La decrescita felice è un cambiamento interiore

da | 13 Ott 2012

Alla terza Conferenza Internazionale su “La grande transizione: la decrescita come passaggio di civiltà”, tenutasi a Venezia dal 19 al 23 settembre, si è dibattuto su come muoversi verso un nuovo modello di sviluppo. Equa gestione dei beni comuni, precariato, crisi del welfare, bisogno di una transizione verso modelli di governo veramente partecipati: i temi trattati sono stati molti, e spesso complessi. Durante tutta la conferenza, però, le parole d’ordine sono state poche e precise: partecipazione, localizzazione, sostenibilità, valorizzazione delle diversità. Ma che cosa si è detto per coglierne appieno il senso? Cosa si è fatto per andare veramente oltre le buone intenzioni? E quali sono stati gli spunti più interessanti per uscire da una crisi irreversibile?

A Venezia la decrescita sembra essere uscita dal guscio della chiocciolina che la rappresenta. Non solo per avere dato voce a chi vuole liberarsi dalle storture del neo-liberismo, della globalizzazione e di un capitalismo nella sua fase terminale, ma anche per il successo in termini di affluenza. Se le persone iscritte ai seminari erano 671, infatti, sono state 850 quelle che vi hanno partecipato. In migliaia, invece, hanno assistito agli incontri pubblici ed ai vari “eventi paralleli”. Come quello su “Immaginazione e spiritualità” con Serge Latouche e Alex Zanotelli, che da solo ha visto la Basilica dei Frari accogliere oltre mille persone, provenienti da 47 Paesi diversi.

La decrescita e il sud del mondo. È ora di imparare dagli “ultimi”

Il valore aggiunto di questa manifestazione è stato nel suo approccio multiculturale. In particolare, le delegazioni provenienti da Paesi come Bolivia, Salvador o Sierra Leone hanno aiutato a capire come la civiltà occidentale, ormai, per sopravvivere a se stessa abbia una sola possibilità: cambiare rotta. «L’idea di trovare modi per ottenere sempre di più in competizione con chi ci sta attorno, tipica del modello di progresso occidentale, non può più funzionare», ci ha detto l’ecoattivista boliviano Gustavo Soto, direttore del Centro Studi Applicati ai Diritti Economici, Sociali e Culturali di Cochabamba. Per uscire dalla situazione in cui ci troviamo, quindi, è urgente riscoprire un approccio con la vita di tipo comunitario. Lo stesso che, per Soto, «accomuna il punto di vista precoloniale dei popoli nativi con quello postmoderno della decrescita». «Per le popolazioni indigene del Sud America è fondamentale l’idea dell’armonia, della comunità», ci ha ricordato: «Nella costituzione boliviana, oltre al concetto del buen vivir, c’è quello della “terra senza male”, perché per i popoli indigeni è molto importante la proprietà comune». «Non è un caso se le zone popolate da queste persone, come vaste aree dell’Amazzonia boliviana, sono più tutelate di quelle in cui invece prevale la proprietà individuale».

Comunità, una parola che sembra avere perso il suo senso originario, nei Paesi “sviluppati”, tanto da portare il missionario comboniano Alex Zanotelli ad ammettere che «il sud del mondo ci chiama ad una grande responsabilità: quella di ricominciare a vivere». Come? Proprio «iniziando a recuperare il senso di comunità». Dopo decenni spesi nella convinzione di fare parte del “primo mondo”, civile ed avanzato, sembra quindi il momento di imparare dalle genti del sud e dalle popolazioni indigene. «La Bolivia non è un colore della pelle, ma un modo di pensare», ci ha spiegato Gustavo Soto: «Per questo Evo Morales, che ha tradito le aspettative con la sua politica, sempre più vicina alla logica del capitalismo globale, non è un esempio da seguire». Lo sono invece le migliaia di persone che, secondo Serge Latouche, dall’Africa all’Indocina ci dimostrano come, nonostante le molte difficoltà, sia possibile vivere bene anche al di fuori dell’economia.

