Nel dibattito politico sulla crisi dei debiti pubblici che si svolge tra i movimenti al di fuori delle sedi istituzionali si utilizzano due slogan come se fossero equivalenti o intercambiabili: «Non paghiamo il debito» e «Noi il debito non lo paghiamo». In realtà, per quanto verbalmente simili, si tratta di due messaggi del tutto diversi e questa ambiguità genera una confusione su cui è necessario fare chiarezza. Il primo slogan propone che il debito pubblico accumulato negli scorsi decenni e che attualmente (2011) ha raggiunto il 119 per cento del prodotto interno lordo, non venga pagato. Che lo Stato dichiari la sua insolvenza. Il secondo propone che i costi del debito non vengano scaricati sulle classi popolari, ma sui grandi patrimoni, i grandi profitti, i grandi redditi che sono stati alimentati dalla spesa pubblica in deficit: sulle imprese multinazionali che hanno ottenuto commesse di grandi opere dallo Stato e dai suoi apparati periferici, sui manager superstipendiati e super liquidati delle aziende a partecipazione pubblica e delle banche, sulla casta dei politici, sugli speculatori in borsa che hanno ricavato enormi profitti dalle transazioni finanziarie e dalle operazioni allo scoperto sui titoli del debito pubblico, sulle banche che dagli investimenti nei titoli di Stato hanno ottenuto tassi d’interesse crescenti in proporzione alla crescita dei debiti pubblici.
La proposta di non pagare il debito pubblico, o quanto meno di congelarlo senza specificare per quanto tempo e in vista di quali altre decisioni prendere, accompagna questo dibattito come un basso continuo ricevendo di tanto in tanto formulazioni esplicite. Il 22 settembre è stata lanciata la campagna “Congelamento del debito” «per richiedere l’immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale del debito pubblico italiano, con contemporanea creazione di un’autorevole commissione d’inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti». Per promuovere la partecipazione alla manifestazione che si è svolta a Roma il 15 ottobre 2011 in concomitanza con analoghe manifestazioni in un centinaio di città nel mondo, uno dei gruppi partecipanti all’assemblea nazionale preparatoria che si è svolta il 1° ottobre presso il Teatro Ambra Jovinelli di Roma ha diramato in rete un appello, peraltro non firmato, in cui si legge che la politica e la finanza (chissà come mai non venga preso in considerazione il sistema economico e produttivo) «ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita». E subito dopo se ne deduce: «Non è vero che siano scelte obbligate».
In realtà la piattaforma politica dell’assemblea autoconvocata a Roma il 1° ottobre era sintetizzata nello slogan “Noi il debito non lo paghiamo. Dobbiamo fermarli”. La prima frase non sostiene che il debito non vada pagato, ma che non deve essere pagato dalle categorie sociali che quell’assemblea contava di rappresentare. Ovvero tutti coloro che sono al di fuori del sistema di potere economico, politico e finanziario. La seconda frase sostiene che occorre fermare quel blocco di potere perché intende far pagare i costi del debito pubblico proprio alle categorie sociali che non ne fanno parte e che ne stanno già subendo le conseguenze in termini di riduzione dell’occupazione, di precarizzazione, di riduzione dei servizi sociali, di diminuzione del reddito. Tuttavia l’impostazione politica indicata dal titolo, in una frase del testo viene confusa col rifiuto di pagare il debito, – per tenere insieme surrettiziamente tutte le anime del movimento? – ma subito dopo, con una capriola logica che nega quanto si è appena affermato, viene ribadita senza ambiguità: «Non pagare il debito, far pagare i ricchi e gli evasori fiscali, nazionalizzare le banche». Subito dopo aver detto che il debito non si deve pagare, si sostiene che qualcuno lo deve pagare. Non sarebbe stato meglio dire senza ambiguità che il debito deve essere pagato da chi ci ha speculato sopra, da chi ci si è arricchito più di quanto già lo era?
