Grazie, Ivan Illich

da | 30 Nov 2012

Ha attraversato la seconda metà del ‘900 e anche tutto il mondo da un capo all’altro fecondandolo con la sua personalità, e suscitando ovunque azioni e idee. Dagli Stati Uniti al Messico, dall’Europa all’Asia, ovunque era a casa sua, compartecipando convivialmente dei luoghi e del pensiero.

E’ stato sale dell’intelligenza. Sempre stando nelle pieghe della vita e mai al di sopra, come i boriosi monumenti viventi. Mai da accademico ma sempre da amico, maestro, padre. Perché si metteva in ogni circostanza in un rapporto personale. Stabiliva solo rapporti personali, non convenzionali. Cosa che gli alienava la simpatia e la comprensione degli uomini appunto convenzionali.

La sofferenza della malattia che per tanti anni l’ha accompagnato non ha potuto costringerlo a ripiegarsi su se stesso. Fino all’ultimo ha mantenuto intatta la curiosità, la meraviglia per i luoghi e per gli uomini. Per lui, e tutta la sua opera lo rivela, la vita era una straordinaria, inesauribile avventura d’amore e d’intelligenza. Dove l’esercizio dell’intelligenza era propriamente un atto d’amore e di gioia.

 

Pur dichiarandosi storico e pur applicandosi alla critica storico-sociale e culturale, Ivan Illich è stato filosofo nel senso più autentico e originario del termine. Ha realizzato la missione socratica della critica del linguaggio e di ogni forma convenzionalmente costituita, di ogni reificazione.

E’ stato più rivoluzionario dei rivoluzionari. Perché non ha mai permesso che alcuna affermazione sul mondo della vita prendesse il posto del mondo della vita. Denunciando sistematicamente con chiaro, vivo e amoroso intendimento ogni operazione che ottenesse quello scopo.

Per questo è stato il più implacabile critico di ogni istituzione di potere. Senza tuttavia cadere nella trappola anarchica, che conferma la politica ipostatizzandone la negazione.

Ogni suo scritto, ogni sua critica, ogni suo sforzo concettuale è stato un canto d’amore, un francescano inno alla vita, un’esortazione agli uomini a non farsi disumanizzare dalle loro stesse produzioni, foss’anche dall’idea di vita biologica.

Per lo più le esortazioni agli uomini in nome dell’amore e della giustizia si traducono anch’esse in costruzioni che si reificano e dunque in catene. Ma Illich si è guardato bene dall’indicare un metodo per la salvezza o un soggetto privilegiato per guidare gli uomini alla felicità.

Questo gli è stato spesso rimproverato, cioè di criticare senza un progetto, indicando soluzioni vaghe e in fondo qualunquistiche. Ma bisognava essere ben ottusi e sordi per non capire quale fosse il centro che la critica di Illich metteva in luce.

 

Il centro è riconducibile a questo: la critica del potere costituito nella sua struttura stessa, almeno come si manifesta nel moderno mondo occidentale. In alcuni momenti Illich ne ricostruisce la genealogia nella stessa storia della Chiesa, nel suo costituirsi come istituzionalizzazione della carità.

Il senso profondo della struttura di potere, quale specie in Occidente conosciamo e soffriamo, non è la repressione ma l’alimentarsi del mondo della vita, sottraendone di volta in volta aspetti, separandoli e riproponendoli in forma di amministrazione e controllo. Le moderne istituzioni si costituiscono a spese del mondo della vita, distruggendone gli intimi moventi, che Illich chiamava convivialità.

Ad esempio la lingua madre insegnata. La lingua materna che ogni essere umano venendo al mondo apprende per il fatto stesso di appartenere a un contesto che gli dona la sua forma culturale, ebbene quella lingua, appropriata da un  potere, codificata e normatizzata, viene reimposta in modo artificioso, gestendone monopolisticamente l’apprendimento e diventa una forma fondamentale di controllo degli individui.

