Keynes, debito pubblico e autarchia

da | 15 Nov 2011

Molti confronti sono stati fatti tra la crisi economica che attanaglia oggi le economie occidentali e quella che si dispiegò in tutta la sua drammatica forza nel 1929 e che è passata alla storia come la grande depressione. Al di là delle similitudini e delle differenze, è interessante osservare quali furono le reazioni poco meno di un secolo fa al primo grande e globale fallimento del libero mercato. E come la risposta dell’economista britannico John Maynard Keynes, fu in grado di spingere l’economia verso una nuova e ancora più veloce crescita esponenziale di produzione e consumo.

Ma negli stessi anni in cui Keynes pubblicava la sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, dando all’economia mondiale una nuova chance per uscire dalla crisi e ripartire con ancora più forza verso una crescita “senza fine”, l’Italia, costretta da sanzioni internazionali, formulò una risposta differente alla crisi del liberismo: l’autarchia.
Negli anni trenta, il Fascismo raccolse intorno a sé ingegneri, chimici, scienziati, economisti ed intellettuali e li organizzò in centri di ricerca che avevano il preciso obiettivo di ridurre gli sprechi e utilizzare materie prime e fonti energetiche reperibili sul territorio italiano[1]. E poiché l’Italia non è mai stata ricca di fonti fossili e minerarie, le risorse da utilizzare non potevano che essere rinnovabili e pulite. Si produsse così un interessante e forse involontario laboratorio di green economy che restò operante fino a quando il regime non crollò sotto il peso di un insopportabile totalitarismo e delle troppe scelte sbagliate.
Alla fine vinse Keynes e la crescita di produzione e consumi potè riprendere con maggior vigore, rafforzata da un’idea nuova: lo Stato non solo può intervenire nei processi economici, ma ha il dovere di farlo. Spendendo in deficit per sostenere i consumi, la produzione e l’occupazione. Fino a quando, aggiungiamo noi, tutto il sistema non va definitivamente in tilt.
E, infatti, la crisi è ritornata più grave e complessa di prima: oggi non c’è più spazio fisico per far crescere ulteriormente i nostri consumi, abbiamo debiti pubblici e privati che hanno raggiunto dimensioni colossali in tutti i paesi industrializzati e stiamo consumando le risorse della Terra a ritmi vertiginosi.
Consapevoli del fatto che non si debbano più ripetere esperienze totalitarie e liberticide[2], ci siamo, quindi, proposti di guardare con un po’ più di serenità all’esperienza autarchica. Una esperienza che di fronte a riscaldamento del pianeta, esaurimento delle fonti fossili, disastro nucleare, squilibri economici e sociali, appare di sconcertante attualità.
 
È la domanda che genera l’offerta.
Una grande innovazione di Keynes è stata l’introduzione nel pensiero economico dell’idea in base alla quale è la domanda di merci che stimola la produzione e genera l’offerta. Ciò significa che per permettere all’industria di produrre di più occorre sostenere i consumi. In molti mercati saturi di oggi, come quello delle automobili, questa affermazione può sembrare banale. Senza pubblicità, incentivi alla rottamazione, finanziamenti a tasso zero ed altri strumenti per stimolare la domanda, molte auto resterebbero invendute nei piazzali. Ma all’epoca di Keynes non era così.
Fino agli anni trenta del secolo scorso, gli economisti erano convinti del contrario: l’idea prevalente era che l’offerta di merci generasse la domanda. Bastava, cioè produrre nuove merci ed immetterle sul mercato per generare una domanda che, ad un certo livello “accettabile” dei prezzi, avrebbe assorbito tutta la produzione. Si tratta di un’idea che in realtà è stata verificata ogni volta che ci si è trovati di fronte a nuovi mercati da conquistare con la produzione di massa. L’offerta ha creato la domanda in Europa e negli Stati Uniti man mano che la rivoluzione industriale dispiegava le sue ali, così come in Italia più tardi, nel secondo dopoguerra fino a tutti gli anni sessanta, quando le case degli Italiani hanno cominciato a riempirsi di frigoriferi, televisori, lavatrici e le strade di automobili: tutte merci che fino ad allora le persone non possedevano.
Nel 1910 una delle prime automobili, la Ford Modello T, era disponibile solo nel colore nero opaco. Nessuno aveva l’automobile, quindi tutti erano disposti ad acquistare questa novità a prescindere dal colore. Il prezzo era l’unico punto di incontro tra la domanda e l’offerta. Tanto che il motto di Henry Ford era “ognuno può avere una Modello T del colore che preferisce purché sia nero”.
La produzione industriale in serie aveva davanti a sé un enorme mercato di famiglie da motorizzare. Bastava contenere i costi di produzione, e avere una automobile con un prezzo finale abbastanza basso, per vendere tutta la produzione. In un simile scenario, abbassare il prezzo dell’automobile consentiva di renderla accessibile ad un numero crescente di persone, quindi di incrementarne la domanda. In poco più di 15 anni, Henry Ford riuscì a portare il prezzo della sua Modello T dagli iniziali 850 dollari del 1910 ai 285 dollari del 1927. Nello stesso periodo ne vendette più di 15 milioni di esemplari. Nel frattempo, il costante aumento della produttività consentiva di tenere inalterati i salari e quindi la capacità di acquisto delle famiglie. La teoria classica era perfettamente verificata: l’offerta generava la domanda.
Ma la crisi del 1929 cambia tutto. Non basta più produrre a costi sempre più bassi per vendere una quantità sempre maggiore di merci. Il crollo della Borsa valori di New York si ripercuote sui piccoli risparmiatori che da un lato sostenevano la domanda di merci e dall’altro investivano in titoli azionari i loro risparmi, e trascina nel baratro l’intera economia. A fronte di una domanda in contrazione, le fabbriche cominciano a fermarsi. L’aumento della disoccupazione fa crollare il reddito dei consumatori e, quindi, riduce ulteriormente la capacità del sistema economico di assorbire l’offerta di merci, che restano invendute. Di fronte a mercati che non sono più in grado di assorbire la produzione, la teoria classica non funziona più: l’offerta non è più in grado di generare la domanda.
La proposta di Keynes per uscire dalla crisi epocale del ’29, è quella di sostenere dall’esterno la domanda di merci in modo tale che l’offerta sovrabbondante rispetto alle richieste potesse essere collocata ugualmente sul mercato. In defintiva, Keynes propone una forzatura necessaria del mercato per sostenere i consumi.
Nello scenario dell’epoca, l’idea keyensiana appare subito come l’unica possibilità per rimettere in moto le fabbriche e sfruttare a pieno la loro capacità produttiva, sottoutilizzata a causa della crisi economica. La riattivazione degli impianti produttivi avrebbe permesso anche di riassorbire la disoccupazione arrivata a livelli record. Negli Stati Uniti si era passati in breve tempo dal 3 al 25% di popolazione disoccupata.
 
