La decrescita felice di Maurizio Pallante è un libro troppo noto perché sia oggi necessario recensirlo, tuttavia la nuova edizione contiene quattro nuovi capitoli che lo arricchiscono in misura non trascurabile e che, da soli, una recensione la meritano. Gli argomenti sono: le città, l’alimentazione a base di carne, il denaro, la popolazione.
Il primo di essi mi riporta a un recente ricordo: sto facendo la fila alla cassa di un supermercato della periferia romana. La donna davanti a me chiacchiera con la cassiera mentre lei passa un codice a barre dietro l’altro sotto il raggio laser. Fra la molta roba sul nastro scorrevole c’è anche un insetticida per formiche. La donna si dilunga a spiegare quanto lei le formiche proprio non le sopporti. Io mi domando mentalmente se avere la casa piena di formiche sia poi tanto peggio che averla piena di veleno, ma sono fuori strada. La conversazione prosegue e capisco che no, non le ha in casa, le ha in giardino.
Leggendo il capitolo sulle città mi sono reso conto che esso null’altro è che il preciso ritratto di questa donna. Quale grado di estraneità dal mondo ha accumulato dentro di sé costei per essere giunta a questo punto? E come può averlo accumulato se non in lunghi decenni di quella vita inscatolata che queste pagine descrivono?
Le città sono esattamente il tipo di insediamento che serve a un sistema produttivo interamente basato sulle merci cioè sul binomio produzione-consumo mediato dal denaro. Questo binomio inscatola ogni aspetto della vita umana e dunque, se tutto il rapporto col mondo esterno è mediato dal denaro, a che serve il contatto con ogni altra cosa e in particolare col mondo vivente? Se le azioni della vita sono ridotte al vendere e al comprare, allora tutto ciò che non è in relazione con esse non esiste o, se esiste, è inutile e dunque non ha diritto all’esistenza.
Così ecco le città, ovvero la forsennata apoteosi dell’inorganico: agglomerati in cui l’abitare è finalizzato al produrre e al consumare, e che dunque finiscono per essere organizzate secondo gli stessi criteri della fabbrica: da una parte entrano risorse, dall’altra escono rifiuti e merci destinate a diventarlo ben presto esse stesse.
E se il concetto di benessere è legato soltanto alla quantità di merci prodotte e consumate, che senso ha preoccuparsi di ogni altro tipo di benessere? Così, nulla di strano se le masse di cemento e asfalto degli edifici e delle strade imprigionano enormi quantità di calore, se il suolo impermeabilizzato impedisce all’acqua piovana di raggiungere le falde idriche, se la città succhia enormi quantità di acqua che risputa sporca, se altrettanto sporca è l’aria, se si vive immersi in un incessante rumore, se spostarsi significa fare a gomitate negli incessanti ingorghi stradali; che importa, soprattutto, se si è perso il contatto con le stagioni e con i propri simili, se non si sa far più nulla se non vendere e comprare?
L’ipotesi più cupa è che un simile sistema possa perdurare per sempre. Per fortuna, ci ricorda Pallante, non è così: «ci sono segnali che la megamacchina è arrivata a impattare con i limiti del pianeta. (…) Le più fortunate sono le città che hanno subìto gli effetti della crisi dei sistemi produttivi attorno a cui erano cresciute.» E cita il caso di Detroit, che ha affrontato la crisi dell’industria automobilistica con una politica di decrescita guidata che la sta conducendo verso «un ritrovato equilibrio fra aree urbanizzate e aree rinaturalizzate, fra organico e inorganico».
«Il paradigma culturale della decrescita», conclude Pallante, «non potrà realizzarsi senza un processo di deurbanizzazione in un duplice senso: da una parte la rinaturalizzazione di alcuni spazi urbani e la contestuale demercificazione di parte delle relazioni umane tra gli abitanti delle città, dall’altra l’inversione dei movimenti migratori tra le città e le campagne».