Passare dall’io al noi

A Venezia, in generale, il messaggio più chiaro è stato quello sulla necessità di superare l’individualismo di stampo occidentale, che relega ognuno nel suo ruolo di consumatore. Ma come si può «passare dall’io al noi», come consigliato da Rob Hopkins, fondatore del Transition Network? Per l’attivista e filmaker Helena Norberg-Hodge, «la cosa più importante che possiamo fare è quella di informarci ed informare chi ci sta attorno». «Dobbiamo far capire alle persone che le politiche che stanno distruggendo l’ambiente, sradicando intere culture o facendo impennare le emissioni di CO2 sono le stesse che non gli permetteranno di avere un lavoro o una pensione», ci ha spiegato: «Se questo messaggio passasse, avremmo di colpo un enorme movimento di persone motivate a cambiare le cose».

Parole sante. Ma al di là del messaggio, c’è bisogno di azioni concrete, di soluzioni pratiche. Ecco perché a Venezia si è cercato di dare spazio anche a corsi e laboratori aperti al pubblico, in cui attività spesso semplici, come fare il pane o scambiarsi semi, erano condotte da persone che, pur non in grado di provocare il clamore dei grandi nomi, hanno permesso anche a passanti ignari di imparare ad emanciparsi almeno un poco dal mercato, e dal proprio portafogli. Azioni molto più valide di tante parole, «e molto più utili di occupazioni che, invece, non permettono di dare un senso a ciò che si fa», ricorda Maurizio Pallante: «Sarebbe tempo, quando si parla di produzione, di ricominciare a ragionare in termini qualitativi, e non solo quantitativi».

E quindi?

C’è ancora molto lavoro da fare, se si vuole vivere in un mondo più sano e più equo. Del resto, come ha detto lo stesso fondatore del Movimento per la Decrescita Felice: «Del quadro che si vuole dipingere, il lavoro fatto finora equivale solo a due pennellate». L’importante, si dovrebbe aggiungere, è che queste pennellate siano date nei modi e nei tempi giusti. Se non altro per evitare di andare fuori tempo massimo: rischio che corre anche chi non si è arreso ad un mondo triste, inquinato ed omologato sui modelli del consumo di massa.

Cercare di riassumere in poche parole tutto quello che è stato detto o fatto in quei giorni a Venezia sarebbe riduttivo, vista la quantità di eventi che l’Associazione per la Decrescita è riuscita a organizzare. La manifestazione, nel suo complesso, è stata molto interessante, e molto utile per far capire quanto elevato sia ormai l’interesse per un fenomeno, la decrescita, ritenuto fino a poco tempo fa un vero e proprio tabù. La speranza, però, è che i numerosi presenti fossero soprattutto persone che di queste cose non avevano mai sentito parlare prima. La critica e le denuncie sfociate dai dibattiti più importanti infatti non bastano. Inoltre, se da una parte si aveva la sensazione di trovarsi in mezzo a persone che stavano tentando di forgiare il mondo che verrà, dall’altra si poteva avere l’impressione di essere caduti in massa nel tranello dell’autocompiacimento (fenomeno non raro nel mondo ambientalista). In occasioni di questo tipo ci si può ritrovare, magari dopo avere fatto centinaia di chilometri, solamente per dire e sentirsi dire ciò che più ci aggrada, o per recitare la propria parte sul palcoscenico dei più virtuosi. Ma questo è tutto tranne che un rimedio alla crisi.

La conferenza internazionale di Venezia sulla decrescita è stata quindi un’importante occasione per capire da che parte andare. Per questo aspetteremo con impazienza anche la prossima edizione. Nel frattempo, però, dovremmo tenere bene a mente il messaggio forse più importante di tutto l’evento, dato da Rob Hopkins durante la cerimonia di apertura: «Il cambiamento deve partire da noi, perché la decrescita non è solo cambiare lampadine o coltivare carote. È un cambiamento interiore, per cui ci dobbiamo aiutare l’un l’altro».

di Andrea Bertaglio

Fonte: Aam Terra Nuova