La fine del libero mercato: solo lo Stato è in grado di rimettere in moto l’economia.
Per sostenere la sua idea, Keynes descrive la domanda complessiva di merci come la somma dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della spesa dello Stato. Non potendo agire su consumi e investimenti, immobilizzati e depressi dalla crisi economica, non resta che agire sulla spesa pubblica. Se lo Stato spende di più indebitandosi, farà aumentare la domanda complessiva di merci e per soddisfare la domanda incrementata dalla spesa pubblica, il sistema produttivo si riattiverà offrendo una quantità maggiore di prodotti.
Dopo aver demolito una prima idea dell’economia classica, quella secondo la quale l’offerta genera la domanda, Keynes attacca anche un ulteriore caposaldo di tutta la teoria economica che si era sviluppata fino a quel momento: il laissez-faire.
Laissez-faire in francese significa “lasciate fare” ed è il principio cardine del liberismo in economia. Secondo questa idea, l’azione di ogni operatore economico alla ricerca del proprio benessere è sufficiente a garantire la prosperità economica di tutta la società. In altre parole, se tutti fanno il proprio interesse e sono completamente liberi di farlo all’interno del mercato, tutti “stanno bene” nel senso che riescono a soddisfare i propri bisogni al massimo livello possibile date le risorse economiche disponibili.
Lo Stato deve, quindi “lasciar fare” al mercato, che da solo raggiungerà un punto di equilibrio e allocherà le risorse disponibili nel migliore dei modi. I sostenitori del libero mercato più ortodossi ancora oggi inorridiscono all’idea che lo Stato possa intervenire nei processi economici.
Rispetto a questa teoria, Keynes negli anni trenta ha gioco facile: la grande depressione ha dimostrato che il mercato da solo non è in grado di mantenere le promesse fatte dai liberisti. La situazione è drammatica e la crisi è globale: il libero mercato non ha garantito né crescita economica, né piena occupazione. Nonostante gli operatori economici fossero liberi di agire sul mercato, nonostante lo Stato non abbia interferito nei meccanismi mercantili, nonostante tutti gli operatori economici fossero spinti ad agire nel proprio interesse, la maggior parte delle persone non “sta bene”, nel senso che non riesce a soddisfare i propri bisogni al massimo livello possibile date le risorse economiche disponibili. La dimostrazione di ciò sta nel fatto che gli impianti di produzione sono sottoutilizzati e un gran numero di persone che sarebbe disponibile a lavorare, resta disoccupata.
Intanto, la rivoluzione industriale ha già sradicato milioni di persone da sistemi economici fondati sull’agricoltura e capaci di soddisfare i bisogni di base attraverso meccanismi non necessariamente mercantili. Milioni di uomini, donne e bambini ora dipendono da un salario che non c’è più per acquistare buona parte delle merci di cui hanno bisogno per vivere. Senza salari e senza terra, milioni di persone ingrossano le file dei poveri nelle metropoli industrializzate.
Il libero mercato ha fallito e non si può più lasciarlo fare. Lo Stato deve intervenire nell’economia. Senza il suo appoggio esterno, i sistemi economici “moderni” sono destinati alla stagnazione e non si riprenderanno tanto facilmente.
Le idee di Keynes sono l’ancora di salvezza per l’economia della crescita e segnano la definitiva integrazione degli apparati statali nei sistemi capitalisti moderni. Con Keynes lo Stato diventa un fondamentale operatore economico e tra i suoi obiettivi istituzionali rientra quello di sostenere la crescita di produzione e consumi. Una idea talmente forte da entrare nel retroterra culturale di generazioni di politici di tutto l’occidente, di qualsiasi orientamento politico. Oggi nessun politico di destra, di centro o di sinistra metterebbe in discussione l’idea secondo la quale “in tempi di crisi lo Stato deve sostenere i consumi per rilanciare l’economia”.
 