Se l’inurbamento di massa ha raggiunto ormai dimensioni pandemiche, la deviazione alimentare altrettanto di massa verso i cibi di origine animale, e in particolare verso la carne, rimane confinata nei paesi industrializzati: quelli che più hanno subito negli ultimi 60 anni la sterzata del consumismo e della crescita economica e quelli che tale sterzata la stanno subendo adesso, una deviazione manifestatasi oltre tutto in perfetta e non casuale sincronia con tale mutamento. Molto opportuno giunge dunque il capitolo dedicato a questo tema in un contesto sociale in cui il mangiar carne ha ormai assunto tutte le caratteristiche di un’ossessione monomaniacale, tanto che perfino nell’ambientalismo più rigoroso le sue pesantissime conseguenze sulla biosfera (la zootecnia occupa, e devasta, il 20% delle terre emerse) sono pressoché ignorate o meglio rimosse. Pallante prende posizione senza mezzi termini fin dalle righe iniziali: «La crescita del consumo di proteine animali», scrive, «è uno degli strumenti più efficaci con cui la specie umana sta perseguendo (…) la sua autodistruzione.» E sottolinea come un’enorme quantità di problemi ambientali, economici e sociali convergano su questo tema: dalle emissioni di gas serra agli enormi consumi di acqua, al degrado del territorio, fino al pesante contributo alla fame nei paesi del terzo mondo, con il dirottamento di ingenti quantità di cereali e leguminose dall’alimentazione umana a quella degli allevamenti, ai disastrosi effetti sulla salute nei paesi “ricchi”. Sono affermazioni né «eccessive» né «dettate da fanatismo ideologico» bensì sostenute da dati di fonte autorevole e sotto l’aspetto “ideologico” insospettabile, quale è la FAO. Sono questi dati che costituiscono l’ossatura portante di tutto il capitolo, e sono essi a condurci, per ripetere le parole dell’ormai classico Rifkin, attraverso un itinerario desolato, fatto di foreste bruciate, di territori erosi, di campi insteriliti, di fiumi disseccati, di un’atmosfera gravata da milioni di tonnellate di anidride carbonica, monossido d’azoto e metano. E la conclusione non può che essere consequenziale a cotanto scempio di risorse: «Sulla base di queste considerazioni», scrive Pallante, «la scelta di un regime alimentare basato sul consumo di proteine vegetali diventa un elemento determinante del paradigma culturale della decrescita. Senza una drastica riduzione dei consumi di proteine animali l’obiettivo della decrescita non può essere realisticamente perseguito, né come scelta individuale, né come prospettiva politico-culturale.»
Il discorso sull’impatto ambientale dei consumi di carne spalanca infine le porte a un discorso ancora più ampio, di cui oggi più che mai dovremmo percepire la drammatica necessità e che potremmo riassumere come “l’interconnessione di tutte le cose”. Partendo dalla constatazione che la scelta alimentare orientata verso le proteine vegetali è spesso praticata per ragioni diverse dall’idea di decrescita, ovvero «salutistiche e/o etiche nei confronti degli animali», Pallante mostra l’incompletezza di ciascuna di tali scelte quando viene seguita ignorando il contesto più ampio in cui è inserita. «Che senso ha», esemplifica, «scegliere una dieta a base di proteine vegetali per ridurre il numero di animali sottoposti a indicibili sofferenze negli allevamenti lager, non facendo nulla per contrastare l’uso dei pesticidi che, per accrescere i rendimenti agricoli, generano sofferenze altrettanto gravi in altre specie viventi?» La conclusione è il necessario reciproco completamento fra il paradigma culturale della decrescita e quello etico-salutistico sotto il comune denominatore della matrice etica e filosofica condivisa dai diversi approcci: «una concezione non antropocentrica del mondo, ovvero la consapevolezza che il bene della specie umana non può essere perseguito se comporta il male di altre specie viventi e che il bene di tutte le specie viventi si riverbera anche sul bene della specie umana. Se non si riduce la violenza esercitata dalla specie umana nei confronti delle altre specie viventi non si riduce nemmeno la sofferenza che in conseguenza di quella violenza si ripercuote anche sulla specie umana.»
