Punto sul vivo, l’accusato nega, ma negando implicitamente ammette la sua colpa. È quanto è accaduto al neo-premier Mario Monti nel suo discorso d’insediamento di ieri in Senato, là dove l’economista trilateralista e bilderberghiano si è difeso dagli attacchi sui suoi comprovati (e da lui non smentiti) legami con le grandi lobby internazionali: contro l’Italia «non ci sono complotti internazionali» né da parte «dei poteri forti». Giura solennemente il nuovo Presidente del Consiglio: «Sull’atteggiamento del governo posso rassicurarvi totalmente».
Ma siccome Monti non è tanto ingenuo da pensare che tutti gli italiani all’ascolto siano facili boccaloni, eccovi servita la zampata, l’argomento che taglierebbe la testa al toro: «Le nostre modeste storie personali parlano in questo senso, quanto a me è capitato di essere commissario europeo a Bruxelles, non sono sicuro che le grandi multinazionali mi abbiano colto come un loro devoto e disciplinato servitore». Lasciando stare che le storie personali di quasi tutti i ministri, dal superministro Passera in giù, raccontano di precisi rapporti con potentati bancari e industriali e giganteschi conflitti d’interesse, il furbacchione pensa di cavarsela facendo leva sulla sua integerrima condotta di falco antitrust a Bruxelles.
Sfatiamo questo mito, per favore. O meglio, diamone l’interpretazione che ne va data. Monti, allora rettore della Bocconi, nel 1994 fu nominato dall’allora capo del governo Berlusconi come commissario italiano in Europa con la delega al mercato interno e all’integrazione fiscale (tra l’altro missione fallita, stando ai risultati). Nel 1999, dopo le dimissione in blocco della Commissione guidata dal francese Jacques Santer, viene confermato da D’Alema in quella successiva, a guida Romano Prodi. Fino al 2004, Monti ricoprirà l’incarico di commissario per la Concorrenza. In questo secondo e ultimo mandato riesce a ottenere l’impensabile: fa multare la potentissima multinazionale del computer Microsoft per la cifra choc di 497 milioni di euro. Motivo: la società californiana violava le norme concorrenziali infilando nel suo sistema operativo per così dire di soppiatto un programma per il file multimediali tagliando fuori le altre aziende. Un abuso di posizione dominante che andava punito, secondo i princìpi del libero mercato.
Ora, facciamo finta di non sapere che non esiste alcun mercato davvero libero, perché in ogni settori vigono regimi oligopolistici d’acciaio (compreso il settore dei software, dove, almeno in Occidente, si fronteggiano due soli competitor, Microsoft e Apple). Il discorso vero gira attorno al ruolo da paladino dei consumatori, cioè della gente comune, che si attribuisce all’economista tutto d’un pezzo. Indubbiamente è stato lui l’artefice di quell’epocale mazzata all’onnipotente Bill Gates. Ma ciò che si contesta a Monti è proprio il suo essere un fanatico del liberismo, che è l’ideologia ufficiale ed esteriore del mondo d’affari che rappresenta. Gli concediamo di essere in perfetta buona fede, quando si schiera per il dogma del mercato senza cartelli. Il fatto è che questa neo-religione serve da strumento ai padroni del vapore per far tabula rasa dei costi sociali e umani dei loro profitti, di regola non pagando dazio agli abusi e alle storture che seminano sul proprio cammino. La multa inferta da Monti ha fatto scalpore perché costituì un’eccezione (e tale è finora rimasta, senza che le nostre vite siano migliorate di un ette per questa sua foga inquisitoria). Ma Monti ci si è dedicato con dedizione in quanto ci crede sul serio, mentre i suoi cari sponsor, no. Per lui il sacro verbo liberista è la Verità, per mega-imprese e finanziarie intercontinentali è solo un mascheramento di comodo, è come andare a messa la domenica peccando a più non posso durante la settimana. Per chi sogna una società basata su valori diversi dall’economicismo del mercato unico dio, Monti incarna il volto più subdolo e pericoloso del pensiero dominante perché è davvero convinto di quel che fa. Un Torquemada dell’economia di mercato. Che Dio ci aiuti.
Fonte: Il Ribelle