Ancora stragi nelle fabbriche tessili dei grandi marchi occidentali

da | 29 Nov 2012

L’industria tessile, da sola, in Paesi come Pakistan e Bangladesh vale più della metà delle esportazioni. Un giro d’affari enorme, per i produttori, che porta milioni di capi d’abbigliamento a basso costo nei nostri negozi e supermercati, ma anche una strage dopo l’altra. Dopo quella dello scorso 11 settembre a Karachi, in Pakistan, in questi giorni si è consumata l’ennesima tragedia, questa volta in Bangladesh. Una situazione ormai fuori controllo per cui, come denunciato dalla campagna “Abiti Puliti”, serve un intervento immediato.

Diritti violati, ricatti, misure di sicurezza inesistenti e sistemi elettrici fatiscenti. Risultato? Centinaia di morti. A due mesi dalla terribile tragedia di Karachi, in Pakistan, dove l’incendio della Ali Enterprises con le sue 250 vittime è stato classificato come il peggiore incidente industriale della storia pakistana, non è ancora stata fatta chiarezza. Neppure sulla validità dei sistemi di controllo che, solo un mese prima, avevano dato all’industria interessata la certificazione SA8000.

Nato nel 1997 per elencare “i requisiti per un comportamento eticamente corretto delle imprese verso i lavoratori”, questo prestigioso attestato internazionale era stato rilasciato all’azienda tessile il 20 agosto, meno di un mese prima. Da chi? Da un gruppo italiano: il Registro Italiano Navale (Rina) di Genova, società di ispezione accreditata dal Social Accountability Accreditation Services (Saas).

L’appello della campagna Abiti Puliti, per cui serve “un intervento immediato da parte dei marchi internazionali”, giunge in seguito all’ennesima strage avvenuta in uno dei molti sweatshop in cui viene prodotta gran parte dei nostri abiti o delle nostre calzature.

Dopo poche settimane dalla strage di Karachi, infatti, si è verificata l’ennesima tragedia. Questa volta è toccato a Dhaka, in Bangladesh, dove più di cento operai sono morti fra le fiamme mentre stavano producendo indumenti per brand internazionali fra cui C&A, Carrefour e Walmart. “La Clean Clothes Campaign è convinta che questi soggetti abbiano dimostrato negligenza per non aver preso contromisure efficaci ai problemi di sicurezza evidenziati da incendi precedenti, divenendo responsabili per l’ennesima tragica perdita di vite umane”, denunciano gli attivisti riferendosi ai proprietari della fabbrica di Dhaka: “Molti dei lavoratori hanno trovato la morte mentre cercavano di scappare dal palazzo a sei piani; altri, non potendo scappare, sono arsi vivi”.

La terribile dinamica, in effetti, è sempre la stessa: c’è un problema ai cablaggi o al sistema elettrico (causa dell’80% degli incendi in Bangladesh), divampano le fiamme e le persone rimangono intrappolate in fabbriche-prigioni che, per un motivo o per un altro, non garantiscono un corretto funzionamento delle uscite di sicurezza. Ma perché? Perché spesso le persone “sono costrette a lavorare in queste fabbriche in condizioni di semi-schiavitù”, afferma Abiti Puliti.

Un problema che tocca da vicino l’Italia. Non solo perché la maggior parte degli indumenti che indossiamo arrivano da quelle fabbriche di morte, ma anche perché, tornando in Pakistan, tre settimane prima dell’incidente la Ali Enterprises aveva ricevuto una certificazione di sicurezza da parte del Gruppo Rina di Genova. Da anni il Rina tiene sotto controllo centinaia di aziende per conto del Social Accountability International (Sai) di New York, un’organizzazione internazionale no-profit che, finanziata da multinazionali di diversi settori, si affida per lo svolgimento della maggior parte dei suoi controlli a 21 società sparse per il mondo.

Il Sai, dopo la tregedia pakistana, non ha fatto nulla per rivelare le conclusioni dei revisori accreditati. Né tanto meno i marchi i cui prodotti provenivano dallo stabilimento devastato dalle fiamme. Uno smacco non da poco sia per l’Italia che per tutte le imprese del ‘primo mondo’ ed i factory monitoring system che ne garantiscono l’eticità: verifiche e attestati di buona salute alle fabbriche situate nei Paesi in via di sviluppo, sempre più attive nel produrre capi di abbigliamento, apparecchi elettronici e centinaia di altri prodotti destinati ai mercati occidentali. Controlli che portano al rilascio di certificazioni internazionali come la SA8000 che, da quindici anni, ha l’obiettivo di garantire il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori e le garanzie di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro.

