Stiamo uscendo dalla crisi? Non credo. La ne­cessarissima riduzione della spesa pubbli­ca associata alla spending review non farà au­mentare di certo il Pil, visto che negli ultimi due decenni l’Italia era cresciuta anche grazie al­l’aumento ipertrofico della spesa pubblica. Se poi aggiungiamo l’aumento dei costi che la ma­novra ha messo sulle spalle delle famiglie, la preoccupante crescente disoccupazione giova­nile, i più facili licenziamenti, la crisi di compe­titività e l’obsolescenza di troppe nostre impre­se, qualcuno dovrebbe spiegare dove i tecnici dei grandi centri di ricerca economica avrebbero fondato le loro previsioni di ripresa dell’econo­mia italiana nel 2013; a meno che non ricorra­no alle solite ingegnerie contabili e statistiche che torturano i dati fino a farli confessare quan­to chi interroga vuol sentirsi dire.

La realtà purtroppo è ben diversa e meno rosea, e per capirlo basterebbe leggere i dati sul be­nessere soggettivo di europei e italiani in cadu­ta libera in questi anni, ma soprattutto guarda­re i nostri concittadini in volto, magari anche a­scoltarli, per capire immediatamente, se si è do­tati di un minimo di empatia, che il malessere è grande. Ce lo dice anche il continuo aumen­to dei giochi e delle scommesse, segno grave di degrado, anche in luoghi tradizionalmente cu­stodi e coltivatori di valori (ho visto in Toscana “slot machine” anche dentro centri ricreativi di grande storia civile, politica ed etica). Ma, non dobbiamo dimenticarlo mai, se anche con qual­che miracolo economico dovessimo riuscire a far ripartire tra qualche mese il Pil, ciò non si­gnificherebbe l’uscita dalla crisi. Il perché è trop­po semplice: se non creiamo oggi nuovo lavo­ro, in modo ecologicamente sostenibile e so­cialmente equo, potremo anche uscire da que­sta crisi finanziario–economica, cioè dalla crisi con la ‘c’ piccola, ma continueremo a rafforza­re la Crisi con la “C” grande.

Uno dei grandi problemi di questi tempi è che si parla molto, troppo, della crisi (spread, bor­se, finanza nazionale ed europea…) e poco, troppo poco, della Crisi. Dobbiamo ricordarci e ricordare che quella ormai storica data del 15 settembre 2008 non è stata meno significativa e epocale dell’11 settembre 2001: nel rumore creato dalla crisi terroristica internazionale, la speculazione ha continuato a operare indistur­bata dall’opinione pubblica. Anche per questa lezione della storia, chi oggi ha a cuore il bene comune, e quindi riconosce il valore del mer­cato, delle imprese, del lavoro e della finanza ci­vile, deve parlare e far parlare meno di crisi, e tornare con forza a parlare e far parlare della Crisi del nostro modello di sviluppo economi­co– sociale. Come? Facendo in modo che, a tut­ti i livelli, si mettano al centro dell’agenda pub­blica e politica, compresa quella delle prossime elezioni nazionali, i temi e le sfide della Crisi del nostro tempo, tra cui le crisi ambientali, la cre­scita delle rendite, ma anche il deterioramento dei rapporti sociali – frutto diretto della svalu­tazione dei grandi valori cardine e la crisi del­l’amicizia civile: ho provato a Milano a salutare («Buongiorno!») un signore lungo i navigli, si è impaurito ed è scappato, non più abituato a ta­li antiche pratiche di cittadinanza…

Ma soprattutto la Crisi è del lavoro, che non è solo quella delle emergenze presentate come casi particolari e drammatici: è una intera fase storica che sta tramontando, perché è in corso un cambiamento strutturale e di lungo perio­do. Ma restiamo – istituzioni e cittadini – a guar­dare, a stupirci dei dati e dei fatti, a sperare di essere vicini alla fine del tunnel e che si riparta, senza avere né una lettura profonda e condivi­sa di quanto sta accadendo, né quindi alcuna proposta sistemica, strutturale, ed efficace.