L’intervento dello Stato moltiplica la crescita.
L’intervento dello Stato non è solo necessario, ma appare miracoloso per effetto del “moltiplicatore keynesiano”, un meccanismo capace di generare una crescita economica ben maggiore dell’incremento della spesa pubblica. Gli effetti benefici sulla crescita economica di un incremento della spesa pubblica, saranno tanto maggiori quanto maggiore è la propensione al consumo dell’intero sistema economico. Per chiarire questo concetto, ricorriamo ad un esempio.
Ipotizziamo che il Governo Italiano decida di incrementare la spesa pubblica di 1.000 milioni di euro. Questa decisione determinerà un incremento di pari importo, 1.000 milioni di euro, nel reddito complessivo degli Italiani. Il denaro può essere speso dallo Stato in stipendi pubblici, pensioni, sussidi, incentivi o essere trasferito a imprese per la realizzazione di opere pubbliche, l’effetto della decisione di incrementare la spesa pubblica non cambia: chiunque sia il beneficiario della spesa dello Stato, avrà a disposizione un ammontare di denaro che prima non aveva. Di questo incremento del proprio reddito, ciascun operatore economico deciderà cosa fare, cioè quanto spendere e quanto risparmiare.
Ipotizziamo che la propensione a risparmiare dell’Italia sia, mediamente, del 20% – una volta lo era per davvero!!! – ciò significa si tenderà a risparmiare il 20% e spendere l’80% dell’incremento di spesa pubblica che si è trasformata in nuovo reddito nazionale: di quegli iniziali 1.000 milioni di euro, 800 milioni si trasformeranno in consumi che non ci sarebbero stati senza l’incremento della spesa dello Stato.
Ma gli effetti dell’incremento della spesa statale non finiscono qui.
Gli 800 milioni di euro immessi nel sistema economico attraverso i consumi generano un nuovo incremento del reddito complessivo degli Italiani: chiunque riceverà quei soldi, deciderà cosa farne, cioè quanto spendere e quanto risparmiare. Sappiamo che ne spenderà l’80%, cioè 800×0,8 = 640 milioni di euro che andranno ad incrementare nuovamente il reddito degli Italiani. Immediatamente avremo 640 x 0,8 = 512 milioni di euro di nuovi consumi che si trasformerà ancora una volta per l’80% in ulteriori consumi. E così via.
Per Keynes l’incremento della spesa pubblica di 1.000 milioni di euro genera nell’economia di un paese un effetto a cascata regolato da un moltiplicatore. Per apprezzare gli effetti del “moltiplicatore Keynesiano” in presenza di diversi livelli di propensione al consumo si osservi la tabella:
 
Passando da una propensione al consumo del 70% ad una del 90%, gli effetti sulla crescita economica, espressa in variazione del reddito nazionale, di un incremento della spesa pubblica pari a 1.000 milioni di euro, passa da 3.333 a 10.000 milioni di euro. La propensione al consumo è, quindi, una variabile fondamentale nel sistema Keynesiano: più si spende, più si consuma, più si cresce. Nel modello di Keynes, come in tutte le teorie economiche basate sul paradigma della crescita, il risparmio non è una virtù.
 
Il moltiplicatore Keynesiano è stato una vera e propria manna dal cielo per quanti sono ancora oggi convinti che il benessere delle persone sia indissolubilmente legato alla crescita economica, cioè al continuo aumento di produzione e consumi. Gli incrementi nella crescita economica generati da un intervento statale sono nettamente superiori a quelli della spesa pubblica. E se le persone hanno una elevata propensione al consumo, la crescita economica può riprendere il suo andamento esponenziale: produzione e consumi possono raddoppiare in tempi sempre più brevi.
Il meccanismo più consumi, più crescita diventa inarrestabile.
È fatta. Keynes ha salvato l’economia della crescita, che rischiava di essere travolta dalla grande depressione, mentre ad aumentare sempre di più la propensione al consumo ci penserà il marketing, moltiplicando la necessità di acquistare merci, seppur scaraventandoci in uno stato di insoddisfazione permanente[3].
 
Alle origini del debito.
Per Keynes il pareggio di bilancio nei conti dello Stato non era un problema. Secondo la teoria keynesiana l’incremento della spesa pubblica si sarebbe trasformato in salari e i salari si sarebbero trasformati in consumi. La ripresa della produzione e dei consumi avrebbe generato un gettito fiscale capace di far recuperare allo Stato l’incremento di spesa pubblica. Il sistema economico sarebbe così tornato in una fase di equilibrio che avrebbe consentito una ulteriore fase espansiva.
Gli effetti del moltiplicatore della spesa pubblica sulla crescita economica, spiegavano bene come ciò fosse possibile: in presenza di una buona propensione al consumo, ogni dollaro speso dallo Stato ne avrebbe generati 5. Abbastanza per coprire anche un indebitamento dello Stato.
La ricetta keynesiana per affrontare le fasi negative dei cicli economici ha affascinato per decenni schiere di politici e sindacalisti critici verso il libero mercato, ma non verso l’idea di una crescita economica incessante. Una fascinazione che arriva fino ai giorni nostri e che nel tempo si è trasformata in un vera e propria droga delle moderne economie occidentali.
Nella teoria di Keynes lo Stato è una forza esogena da utilizzare per sostenere la crescita in tempi di crisi. Ma in economie di mercato perennemente in crisi poiché producono costantemente una quantità di merci superiore a quella che le persone possono concretamente consumare,[4] il sostegno statale all’economia attraverso un costante incremento della spesa pubblica diventa parte del sistema e il debito pubblico aumenta costantemente fino ad uscire dal controllo dei decisori politici.
Questa forma di doping del sistema economico è stata praticata per decenni da politici di destra e sinistra votati alla superideologia della crescita. Quando il mercato dell’auto è giunto alla saturazione e non è stato più capace di crescere, un Governo con un ministro “verde” ha introdotto gli incentivi alla rottamazione[5]. Quando il mercato dell’edilizia aveva già cementificato gran parte del territorio italiano, producendo allo stesso tempo case vuote e prezzi altissimi, i comuni hanno finanziato l’edilizia “convenzionata” per garantire il diritto alla casa a famiglie a basso reddito in città sovrappopolate.
L’uso sistematico della spesa pubblica come strumento per far fronte a ripetuti fallimenti dei meccanismi di mercato e come sostegno ad una crescita economica forzata rende irraggiungibile il pareggio di bilancio e i sacrifici richiesti periodicamente ai cittadini si rivelano ben presto inutili.
Inoltre, poiché la spesa pubblica è diventata una parte rilevante del PIL, le manovre restrittive preoccupano in modo particolare i sostenitori della crescita: partiti di destra, centro e sinistra, aziende, sindacati, giornalisti e opinionisti sono tutti d’accordo sul fatto che i tagli alla spesa pubblica rallenteranno la crescita economica. Ma, d’altra parte, se non si tagliano le spese dello Stato occorre aumentare la pressione fiscale che deprime da un lato i consumi e dall’altro gli investimenti. In una parola, deprime la crescita. Un circolo vizioso dal quale non si esce.
 