Al di là dei patetici tentativi di tenere insieme due proposte contraddittorie, c’è un elemento teorico che le accomuna: un’interpretazione della crisi e delle sue cause quanto meno semplicistica. Si parla infatti «di una crisi provocata e gestita dai ricchi e dal grande capitale finanziario». Ma si tratta davve-ro di una crisi prevalentemente finanziaria, che quindi può essere risolta a livello finanziario? Non è piuttosto la crisi di un modello economico e produttivo fondato sulla crescita della produzione di merci? Per quale motivo i paesi industrializzati hanno accumulato colossali debiti pubblici, a cui occorre aggiungere i debiti delle famiglie e delle imprese, se non al fine di accrescere sistematicamente la domanda per assorbire le quantità crescenti di merci immesse sui mercati in conseguenza di uno sviluppo tecnologico finalizzato ad accrescere la produttività? La crescita della produzione di merci non è anche la causa della crisi energetica e della crisi ecologica, che rendono a loro volta particolarmente gravi la crisi economica e la crisi occupazionale? Solo se manca la consapevolezza che le cause dei debiti pubblici sono economiche e produttive, solo se manca la consapevolezza che la crescita della domanda innescata dalla crescita dei debiti pubblici è un fattore determinante del consumo crescente di risorse, delle guerre per accaparrarsi il controllo delle risorse non rinnovabili, del superamento della capacità di rigenerazione annua delle risorse rinnovabili, delle emissioni climalteranti e della crescita dei rifiuti, si può sostenere, come viene fatto dai sostenitori del non pagamento del debito pubblico, che il pareggio del bilancio non è un dogma e che le risorse ci sono. Se si vuole attenuare la crisi energetica e la crisi ambientale, se si vuole una più equa redistribuzione delle risorse tra i popoli, se si ha un senso di responsabilità verso le generazioni future, i debiti pubblici devono essere ridotti, gli Stati e i privati non devono spendere più dei propri mezzi, i bilanci devono essere in pareggio. Il problema politico è: chi deve pagare i costi della riduzione dei debiti pubblici? Tagliando quali voci di spesa si deve raggiungere il pareggio di bilancio? Il sistema di potere dominante sta facendo di tutto perché i debiti pubblici vengano pagati dalle classi popolari e non dalle classi che li hanno causati e ne hanno beneficiato. Le misure che si stanno approntando rientrano nella logica di una vera e propria lotta di classe da parte dei ricchi contro i poveri: riduzione delle spese per la sanità e aumento dei ticket sanitari, riduzione delle spese per l’istruzione e de-qualificazione progressiva della scuola pubblica, aumento delle tasse indirette sui consumi essenziali, precarizzazione del lavoro, riduzione della spesa pensionistica, aumento della durata della vita lavorativa.
La decisione di non pagare i debiti pubblici sarebbe il momento culminante di questa lotta di classe. Al debito pubblico gli Stati hanno fatto un ricorso sempre maggiore (negli Stati Uniti rappresenta il 38 per cento delle entrate) per consentire alle grandi aziende di vendere tutto ciò che producono e altrimenti non riuscirebbero a vendere (per esempio i contributi pubblici per la rottamazione delle automobili), o di realizzare grandi opere pagate dal denaro pubblico, facendo lavorare macchinari sempre più potenti e costosi che altrimenti resterebbero fermi (per esempio il Tav, le autostrade, le strutture olimpiche). Per pagare questi costi gli Stati si sono fatti prestare i soldi dai risparmiatori e li hanno dati alle grandi imprese. Se si decide di non pagare più il debito, chi ha avuto ha avuto (le grandi imprese), chi ha dato ha dato (i risparmiatori) e non gli viene restituito ciò che ha dato. Ma chi sostiene queste proposte ha una vaga idea delle loro conseguenze? Il debito deve essere pagato e lo devono pagare le classi sociali che ci si sono arricchite. Questo va detto senza ambiguità, senza rifugiarsi dietro le frasi vuote che si leggono nel documento di quel gruppo locale che ha promosso la partecipazione alla manifestazione del 15 ottobre: «Si deve uscire dalla crisi con il cambiamento e l’innovazione» (le stesse parole vuote sostenute in un convegno dei giovani industriali che si è svolto qualche giorno dopo). O affermazioni del tipo: «Le risorse ci sono». Se per risorse s’intendono quelle della Terra, è ormai appurato che non bastano più per continuare a consumarne come si è fatto negli ultimi cento anni. Se invece s’intendono le risorse finanziarie e si porta come esempio quanto si può recuperare dal taglio delle spese militari (che va fatto per ragioni etiche su cui non occorre spendere parole) non si ha idea di cosa si sta parlando: il bilancio del Ministero della difesa italiano nel 2010 è stato di 27 miliardi di euro, il costo dei 131 cacciabombardieri F 35 ammonterà nei prossimi anni a 17 miliardi di euro, il debito pubblico italiano viaggia verso i 2.000 miliardi di euro, gli interessi annui sul debito ammontano a 100 miliardi di euro. Il taglio delle spese militari è adeguato in relazione all’entità delle attuali manovre finanziarie, ma del tutto insufficiente per ridurre significativamente il debito pubblico. A tal fine occorre far pagare con una tassazione mirata chi ha lucrato su questo debito, occorre tagliare i costi della politica, occorre bloccare le grandi opere. Tutto ciò può dare una boccata d’ossigeno e, comunque, costituisce un’inversione di tendenza. Ma non servirebbe se contestualmente non si eliminassero le cause che hanno portato alla formazione di debiti così rilevanti e cioè la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci. Solo una politica economica e industriale finalizzata alla riduzione dei consumi inutili e degli sprechi, solo la crescita dell’efficienza energetica, solo lo sviluppo delle fonti rinnovabili, solo il recupero dei materiali contenuti negli oggetti dismessi, solo il blocco della cementificazione, solo la ristrutturazione del patrimonio edilizio esistente, solo il potenziamento dei trasporti pubblici e forti limitazioni all’uso dei mezzi privati, possono consentire alle economie dei paesi industrializzati di uscire dalla spirale dei debiti che li sta strozzando.
