Riportiamo la traduzione in italiano di un’intervista a Maurizio Pallante apparsa sul numero di dicembre della rivista mensile francese "La Décroissance". Dopo l’avvio di contatti con l’associazione belga Nature et Progrès, questo è il secondo passo del nostro movimento per stringere rapporti di collaborazione con i movimenti della decrescita di altri Paesi.
Buona lettura!
Maurizio Pallante, l’Italia è regolarmente presentata come uno dei paesi in cui il movimento della decrescita è il più avanzato, grazie a movimenti come Slow Food, Città Slow, le grandi lotte contro il TAV in Val di Susa ecc. C’è una penetrazione tra i militanti, nell’opinione pubblica delle idee degli obiettori alla crescita? E nella classe politica?
Né Slowfood, né il movimento No Tav fanno esplicitamente riferimento alla decrescita, sebbene le loro iniziative possano essere collocate in questo ambito culturale e alcune componenti al loro interno stiano maturando questa consapevolezza, come dimostrano le forme sempre più frequenti di collaborazione avviate col nostro Movimento per la decrescita felice. Il movimento No Tav mi ha invitato più volte a esporre le nostre idee in affollate assemblee pubbliche, in cui il coinvolgimento intellettuale ed emotivo dei partecipanti è stato molto alto. Anche con Slow food ci sono state forme di confronto e iniziative comuni. Ma la consapevolezza di agire nell’ottica della decrescita è più alta in un numero sempre più vasto di associazioni e gruppi locali, in particolare i gruppi d’acquisto solidale che si vanno diffondendo molto rapidamente. Anche in ambito imprenditoriale comincia ad essere significativo il numero di aziende e professionisti che producono e installano tecnologie che riducono gli sprechi e aumentano l’efficienza nell’uso delle risorse, non soltanto in una logica di mercato, ma anche con motivazioni etiche. Il nostro movimento ha promosso due incontri nazionali di questi operatori economici e ci stiamo ponendo l’obbiettivo di costituire una associazione di imprenditori per la decrescita. A livello politico la sensibilità è praticamente inesistente, sia a destra che a sinistra. Molto maggiore è l’apertura da parte di gruppi cattolici di base anche inseriti all’interno della struttura ecclesiale. Sia alcuni vescovi, sia alcuni ordini monastici, sia alcuni gruppi parrocchiali ci hanno proposto di partecipare a dibattiti pubblici sulla decrescita in cui i partecipanti, sempre molto numerosi, praticano da tempo stili di vita coerenti con le nostre proposte.
Discutendo con gli obbiettori alla crescita italiani, si vede che anche tra voi gli stessi problemi dividono i fautori della decrescita. I dibattiti e le polemiche interne al movimento sono così rilevanti presso di voi?
Non sono al corrente di dibattiti e polemiche interne tra obbiettori della crescita italiani. Quanto meno noi del Movimento per la decrescita felice ne siamo rimasti estranei perché abbiamo concentrato il nostro impegno nell’elaborazione di idee e proposte e nella costruzione dei circoli territoriali in cui è strutturata la nostra organizzazione. Sappiamo che ci sono gruppi della sinistra non ortodossa che cercano di rivitalizzare la loro cultura e il loro impegno politico di sempre con un’interpretazione della decrescita che non destabilizzi le loro convinzioni originarie, ma siamo convinti che sinistra e decrescita siano inconciliabili (così come destra e decrescita). Ciò non ci impedisce di partecipare ad iniziative comuni o a momenti di confronto con questi gruppi. Più fecondo è il confronto con soggetti non iscritti alla nostra associazione che stanno lavorando per definire il paradigma culturale della decrescita, con la consapevolezza che si tratta di una prospettiva “altra” rispetto alle visioni del mondo ottocentesche e novecentesche. Noi siamo convinti che si stia chiudendo l’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale e con ogni probabilità questa chiusura avverrà con un crollo. Gli strumenti interpretativi della realtà che abbiamo ereditato non sono più sufficienti a capire come orientarsi. La costruzione di un paradigma culturale diverso è un compito complicatissimo, non necessariamente destinato a riuscire, e in questa fase iniziale è inevitabile che si manifestino delle differenze tra chi è impegnato in questa operazione. Non necessariamente le differenze devono sfociare in polemiche. In una fase iniziale, come quella che stiamo vivendo, sono una ricchezza analoga alla ricchezza della biodiversità. Se l’obbiettivo è identico sono destinate a diventare fattori di armonia.
Dopo la Grecia, l’Italia è indicata come la prossima vittima del debito pubblico. Qual è la tua opinione di obbiettore alla crescita su questa situazione, dal punto di vista italiano e dal punto di vista internazionale? Qual è la tua opinione sull’avvenire? Le idee della crescita si affermeranno o andiamo verso il crollo delle economie mondiali?
La nostra opinione è che la stagnazione economica dei paesi industrializzati e le speculazioni sui loro debiti pubblici sono le conseguenze di una sovrapproduzione dovuta alle innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività e la competitività sui mercati mondiali. Queste innovazioni riducono l’incidenza del lavoro umano sul valore aggiunto determinando contestualmente all’aumento dell’offerta di merci una diminuzione della domanda conseguente alla riduzione dell’occupazione.
