancellato per costruire una barriera di condomini lungo la costa, la biodiversità di un’area agricola scandita da campi coltivati per autoconsumo sia fagocitata da un quartiere periferico o da una distesa di pannelli fotovoltaici? Come si potrà provare nostalgia per le condizioni di vita che si svolgevano in quei luoghi se l’arte non effettuerà profondi recuperi del passato per far riaffiorare dalle macerie la loro bellezza originaria e la bellezza che vi aveva aggiunto il lavoro umano finalizzato a fare bene? Se invece l’arte continuerà a valorizzare nell’immaginario collettivo l’innovazione e la cesura col passato, il fare finalizzato a fare sempre di più continuerà a ricevere un consenso sociale generalizzato e in nome della modernità e del progresso si continuerà a ritenere che la distruzione di quanto è stato fatto sia la premessa necessaria per fare qualcosa di meglio, che per creare occorra prima distruggere, che, anzi, la distruzione sia già di per sé un’operazione creativa, come è stato teorizzato da Joseph Schumpeter, uno dei più autorevoli economisti del novecento. Una sintonia totale connette in un paradigma culturale omogeneo l’innovazione e la cesura col passato come criteri di validazione artistica con la distruzione creatrice come obbiettivo economico e tecnologico fondante di un sistema finalizzato alla crescita della produzione di merci. Una ricerca artistica libera dai vincoli dell’arte moderna e contemporanea, capace di riportare la bellezza al centro del sistema dei valori condivisi e di rivalutare il saper fare guidato dall’intelligenza progettuale come massima realizzazione delle potenzialità insite nella specie umana, può dare un contributo decisivo alla formazione di un diverso paradigma culturale che scalzi via la centralità assunta dal fare finalizzato a fare sempre di più e riporti al suo posto, come è sempre stato nella storia dell’umanità prima della rivoluzione industriale, il fare bene finalizzato alla contemplazione di ciò che si è fatto, della bellezza che col proprio fare bene ogni generazione ha aggiunto e può continuare ad aggiungere alla bellezza originaria del mondo.


[1] Eugenio Scalfari, I crociati di Vicenza a cena col diavolo, la Repubblica, 15 ottobre 2006, pag. 27
[2] Pierre Boulez, la Repubblica, 29 marzo 2009, pag. 44
 
[3] Tommaso Anzoino, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro numero 51, dicembre 1975
 
Fonte: www.ilribelle.com