di Maurizio Pallante
Nell’articolo intitolato Gli egoisti della decrescita, (Corriere della Sera, la Lettura, 19 febbraio 2012) Antonio Pascale ha svolto alcune considerazioni sulla mia concezione di decrescita. La fonte su cui le ha basate è un seminario on line del 2009, in cui un gruppo di persone a me ignote ha discusso il testo di una mia conferenza pubblicata in un audiolibro intitolato Discorso sulla decrescita. Seminario di cui ho scoperto l’esistenza dal suo articolo, poiché gli organizzatori hanno ritenuto irrilevante darmene informazione.
Non mi stupisce che sulla base delle interpretazioni altrui di un mio breve intervento, la sua conoscenza di quanto sostengo sia lacunosa. Sono consapevole della scarsa rilevanza dei miei libri e ritengo che le persone di cultura ne abbiano di più importanti da leggere. Lo dico senza ironia né falsa modestia. Non capisco però come si faccia a scriverne senza averli letti, come si evince dalla caricaturale interpretazione delle conseguenze che, secondo Pascale, io farei derivare «dalla distinzione tra merci e beni: riduciamo le prime e aumentiamo i secondi».
In realtà, io mi limito a ricordare la differenza concettuale tra la parola merce, che indica un oggetto o un servizio scambiato con denaro, e la parola bene, che indica un oggetto o un servizio che risponde a un bisogno o soddisfa un desiderio. E a constatare che non tutte le merci rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio. Per esempio l’energia che si spreca per riscaldare un edificio mal costruito. In relazione agli standard tedeschi gli edifici italiani ne sprecano mediamente dal 70 al 90 per cento.
Ne deduco che un edificio ben coibentato sprecando meno energia fa crescere il prodotto interno lordo meno di un edificio mal coibentato. E che ristrutturando energeticamente un edificio mal coibentato, una volta ammortizzati costi d’investimento con i risparmi sui costi di gestione, si fa decrescere il pil senza rinunce né sacrifici, perché diminuisce il consumo di una merce che non è un bene, in quanto l’energia che si spreca non fornisce alcuna utilità.
D’altra parte non tutto ciò che ci serve o ci piace si deve necessariamente comprare, ovvero non tutti i beni si possono ottenere solo sotto forma di merci: molti possono essere più vantaggiosamente autoprodotti o scambiati nell’ambito di relazioni basate sul dono e la reciprocità. E ogni volta che si utilizza un bene autoprodotto o scambiato sotto forma di dono non si fa crescere il prodotto interno lordo, si valorizza la dimensione culturale del saper fare, si rafforzano i legami sociali, si riducono i costi monetari, il consumo di fonti fossili per il trasporto e gli imballaggi.
Anche in questo caso senza rinunce e sacrifici. Ci sono poi alcuni beni, in particolare quelli a tecnologia complessa, che si possono ottenere solo sotto forma di merci e che, pertanto, sarebbe bene non ridurre. La mia concezione di decrescita non comporta la riduzione indiscriminata della produzione e del consumo delle merci, ma solo delle merci che non sono beni (cosa che, inoltre, richiede specifiche innovazioni tecnologiche e un’occupazione qualificata) e comporta l’aumento della produzione e l’uso di beni che non sono merci. Per questo parlo di decrescita felice.
Come tutto ciò possa essere considerato una forma di egoismo mi sfugge. Se le nostre case, utilizzando tecnologie più evolute e creando occupazione utile, venissero ristrutturate per consumare da un terzo a un decimo dell’energia che consumano attualmente, non solo ne resterebbe di più per i popoli poveri, ma la diffusione di queste tecnologie più evolute contribuirebbe ulteriormente ad accrescere il loro benessere senza far crescere in misura proporzionale il loro consumo di risorse.
Mi pare di poter dire che, non conoscendo le mie posizioni, Pascale abbia criticato la sua idea, molto superficiale, di decrescita. Insomma se l’è cantata e suonata da solo, deducendone conclusioni opposte a quelle che, con molta modestia, io credo che si possano raggiungere perseguendo la strada che indico.