L’autarchia: l’altra risposta ad una crisi di crescita.
Ma la teoria keynesiana non fu l’unica risposta alla crisi del ’29. Negli stessi anni in cui l’economista britannico rispondeva al fallimento del libero mercato e alla crisi di sovrapproduzione cercando una soluzione esogena per rilanciare i consumi e sostenere la crescita, l’Italia, costretta dalle sanzioni internazionali e in un clima politico fortemente ostile al liberismo, applicava una politica economica di segno diametralmente opposto a quella keynesiana. Nel nostro paese erano gli anni dell’autarchia e mentre sull’altra sponda dell’oceano le parole d’ordine del New Deal erano sostegno della domanda, rilancio dei consumi, riattivazione della capacità produttiva delle imprese sottoutilizzata a causa della crisi, piena occupazione, gli imperativi del regime fascista erano lotta agli sprechi, razionalizzazione dei consumi, riciclo totale degli scarti delle famiglie e delle imprese, efficienza energetica, riduzione del consumo di fonti fossili come il carbone, sovranità alimentare, utilizzo di materie prime e fonti energetiche rinnovabili, ricorso a fibre naturali, mobilità elettrica, autosufficienza energetica.
In realtà l’autarchia, contrariamente a quanto si crede, non fu solo una esperienza italiana dettata da “inique sanzioni”, anche se le misure sanzionatorie adottate dalla Società delle Nazioni costrinsero senza dubbio l’Italia ad imboccare con maggior determinazione quella strada.
Il clima determinato dalla grande depressione favorì una ripresa generalizzata del protezionismo e le economie degli stati industrializzati dell’epoca cominciarono a chiudersi su se stesse: negli Stati Uniti si approva nel 1930 la tariffa protezionistica Smooth-Hawley e il Buy American act del 1933 ha lo scopo di favorire i consumi di prodotti nazionali; in Francia tra il 1929 e il 1933 si adotta una politica di contingentamenti delle importazioni; nella Germania nazista il piano Schacht del 1934 vara una politica commerciale basata sul principio di “acquistare per quanto possibile merci soltanto da paesi che comperano merci germaniche”. In Italia, fra il 1929 e il 1933, il volume delle esportazioni diminuisce del 25% e quello delle importazioni del 29%.
Tuttavia la particolare situazione italiana permise di coniugare il ridimensionamento degli scambi commerciali internazionali con esigenze che oggi definiremmo ecologiche, in una applicazione dell’autarchia su grande scala e con importanti ricadute sul modello economico e sociale.
L’Italia, allora come oggi, doveva fare i conti con la pressoché totale assenza di fonti fossili e minerarie sul proprio territorio. Doveva, per questo, imboccare un sentiero completamente diverso da quello intrapreso un secolo prima dalla rivoluzione industriale: senza il serbatoio, a quei tempi considerato inesauribile, delle energie fossili non si poteva sostenere una crescita indefinita di produzione e consumi. Per questo il primo obiettivo era quello della razionalizzazione dei consumi di materie prime ed energia.
Il Fascismo non fu certo un movimento nato per contrastare il paradigma della crescita economica. Al contrario, fu molto impegnato nella modernizzazione di una nazione che era rimasta indietro in quel processo di industrializzazione che dagli inizi dell’800 aveva investito l’Europa e gli Stati Uniti. Sono in molti a ritenere che attraverso opere infrastrutturali, iniziative legislative ed interventi economici il Fascismo pose le basi per la futura crescita economica dell’Italia negli anni del dopoguerra. Basti pensare alle opere di urbanizzazione e di realizzazione di infrastrutture cui il Fascismo si dedicò con grande impegno coinvolgendo i migliori architetti e ingegneri del tempo. A Roma creò interi quartieri e sventrò l’area archeologica dei fori imperiali per fare spazio alla via dell’Impero. A Milano, dopo 50 anni dalla sua ideazione, realizzò in tempi rapidissimi il progetto di copertura dei navigli. In entrambi i casi le grandi opere pubbliche fecero spazio alla circolazione automobilistica. Littoria, l’attuale Latina, insieme a Pontinia, Pomezia, Aprilia, Sabaudia furono città realizzate dal nulla in tempi tanto rapidi da sbalordire il mondo intero. Antonio Pennacchi racconta di come il Duce si recasse ogni settimana in visita ai cantieri di Littoria in compagnia di un ambasciatore di un paese diverso[6].
Lo stile razionalista della moderna architettura fascista, adottato come vero e proprio linguaggio di propaganda del regime, rese ancora più visibile il profondo cambiamento cui si stava preparando l’Italia e diventò un manifesto permanente a favore della modernità. Prima dell’intervento modernizzatore fascista Milano era una piccola Venezia piena di canali e nelle vicinanze del Duomo c’era una darsena che servì per l’attracco delle chiatte che portavano i materiali di costruzione per la cattedrale. Ancora oggi in quella zona c’è una strada che si chiama “via laghetto”.
Ma la modernizzazione fascista non fu solo fatta di pietra squadrata e di strade larghe. L’introduzione della previdenza sociale pose l’Italia all’avanguardia nelle politiche del lavoro necessarie a tutte le nazioni che si avviavano definitivamente ad essere basate sempre di più sul lavoro in fabbrica e sempre meno in quello nei campi. Nel periodo 1936-41 vennero creati, in media, 228.000 posti di lavoro industriali ogni anno, un andamento simile a quello del decennio 1951-1961. Nel 1941 l’occupazione nel settore industriale aveva raggiunto una punta di 3,77 milioni di occupati, con un incremento di oltre il 43% sul dato del 1936, per poi subire una contrazione durante la guerra. A ricostruzione conclusa, l’occupazione industriale avrebbe confermato, con i 3,4 milioni di occupati del 1951, la tendenza di lungo termine.
La stessa retorica di regime sul lavoro alla catena di montaggio o in officina era tesa a costruire una cultura industriale e produttivista nella società italiana. Ed era la stessa identica retorica del regime sovietico. È impressionante la somiglianza tra i manifesti fascisti e comunisti dell’epoca che rappresentavano operai muscolosi in pose plastiche alle prese con incudini e grossi martelli.
Non è un caso che il futurismo si sviluppò in Italia e in Russia: due nazioni rimaste indietro nella modernizzazione industriale. In entrambe le nazioni, esso ha svolto il preciso compito di valorizzare progresso e modernità in ambito artistico e culturale. L’elogio della macchina, della tecnica e della velocità unitamente alla denigrazione di tutto ciò che fosse passato e “passatista” avevano l’obiettivo di far uscire dal loro alveo secolare economie fondamentalmente agricole per avviarle ad entrare nel novero delle nazioni più industrializzate del mondo.
Ma nonostante tutti questi sforzi, gli effetti sui livelli di produzione e consumo non furono entusiasmanti. L’opera di modernizzazione del fascismo non si tradusse nella crescita economica che ci sarebbe aspettata da uno sforzo così imponente.
Analizzando le serie storiche del prodotto interno lordo degli anni tra il 1930 e il 1943 si osserva una crescita dell’economia italiana modesta, soprattutto se confrontata con gli effetti su produzione e consumi del New Deal di stampo keynesiano realizzato negli Stati Uniti nello stesso periodo. Contrariamente a quanto accadde in un’Italia autarchica mobilitata in una crociata contro gli sprechi senza precedenti, le politiche di sostegno alla domanda di merci attuate nell’America di Roosevelt su suggerimento di Keynes fanno compiere al prodotto interno lordo un grande balzo in avanti. A frenare l’Italia nel cammino della crescita fu, dunque, senza dubbio l’autarchia, che influenzò in maniera consistentemente negativa gli esiti del processo di industrializzazione, almeno per quanto riguarda l’incremento di produzione e consumi.
 