Le innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere la produttività:
1. sono intrinseche a un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita del prodotto interno lordo, ovvero un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita del pil non può farne a meno;
2. comportano un prelievo crescente di risorse, utilizzano processi produttivi molto invasivi nei confronti degli ecosistemi, producono quantità crescenti di rifiuti: queste tre conseguenze hanno superato le capacità del pianeta di fornire le risorse necessarie alla prosecuzione della crescita economica e di metabolizzarne gli scarti, per cui la crisi produttiva e occupazionale s’intreccia con una crisi ecologica ed energetica, ed è questo intreccio a renderla molto più grave della crisi del ‘29.
Per tenere alta la domanda e assorbire gli eccessi di offerta gli Stati hanno attuato la politica keynesiana di aumentare la spesa pubblica in deficit e le famiglie sono state indotte a indebitarsi. Ora, se si vogliono ridurre i debiti occorre deprimere la spesa pubblica. Ciò comporta una riduzione della domanda e un aggravamento della crisi economica e della disoccupazione, che ridurrebbe ulteriormente la domanda. Se invece si vogliono dare stimoli all’economia bisogna accrescere la spesa pubblica e ciò comporta un aumento dei debiti. Contrariamente a quanto dicono gli economisti, la crescita è la causa del problema, per cui se si persegue la crescita per risolverlo, in realtà non se ne esce.
L’unica maniera per superare questo impasse è investire nelle tecnologie che riducono il consumo di risorse aumentando l’efficienza con cui si utilizzano e riducendo gli sprechi, riducendo l’impatto ambientale e riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi. I costi d’investimento di queste tecnologie si recuperano con i risparmi sui costi di gestione che consentono di ottenere. Se si ristruttura un edificio per ridurre le sue dispersioni termiche, la riduzione delle spese di riscaldamento ripaga in un certo numero di anni i costi sostenuti per ristrutturarlo. Ma se un edificio consuma meno energia fa decrescere il prodotto interno lordo. La riduzione della crisi ecologica permette di “liberare” e rendere disponibile per gli investimenti il denaro che si spende per ciò che non serve, consentendo di creare occupazione utile senza accrescere i debiti pubblici. Solo una decrescita selettiva dei consumi finalizzata a ridurre l’impronta ecologica mediante la progressiva eliminazione di sprechi e inefficienze è in grado di farci superare la crisi senza aumentare i debiti pubblici.
Maurizio, l’Italia è definitivamente uscita dal nucleare?
Non basta dire no al nucleare in un referendum per uscirne definitivamente. Già nel 1986 abbiamo detto no in un referendum analogo e 25 anni dopo è stato riproposto. Per uscire definitivamente dal nucleare occorre fare una politica energetica che lo renda inutile. Che faccia considerare folle chi lo propone. A causa dell’inefficienza dei processi di trasformazione e degli usi finali, gli sprechi energetici nel nostro paese ammontano al 70 per cento dei consumi globali. Solo nel riscaldamento degli edifici, che ne assorbono circa un terzo, gli edifici italiani consumano il triplo dei peggiori edifici tedeschi e 10 volte più dei migliori. In Francia, col riscaldamento elettrico per smaltire gli eccessi di produzione delle centrali nucleari, gli sprechi e le inefficienze sono ancora maggiori. La prima cosa da fare è quindi far decrescere i consumi energetici riducendo gli sprechi. La seconda è soddisfare i consumi residui con fonti rinnovabili. Ma una volta che siano state installate, le fonti rinnovabili fanno decrescere i consumi di fonti non rinnovabili. La terza è sviluppare le fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo. Se si auto produce l’energia che si consuma, si è indotti a non sprecarla e a usarla con attenzione: si è indotti a far decrescere i propri consumi finali. Ma se diminuisce la domanda di energia, a parità di servizi, con una riduzione dei costi e un miglioramento del benessere, nessuna persona normodotata potrà più pensare a costruire centrali nucleari.
Tu hai pubblicato quest’anno “La decrescita felice” in francese presso le edizioni di Nature et Progrès. Tu parli il francese e conosci il nostro paese. Qual è la tua opinione sul movimento degli obbiettori alla crescita in Francia?
Non conosco così bene la situazione da poter esprimere un parere motivato. Tuttavia la mia sensazione è che in Francia gli obbiettori alla crescita hanno fatto un buon lavoro culturale, sia a livello teorico: penso a Serge Latouche, sia nella diffusione della consapevolezza sugli svantaggi della crescita e sui vantaggi di improntare la propria vita alla decrescita: penso alla vostra rivista. Ma non mi sembra che sia stato fatto abbastanza sulla valorizzazione delle tecnologie della decrescita, sulla promozione dell’economia della decrescita, sullo sviluppo di proposte politico-amministrative finalizzate alla decrescita. Sul piano politico, inteso in senso ampio, mi sembra che si sia fatto di meno che sul piano culturale.