Concentrare l’attenzione sulle speculazioni finanziarie con cui si sono ulteriormente arricchiti i ricchi è necessario ma sarebbe fuorviante se non si mettessero in evidenza le connessioni che le legano a questa causa strutturale. La crisi è stata sì gestita dal grande capitale finanziario, ma è stata provocata dal modello economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione di merci. Il pagamento del debito deve ricadere sulle spalle di chi l’ha gestito speculandosi sopra, mediante una tassazione sui grandi capitali e i grandi profitti. Il debito va pagato da loro. Contestualmente occorre avviare una politica economica e industriale non più finalizzata ad accrescere la produttività, ma a ridurre il consumo di risorse, il consumo di energia e le quantità dei rifiuti perché, oltre ad attenuare le crisi ecologica ed energetica, gli investimenti nelle tecnologie che riducono l’impatto ambientale si ripagano con i risparmi sui costi di gestione che consentono di ottenere. Solo in questo modo si può creare un’occupazione qualificata in attività utili senza accrescere i debiti pubblici per sostenere la domanda.
A titolo esemplificativo e non esaustivo si presentano prima una serie di misure finalizzate a ridurre il debito pubblico facendolo pagare a chi ne ha tratto vantaggi economici, poi una serie di misure finalizzate a rimettere in moto l’economia senza rimettere in moto la spirale del debito.
Misure immediate per ridurre i debiti pubblici facendone pagare i costi a chi ne ha tratto vantaggi:
– una tantum sui grandi patrimoni;
– accentuazione della progressività del prelievo fiscale;
– taglio delle spese per grandi opere;
– taglio delle spese militari;
– taglio delle spese per la politica;
– fissazione di un tetto massimo alle pensioni d’oro;
– tassazione delle rendite finanziarie (tobin tax) per orientare risparmi e investimenti verso l’economia reale;
– incremento della tassazione su prodotti energivori e inquinanti (SUV) e di lusso (imbarcazioni da di-porto, gioielleria);
– eventuale congelamento del pagamento del debito solo per il limitato numero di anni necessario a evitare l’emissione di nuovi titoli di debito pubblico per pagare gli interessi sul debito già contratto.
Misure finalizzate a rimettere in moto l’economia senza rimettere in moto la spirale del debito:
– confisca dei beni dei corrotti e loro assegnazione per usi sociali;
– promozione dei settori economici che applicano tecnologie per la riduzione dei consumi di materie prime ed energia (misura valutata attraverso l’effetto macroeconomico della riduzione di consumo e importazione di fonti fossili);
– promozione della sovranità alimentare con interventi a favore dei piccoli produttori e delle filiere corte (misura valutata attraverso l’effetto macroeconomico della riduzione delle importazioni di generi alimentari);
– misure di politica economica finalizzate a valorizzare la piccola scala e ricollocare i processi economici sul territorio (misura valutata attraverso l’effetto macroeconomico della creazione di nuova occupazione nell’artigianato, nelle piccole e medie aziende, nell’agricoltura);
– riduzione dell’orario di lavoro a fronte di incrementi della produttività;
– spostamento delle spese sanitarie in funzione della prevenzione e della promozione di un reale benessere psichico-fisico-sociale; razionalizzazione delle spese sanitarie secondo i principi dell’appropriatezza clinica, eliminando sprechi ed usi impropri di farmaci, esami strumentali, visite, ricoveri.