La tecnologia al servizio della riduzione dei consumi.
Per la tecnologia, invece, il periodo dell’autarchia è un vero e proprio giacimento culturale dal quale attingere idee e visioni oggi più che mai attuali.
L’esperienza dell’autarchia italiana ci offre sia una serie di innovazioni ancora oggi di straordinaria attualità per l’eliminazione degli sprechi e lo sfruttamento del fabbisogno residuo mediante energie e materie prime rinnovabili, sia una diversa concezione della tecnologia non più finalizzata alla continua crescita economica.
Il merito dell’esperienza autarchica è forse quello di aver liberato la tecnologia dalla catena che la tiene legata all’obiettivo della crescita dell’output produttivo e dei profitti. Oggi come all’inizio della rivoluzione industriale, la tecnologia in ambito economico ha due obiettivi: l’innovazione di processo e l’innovazione di prodotto. Entrambi gli obiettivi vengono perseguiti senza tenere conto dei limiti ecologici alla crescita economica, cioè della scarsità di risorse non rinnovabili e della limitata capacità degli ecosistemi di assorbire gli scarti dei processi di produzione e consumo. Le innovazioni di processo sono finalizzate al mero incremento della capacità produttiva, cioè della quantità di merci prodotte per unità di tempo. Le innovazioni di prodotto sono strettamente legate alla funzione di marketing e finalizzate ad introdurre sul mercato prodotti sempre nuovi in modo da rendere forzatamente obsoleti quelli esistenti.
Ma se si introduce il vincolo posto dalla scarsità di risorse disponibili, l’obiettivo della tecnologia cambia e diventa quello di utilizzare al meglio ciò di cui si dispone, mettendo al primo posto la riduzione dei consumi di materia e energia e subito dopo la copertura del fabbisogno energetico mediante fonti reperibili sul territorio nazionale. Che in Italia non possono che essere rinnovabili e pulite.
È così che negli anni dell’autarchia il sapere tecnico-scientifico viene organizzato in enti di ricerca che interpretano la lotta agli sprechi come una vera e propria crociata da intraprendere nell’interesse della Nazione. Tra gli organismi più attivi ci fu l’ENIOS, Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro che produsse una grande quantità di studi per l’uso razionale dell’energia, il riuso e il riciclaggio.
L’avversione fascista per il liberismo in economia offre una ulteriore spinta in questa direzione: il sapere tecnico scientifico doveva essere messo non al servizio della singola impresa in un’ottica di mercato, ma al servizio di obiettivi autarchici nazionali. Se l’obiettivo prioritario era quello di ridurre le importazioni di carbone, i tecnici dovevano impegnarsi a rendere più efficienti sia le locomotive che i forni industriali. La riduzione dei costi di produzione, che pure viene ottenuta per mezzo di tecnologie autarchiche, è un effetto secondario. L’effetto macroeconomico più importante è la riduzione del consumo complessivo di fonti fossili e inquinanti.
 