Dopo aver toccato con ciò le implicazioni più profonde e pervasive cui conduce il paradigma della decrescita, Pallante riporta l’attenzione entro i confini della società umana soffermandosi su quello che ne è oggi il valore fondante, il centro di tutte le esistenze, una volta di più il mezzo che è divenuto fine. Parliamo naturalmente della crescita “infinita” della produzione di merci e di quell’entità metafisica che ne è l’unità di misura: il denaro. Se questo è il centro di tutto, quali sono le conseguenze sulla comune percezione di ciò che è comportamento virtuoso e di ciò che non lo è? Ecco dunque che donare il proprio tempo, il proprio saper fare ad altre persone anziché venderlo in cambio di denaro diventa esecrabile perché non genera alcun incremento del prodotto interno lordo. Al contrario la smania consumistica diventa un atto meritorio perché consente l’incremento della produzione di merci. Non vengono risparmiate le critiche alla Chiesa che negli anni cruciali del secondo dopoguerra riuscì contemporaneamente a condannare il consumismo ed elogiare il cosiddetto “miracolo” economico, come se il secondo potesse realizzarsi senza il primo.
L’ultimo capitolo riguarda la crescita demografica e ribalta una convinzione su cui tutti da sempre sembrano essere d’accordo, ovvero che a provocare il problema siano i paesi “sottosviluppati” perché lì, e non nei paesi ricchi, si hanno i maggiori tassi di natalità.
Richiamandosi al concetto di impronta ecologica (l’area bioproduttiva della Terra necessaria a ricostituire le risorse consumate da ciascuno dei suoi abitanti umani) Pallante afferma che, se la motivazione principale della preoccupazione per l’incremento demografico è la sostenibilità ambientale, allora l’attenzione deve essere posta principalmente sui paesi a più alta impronta ecologica.
Quanto al problema dell’elevato tasso di natalità dei paesi poveri, Pallante ne individua la causa nella «consapevolezza dell’alta incidenza della mortalità infantile», che a sua volta dipende dalla povertà reale. Quest’ultima trova la sua causa infine nelle economie finalizzate alla crescita dei paesi ricchi, che poggiano parassitariamente sulle risorse degli altri paesi. Dunque «il tasso di natalità dei paesi “sottosviluppati” può smettere di crescere soltanto se l’economia dei paesi “sviluppati” non viene più finalizzata alla crescita». Non è pertanto «la crescita demografica a impedire la decrescita economica, ma la crescita economica a impedire la decrescita demografica».
Pallante esamina in conclusione i due settori produttivi chiave nel determinare l’impronta ecologica dei paesi ricchi: energia e alimentazione.
A proposito dell’energia ribadisce quanto da sempre sostenuto, ovvero il binomio costituito da eliminazione degli sprechi ed energie rinnovabili. A proposito dell’alimentazione individua tre tipi di sprechi: il cibo buttato nelle varie tappe del suo viaggio lungo le filiere produttive, poi la lunghezza di tali filiere e infine l’impronta ecologica dell’alimentazione a base di cibi animali a proposito della quale sottolinea come «l’adozione di un regime alimentare vegetariano (più sano e meno nocivo per la salute umana) ridurrebbe l’impronta ecologica consentendo di vivere senza privazioni a 11 miliardi di individui».
In sintesi il quadro alternativo che emerge dalla critica all’esistente tracciata in queste pagine è quello di un’umanità il cui modello insediativo abbia superato la fase degenerativa delle grandi concentrazioni urbane, la cui alimentazione sia tornata a essere basata sui cibi vegetali, che veda nelle relazioni non mercantili uno dei valori primari fra quelli che legano gli esseri umani e infine le cui dimensioni materiali siano stabili nel tempo. E’ un’umanità possibile? Il paradigma culturale della decrescita afferma di sì.
Fonte: www.ilribelle.com