“Gli estintori e i secchi di sabbia erano disponibili in sufficiente misura […] gli estintori erano visibili e accessibili a tutti i lavoratori”, scrive il Rina sul suo sito web: “L’accesso agli estintori e i percorsi verso le uscite di sicurezza erano liberi da ostacoli. Le uscite principali e le uscite di emergenza sono mantenute sbloccate mentre i lavoratori si trovano all’interno della fabbrica”.

Perché, allora, 247 persone sono rimaste bloccate in una fabbrica le cui uscite erano sbarrate dall’esterno, senza estintori e quindi bruciate vive, soffocate dal fumo, o addirittura annegate negli scantinati dalle tonnellate di acqua riversate sull’edificio per spegnere le fiamme? “È la prima domanda che tutti ci siamo posti”, ci dice Giulia Faravelli dell’ufficio stampa del Rina. Che, proprio per questo, “sta portando avanti indagini interne legate a questo evento e collaborerà appieno agli accertamenti avviati dalle autorità competenti”, oltre a condurre “un audit interno straordinario in Pakistan, dove ha inviato un Senior Auditor”.

“Molti brand sanno da anni che molte delle fabbriche in cui scelgono di produrre sono delle trappole mortali. Il loro fallimento nell’adottare misure adeguate è una negligenza criminosa”, ha detto Ineke Zeldenrust della Clean Clothes Campaign (CCC). Urge dunque un’inchiesta indipendente e trasparente sulle cause di questi incendi, “per una piena e giusta compensazione da pagare alle vittime e ai loro familiari e per individuare le azioni necessarie a prevenire simili tragedie in futuro”.

“L’ennesima perdita di vite umane, sacrificate sull’altare di un modello industriale che produce profitti per i grandi gruppi internazionali a discapito dei lavoratori impiegati senza diritti nelle fabbriche per l’export, fortifica la nostra convinzione che occorrono cambiamenti strutturali, concreti e rapidi per rimuovere la cause alla base di tragedie come queste” continua Deborah Lucchetti di Abiti Puliti (la CCC italiana).

“I datori di lavoro e il governo bengalese devono assumersi la loro parte di responsabilità”, scrive Abiti Puliti in un comunicato stampa diffuso in questi giorni in seguito all’incidente verificatosi in Bangladesh: “Il governo deve effettuare un’indagine immediata sulle cause dell’incendio e perseguire coloro la cui negligenza ha causato la morte di queste donne e uomini. Inoltre, deve investire in un programma di ispezioni in tutto il Paese per accertare che gli edifici attualmente in uso siano adatti allo scopo cui sono destinati e rispettino gli standard di sicurezza”. Ma lo farà?

Nel dubbio, e nel frattempo, forse anche noi possiamo fare qualcosa. Come? Evitando di comprare e buttare scarpe e vestiti come se non avessero alcun valore, o come se chi li fabbrica fosse nelle nostre stesse condizioni. Gli abiti che andremo a provare all’ennesima ondata di saldi ci potranno ricordare cosa succede in alcune fabbriche tessili del pianeta, con l’immancabile etichetta “Made in China”, “India”, “Pakistan”, “Bangladesh”, “Turkey”, “Mexico” o una manciata di altre nazioni in cui vivono, o sopravvivono, gli schiavi che producono i nostri oggetti.

E anche se economisti e bocconiani vari continuano con il loro tentativo di lavarci il cervello (magari indignandosi se ci sono persone che la domenica hanno di meglio da fare che andare in uno squallido centro commerciale), resistiamo per quanto possibile alla tentazione di consumare per forza. Alla faccia loro, dei regali di Natale e del “rilancio dei consumi”. Solo con un sano boicottaggio, infatti, i grandi marchi che sfruttano la manodopera in queste fabbriche-trappole potranno capire che una fetta sempre più ampia della loro potenziale clientela, ormai, sa cosa succede dall’altra parte del mondo. E, per questo, non ha più intenzione di acquistare indumenti già macchiati di sangue.

di Andrea Bertaglio

Fonte: Il Cambiamento