Non importa se questo reinvestimento dall’alto verso il basso venga connotato in termini di dovere o di diritto: si tratta di semplici variazioni di punteggiatura. Quel che conta è che si costituiscono artificiosamente  bisogni, a cui la storia e il potere sembrano “naturalmente” rispondere  in  modo da legittimarsi costantemente.

E così valga per tutte le aree del sapere e della prassi, di cui le comunità vengono espropriate perché si formino quei corpi istituzionali che sono le articolazioni stesse del potere, come la salute, l’educazione, i trasporti, il tempo libero, i consumi, le aggregazioni stesse d’opposizione al potere.

 

Illich si è sforzato in ogni modo di svelare che il bisogno è l’inganno ordito da ogni e qualunque sistema di potere per imporre la sua colonizzazione della vita. Perché lo stato di penuria che spinge gli uomini al consenso è fasullo, frutto della rapina sistematica dei saperi, delle competenze, delle possibilità, delle capacità, nonché della gioia, che sono doti per così dire naturali e specifiche di ogni comunità umana di ogni tempo e luogo.

Incessantemente ha lottato contro l’idea, incalzante da ogni versante politico e culturale, di un mondo monodimensionale. Mostrando che i modi di vita, le economie, le invenzioni e i saperi conviviali sono vari, multiformi e molteplici come le lingue, e che per converso distruggere questa varietà e multiformità dell’essere umano come di quello naturale è un’operazione mortale, ben al di là delle analisi classiche sull’alienazione. Sempre esortando gli uomini di ciascun contesto a trovare proprio lì, nelle situazioni e condizioni loro specifiche, le idee e le risorse per sottrarsi alla rassegnata omologazione. E fare questo partendo proprio da un’analisi disincantata dei bisogni.

Vi si scorge l’influenza di Gandhi, di Polanyi, di Foucault, la familiarità con Fromm. Si possono ben vedere le generazioni dei Sachs, di Vandana Shiva e oggi Latouche. Si possono tracciare linee di ascendenza e discendenza, connessioni trasversali dentro tutta la cultura del ‘900. Ed è sicuro che quest’uomo casto e povero ha lasciato come il suo amato S. Francesco una filiazione straordinaria e generosa di cui non si percepisce l’esaurimento.

 

Poiché  dunque Illich concepiva l’intelligenza come parte della vita ed egli stesso si muoveva nella vita e nell’intelligenza come un pesce nell’acqua, mai avrebbe potuto proporre un metodo astratto, valido genericamente o addirittura universalmente, come l’analisi politica classica si compiace di fare riproducendo in nuove forme quell’alienazione che pure mette in luce.

Egli come Socrate metteva in guardia da ciò che non si deve fare, e questo è il senso della sua critica delle istituzioni. Con tenacia mise in guardia dalla seduzione di concepire la storia come fosse natura. E instancabilmente indagò  istituzioni, concetti, usi lessicali. Risalendone pazientemente  la genealogia fino a mostrare con precisione anatomica il momento e la procedura storica con cui la perversione possibile s’è imposta  con la sua  maliarda promessa di migliorare il mondo e al contempo renderlo più gestibile.

In questo mondo quasi annichilito dalla prassi ci ha daccapo mostrato quanto sia prezioso il lavoro del dotto. Di colui che parla a coloro che hanno bisogno di pensare perché amano la terra e il cielo. Del resto nella sua persona si riconosceva la vocazione moderna del pensiero critico che attraversa tutta la filosofia tedesca, o anche francese, ma al di là  si scorgeva l’umiltà del ricercatore scientifico e il genio analogico dello studioso medievale. Cioè  una mente per vocazione e convinzione universale.

Perché ciò che muoveva Illich e lo appassionava non era una qualche immagine o realizzazione dell’umano, ma lo spirito dell’uomo nella sua inesauribile, sorprendente creatività.

Come Gandhi traeva la sua ispirazione, tutt’altro che dall’adesione a un progetto storico, da una fiducia propriamente spirituale. La fiducia che il mondo naturale ed umano è già sempre così com’è la base perfetta per l’esplicarsi dello spirito nelle infinite forme dell’arte, della preghiera, del sapere e della condivisione.

 

di Cristiana Cattaneo