M a se, come è evidente, la grande impresa e lo Stato non potranno creare lavoro oggi né tanto meno domani, e se le piccole e medie imprese del Made in Italy sono in grande difficoltà, la domanda cruciale diventa: da dove nascerà l’occupazione per ripartire? Una domanda tragica, non tanto perché manca la risposta, ma perché viene negata la domanda stessa. E si attende, neanche capaci non dico di creare lavoro ma di tener in vita quello che ancora rimane in piedi e traballa.

Ci sarebbero tuttavia delle operazioni molto urgenti da fare, e certo non impossibili. Altre ricette sono state già abbozzate, anche su queste colonne di giornale. Ne propongo alcune dal mio punto di vista. La prima riguarda la terra: questo capitalismo l’ha dimenticata, trascurata, abusata, violentata (pensiamo all’Africa), e invece da essa può e deve nascere il lavoro che manca. Bisogna tornare ad occuparci diversamente di agricoltura e di cibo, guardando e coltivando i territori e i loro beni comuni (acqua, verde, zone montagnose, mari) come luoghi che possono nutrirci, facendoci lavorare. C’è poi l’energia: possono e debbono nascere migliaia di lavori dalle nuove fonti di energia (e francamente colpisce che, invece, nell’abbozzo di Piano energetico nazionale che è circolato in questi giorni sembri destinato a prevalere l’orientamento per il mantenimento di un ruolo larghissimamente egemone dei combustibili fossili…). Bisogna puntare con lungimiranza anche su queste nuovo fonti e farlo rendendole meno concentrate, più ‘democratiche’ e popolari, territoriali, e quindi sostenibili.

Ma per queste due operazione c’è bisogno che le istituzioni – prima di pensare di vendere il Colosseo… – mettano semplicemente a disposizione i tanti terreni, gli immobili, le strutture pubbliche spesso sottoutilizzate, ferme, costose. Ci sono poi i beni culturali: ad Ascoli Piceno – come in altre parti d’Italia – sono delle cooperative a gestire i musei civici: perché non imitarli nella gestione dei mille musei, pinacoteche, siti archeologici, che hanno un bisogno vitale di imprenditori civili (non di speculatori) perché non degradino e muoiano, e creino anche lavoro sostenibile (che non dipenda cioè dalle finanze pubbliche)?

C’è, infine, una questione molto urgente che riguarda direttamente il mondo cattolico. Ci sono oggi in Italia centinaia di ordini religiosi che, per l’evoluzione radicale e veloce che hanno vissuto in questi ultimi anni, si trovano in serie difficoltà nella gestione di scuole, ospedali, immobili, terreni. C’è il rischio, in qualche caso incombente, che migliaia di splendidi luoghi, che hanno fatto e fanno la vita spirituale e civile dell’Italia, vadano in mano di faccendieri e pseudo­consulenti, che lucrano lauti guadagni da questo stato di necessità. Questi immobili rischiano, insomma, una ‘confisca’ da parte di questi speculatori peggiore di quella napoleonica. C’è bisogno di un’azione concertata, sistematica, lungimirante, generosa, rispettosa dei carismi e della loro natura preziosa, che dia vita ad alleanze vere tra queste istituzioni e la parte più sensibile delle comunità che vivono attorno a esse.

Potrebbero, e dovrebbero, nascere presto centinaia, migliaia, di nuove imprese sociali, di nuove cooperative, che, ben formate e con le giuste motivazioni e regole sulla destinazione dei profitti, insieme ai religiosi (non sostituendosi a essi) consentirebbero a quelle stesse opere e ai loro carismi di continuare a dare il loro specifico e essenziale apporto al bene comune (che è molto più di una erogazione di servizi), e si creerebbe anche molto nuovo lavoro. Necessario, sostenibile, esemplare.

di Luigino Bruni

Fonte: Avvenire.it