Gli anni dell’autarchia sono stati liquidati forse troppo sbrigativamente come quelli in cui il caffè aveva il sapore della cicoria. Erano, invece, anni in cui si assisteva ad una grande vivacità tecnologica.
Pochi sanno che in quegli anni ci fu un grande interesse per l’energia solare e che molte delle tecnologie che oggi vengono proposte per migliorare l’efficienza delle macchine o per sfruttare fonti rinnovabili di energia, come il ciclo combinato, la micro-cogenerazione o la produzione di metano da scarti organici, vennero ideate e sperimentate in Italia nel periodo dell’autarchia. Tra le numerose invenzioni dell’epoca troviamo un “motore solare” per far funzionare pompe in ambito agricolo, la prima lampadina con trasformatore incorporato che consumava 2-3 watt al posto dei 40 watt di una normale lampadina dell’epoca e il “silex”, un materiale isolante per forni industriali capace di ridurre i consumi del 20%. Sempre in quegli anni si cominciò a parlare di corretto orientamento degli edifici per sfruttare al massimo gli apporti solari e si misero a punto i primi collettori in grado di produrre acqua calda da utilizzare per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria.
Nel campo tessile ci fu ampio ricorso alle fibre naturali e vennero inventate nuove fibre come il Lanital, sostitutivo della lana ottenuto dalla caseina del latte, e la Cisalfa, costituita da sostanze cellulosiche. Dunque, anche le fibre “artificiali” avevano una origine naturale e rinnovabile essendo prodotte con sostanze vegetali o animali presenti sul territorio nazionale.
 
In 10 anni la capacità di generare elettricità da salti d’acqua fu quasi raddoppiata. Le potenzialità idroelettriche furono sfruttate ovunque fosse possibile, anche su piccola scala. Tagliacozzo è un piccolo centro in provincia dell’Aquila ed è stato uno dei primi paesi della Marsica ad avere l’illuminazione pubblica. L’elettricità necessaria era fornita da una piccola centrale elettrica alimentata dal fiume Imele. Negli anni del Fascismo il salto fu raddoppiato e la centrale cominciò a fornire elettricità anche alle case. Quando ci si rese conto che l’Italia aveva un elevato potenziale di produzione idroelettrica, addirittura superiore ai consumi dell’epoca, si cominciò a puntare sulla mobilità elettrica per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili importate dall’estero. Nelle città furono realizzate linee per i filobus. In Valtellina fu addirittura realizzata una camionabile elettrica utilizzata dai veicoli adibiti al trasporto dei materiali necessari per la realizzazione di una diga a San Giacomo in Valtellina. Venne realizzata una linea filoviaria di circa 80 km da Tirano a sopra Bormio percorsa da 16 camion elettrici a 3 assi, 4 a due assi e due filobus per il trasporto del personale. Ma lo sforzo di elettrificazione maggiore fu compiuto in ambito ferroviario. Nel 1923 in Italia c’erano 700 km di rete ferroviaria elettrificata, nel 1940 erano diventati 5.174: quella italiana veniva propagandata come la rete più estesa al mondo. I treni sempre di più venivano alimentati dall’energia prodotta dai bacini idroelettrici e la riduzione dei consumi di carbone era enorme[7]. Il quadro della mobilità sostenibile si completava con una decisa promozione della bicicletta in ambito urbano[8].
 
Il riciclaggio fu un ulteriore obiettivo autarchico. Nel 1938 a Milano era in vigore una raccolta differenziata dei rifiuti molto spinta e domiciliare molto simile all’odierno sistema “porta a porta”. Nel capoluogo lombardo si riciclava il 100% dei rifiuti urbani. Lascia sconcertati la visione di un filmato dell’Istituto Luce recentemente messo in onda dalla trasmissione “Report”, dal titolo inequivocabile: “Nulla si distrugge”[9]. Nel videocomunicato si percorre tutto il ciclo di gestione dei rifiuti urbani a Milano nel 1938: dalla raccolta domiciliare alla selezione prima meccanica e poi manuale dei vari materiali riciclabili, fino all’ottenimento di prodotti riciclati come la carta. Negli stessi anni l’incenerimento dei rifiuti venne giudicato dagli ingegneri autarchici come una pratica inefficiente in quanto distrugge risorse preziose che possono essere recuperate e riciclate. E venne scartata dalle opzioni possibili.
 
Alla luce di queste esperienze, occorre mettere in discussione un luogo comune che per molto tempo ci ha accompagnato. L’autarchia, non è da considerarsi uno scenario di regresso tecnologico e scientifico. Al contrario, ha bisogno di uno sforzo di creatività e innovazione nettamente superiore a quello richiesto dal perpetuare in modo pigro e acritico il modello insostenibile della crescita economica.
 
Sovranità alimentare.
Negli anni dell’autarchia l’obiettivo della sovranità alimentare assunse le forme retoriche e propagandistiche della battaglia del grano, ma fu efficace nella drastica riduzione delle importazioni. In pochissimo tempo l’Italia ridusse le importazioni dall’80 al 10%. L’obiettivo di soddisfare il fabbisogno interno di grano con la sola produzione nazionale richiese un intervento risoluto dello Stato che, dopo aver espropriato le terre dei latifondisti e recuperato nuove superfici agricole con opere di bonifica, con la costituzione dei Consorzi agrari mise l’agricoltura al riparo dalle speculazioni dei grandi distributori privati. I Consorzi agrari, attraverso la gestione degli ammassi, garantivano specialmente ai piccoli agricoltori, una maggiore forza contrattuale nei rapporti con i trasformatori e i distributori: la struttura dei Consorzi, rappresentava allo stesso tempo lo Stato e la comunità degli agricoltori nel suo complesso e garantiva una posizione di preminenza dei produttori svolgendo un ruolo di deterrente nei confronti di intermediari e speculatori. I Consorzi svolsero un ruolo di tutela dei piccoli produttori anche nei confronti di eventuali speculazioni del sistema bancario, offrendo credito agrario senza interessi per gli acquisti di sementi, concimi, macchine agricole, antiparassitari, bestiame e tutto ciò che era necessario all’attività agricola. Infine, le aziende agrarie di proprietà comunale offrivano supporti infrastrutturali e tecnici come magazzini, officine per i trattori, macchine agricole, i cui costi non potevano essere sostenuti dal piccolo produttore.
La politica agricola del Fascismo, tesa all’obiettivo della sovranità alimentare, produsse per la prima e forse ultima volta in Italia una inversione dei flussi migratori, non più da Sud a Nord, ma al contrario, da Nord a Sud e deviò parte dei flussi che dalle campagne andavano verso le città, verso altre campagne. Nell’Agro Pontino giunsero famiglie principalmente dal Veneto, ma anche dal Friuli, dall’Emilia e dall’Umbria.
L’autarchia costrinse il Fascismo ad esaltare l’uomo rurale, tradizionale e anti-moderno producendo al suo interno una contraddizione profonda ed insanabile: da un lato il Fascismo fu fautore di una profonda modernizzazione dell’Italia che porterà l’occupazione agricola ad essere surclassata da quella industriale negli anni ’50, dall’altro, dopo aver inglobato il futurismo, fa del ruralismo un suo nuovo tratto essenziale e propagandistico:
 
“Il settimo principio vuole infine che contro il parossismo meccanicistico e urbanistico, flagello e aberrazione d’origine americana, germanica o britannica (elementi dell’arte antifascista) l’arte fascista s’ispiri alla semplice e vergine natura, torni all’amore della campagna e di tutto quanto sa di etnicamente nativo, spontaneo, grave, e che è nostro fondamentalmente; poiché sempre l’Italia ha avuto il suo fondamento civile nell’attaccamento dei suoi figli ai beni ed alla realtà patriarcale del suolo, e sempre l’avrà”.[10]
 
Guardando oggi all’obiettivo della sovranità alimentare perseguito dall’autarchia negli anni trenta, non si può non pensare alle recenti proteste dei pastori sardi e in generale a tutti quegli agricoltori, soprattutto piccoli, che devono sottostare quotidianamente alle condizioni inique imposte dalla logica della grande distribuzione e della globalizzazione dell’economia. L’autarchia, vissuta come scelta consapevole delle Comunità locali e non come imposizione di regime, può essere oggi una concreta alternativa ad una globalizzazione che produce sempre più danni economici, ambientali e sociali e una strada possibile per ricollocare i processi economici sul territorio.
 
La lotta agli sprechi.
Mentre il Duce si esibiva a torso nudo sul trattore, a scuola veniva introdotta l’economia domestica per insegnare la lotta agli sprechi “alle massaie di domani”. Alla scuola venne attribuito un ruolo strategico nell’educazione all’autarchia. Fu redatto un testo apposito rivolto agli insegnanti. La consegna era chiara:
l’autarchia doveva essere considerata come un principio morale destinato a incidere sul costume degli Italiani[11]. Gli insegnanti cominciarono a frequentare corsi in cui apprendevano nozioni di “manutenzione della casa” o “regole generali in cucina” per insegnare a pulire e cucinare in economia. Per le operazioni di pulizia si raccomandavano sostanze come segatura impastata ad acqua per pulire le mattonelle o carta di giornale per pulire i vetri, per pulire fiaschi e bottiglie di vino si consigliava di scuotere energicamente dopo aver introdotto nei recipienti patate tagliate in cubetti piccoli e gusci d’uovo secchi; latte e acqua in parti uguali venivano indicati per la pulizia di tele cerate e per far brillare nuovamente bicchieri diventati opachi si consigliava di pulirli con l’aceto.
Allo stesso modo, si davano consigli per evitare che i cibi perdessero parte delle loro proprietà nutritive nelle fasi di preparazione e cottura: le patate andavano lavate prima di essere sbucciate e non dopo, il riso andava setacciato e non lavato. Altri consigli in una società come quella attuale che spreca una quantità di cibo pari al 3% del PIL dovrebbero far riflettere: si consigliava di usare le acque di verdure non amare per preparare minestre, di rinfrescare il pane raffermo riscaldandolo a bagno-maria, di tritare e scottare le foglie verdi esterne di broccoli e radicchio per fare ripieni di sformati.
Una raccolta di appunti di una insegnante dell’epoca costituisce un vero e proprio manuale di ecologia domestica soprendentemente attuale e del tutto simile a quelli che negli anni più recenti hanno cominciato ad affollare gli scaffali delle librerie[12]. Oltre alla scuola, furono mobilitati anche i Dopolavoro che attivarono corsi pratici destinati a operaie e impiegate. I corsi trattavano abbigliamento, cucina, orto, bilancio domestico. In un mese furono attivati 350 corsi che coinvolsero 20.000 allieve[13].
 
Dunque, sotto la coltre polverosa della propaganda di regime, si celano idee estremamente attuali che se rilette oggi si dimostrano ben più capaci di futuro rispetto all’idea keynesiana: invece di sostenere la domanda di merci, darsi un limite, puntare al soddisfacimento dei bisogni e non alla crescita incessante di ricavi e profitti, confrontarsi con le caratteristiche del territorio in cui si vive e ingegnarsi per usare al meglio le risorse naturali che offre, fare economia e non finanza, vivere senza indebitarsi.
Chissà se la prossima volta ci riusciamo senza produrre tragedie e genocidi.
 
Autarchia e decrescita felice.
Ovviamente l’autarchia così come l’abbiamo conosciuta nell’esperienza storica del Fascismo non coincide con uno scenario di decrescita felice, cioè di miglioramento della qualità della vita attraverso una drastica riduzione dei consumi. Nessuna persona di buon senso potrebbe mai proporre di finalizzare lo sforzo autarchico a un potenziamento dell’apparato militare così come fece il Fascismo. E nessuno potrebbe pensare di attuare una dittatura pur di realizzare una nuova rivoluzione ecologica e autarchica. Al contrario, le forme più interessanti di economia della decrescita si stanno diffondendo attraverso scelte libere e consapevoli senza alcuna forma di imposizione dall’alto.
L’autarchia ripulita dalle incrostazioni del ventennio rappresenta tuttavia uno stimolo culturale a guardare il mondo da una prospettiva differente. Una sua riconsiderazione alla luce delle crisi epocali che stiamo vivendo è certamente utile per uscire dai luoghi comuni sulla crescita, sulla decrescita e sulla stessa autarchia.
L’autarchia può essere una componente di uno scenario di decrescita e un concetto utile per giungere ad una nuova idea di tecnologia al servizio della lotta agli sprechi e non al servizio della crescita dei consumi. Allo stesso tempo può aiutarci a mettere a punto nuovi modelli economici che consentano la soddisfazione dei bisogni umani tenendo conto della scarsità delle risorse naturali.
Mai come oggi abbiamo bisogno di un momento di discontinuità, non di aggiustamenti di un modello in crisi. La discontinuità è verso tutte le ideologie del novecento, compreso il Fascismo che attuò l’autarchia, poiché tutte le ideologie del secolo scorso hanno considerato la crescita economica come un obiettivo irrinunciabile e hanno fatto l’errore di considerarlo come un fenomeno replicabile all’infinito. Tutte, senza alcuna esclusione, hanno contribuito ad un processo di industrializzazione e modernizzazione che aveva lo specifico obiettivo di incrementare all’infinito produzione e consumi.
In una prospettiva di decrescita selettiva del PIL, l’autarchia rispetto alle politiche keynesiane rappresenta una risposta più efficace e capace di futuro ad una crisi di crescita. Oggi come nel 1929.
In una prospettiva autarchica tutte le riflessioni keynesiane sulla domanda aggregata e sui meccanismi per moltiplicare gli effetti degli investimenti pubblici sul consumo di merci perdono senso. La priorità non è più quella di sostenere i consumi, ma al contrario, quella di razionalizzarli e contenerli entro limiti di sostenibilità date le risorse disponibili sul territorio nazionale. Se non ci sono abbastanza risorse naturali, materie prime, energia per spingere i consumi oltre il limite naturale della sostenibilità ecologica, è inutile farlo.
 
Keynes autarchico?
In realtà esiste uno scritto in cui Keynes parla neanche velatamente della possibilità di ridurre gli scambi internazionali a vantaggio della produzione nazionale di merci[14]. Si tratta di un articolo scritto nel 1933 quando idee protezionistiche circolavano anche fuori dall’Italia senza produrre troppo scandalo. Tuttavia, si tratta di un episodio nella vasta produzione keynesiana che non cambia l’impianto teorico votato alla crescita economica dell’economista britannico. E soprattutto non cambia il fondamentale contributo che Keynes ha dato al perpetuarsi di una economia basata sul paradigma della crescita. Grazie alle sue teorie, l’economia mondiale ha ripreso il suo inesorabile e insostenibile cammino sul sentiero della crescita esponenziale, uscendo dalla grande depressione.
 


[1]    Sull’argomento, Marino Ruzzenenti, “Autarchia verde”, Jaca Book, Milano 2011, con prefazione di Giorgio Nebbia. 
[2]    Resta da chiedersi quanto totalitaria sia la “superideologia” della crescita economica, soprattutto quando si propone come unico modello perseguibile a livello planetario. Chiamare i paesi del Sud del mondo “paesi in via di sviluppo” non è escludere qualsiasi altra prospettiva?
[3]    A proposito si osservi che “La teoria economica della crescita e, soprattutto, il modello di sviluppo delle moderne economie si fondano sull’esistenza di consumatori e imprese che non hanno alcun limite superiore al perseguimento di una maggiore utilità e maggiori profitti: sul piano teorico ciò corrisponde all’ipotesi di “non sazietà”, ovvero all’esistenza di bisogni illimitati” in Luigi Campiglio, Tredici idee per ragionare di economia, Il Mulino, Bologna 2002, p.55
[4]     Cfr. Stiglitz ….
[5]    Gli incentivi alla rottamazione sono stati introdotti in Italia con la Legge 30 del 27 febbraio 1997. Edo Ronchi della Federazione dei Verdi è stato Ministro dell’Ambiente del Governo Prodi dal 17 maggio 1996 al 25 aprile 2000
[6]    Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, Milano 2010
[7]    Marino Ruzzeneneti, Op. Cit., pp. 187-188
[8]    A proposito si veda il divertente filmato dell’Istituto Luce sull’uso della bicicletta reperibile sul sito www.youtube.it cercando “critical mass autarchia fascismo”
[9]    filmato reperibile sul sito www.youtube.it cercando “Milano 1939: raccolta porta a porta, selezione e riciclo”
[10] Ardengo Soffici, Arte Fascista, 1928. Ardengo Soffici, poeta, scrittore e pittore, si scontrò fisicamente nel 1911 con i futuristi Marinetti, Boccioni e Carrà che, infuriati per un articolo pubblicato su La Voce in cui Soffici stroncò una mostra di opere futuriste tenutasi a Milano, lo raggiunsero a Firenze e lo aggredirono al Caffè delle Giubbe Rosse.
[11] Marino Ruzzenenti, Op. Cit., p.46
[12] Bruna Zanchetta, Come cucinare e pulire in economia – Consigli utili per la cucina e per la casa tratti da un vecchio ricettario autarchico, a cura di Maurizio Merlin è un interessante libretto realizzato a partire dagli appunti di alcune lezioni di economia domestica che il regime teneva alle insegnanti delle scuole elementari per affrontare l’autarchia (reperibile su http://ilmiolibro.kataweb.it/)
[13] Marino Ruzzenenti, Op. Cit., p.47
[14] John Maynard Keynes, La fine del laissez faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 87-100
 
Fonte: www.ilribelle.com