La ricchezza italiana nascosta dal mainstream è immensa. Il paradigma obsoleto della crescita impedisce di farci vedere le bellezze d’Italia, riscoperte solo nei fine settimana. Esistono tanti piccoli comuni (5693) dove vive il 17,2% della popolazione (più di 10 milioni di abitanti) ed alcuni di questi piccoli centri, ormai da tanti anni, hanno intrapreso un percorso politico-culturale opposto alle città inquinate e sovradimensionate. Esiste l’ass. piccoli comuni, esistono le città slow ed i comuni virtuosi. Un enorme patrimonio culturale è presente in questi piccoli centri che possono essere il volano della “civiltà contadina modernizzata“.

Se i fenomeni dell’urbanesimo e delle rivoluzioni industriali, giunte al termine, hanno distrutto le periferie delle città e rubato risorse umane ai piccoli centri, è giunto il momento di ritornare alla natura per immaginare centri urbani secondo regole di densità abitative equilibrate, e puntare alla conservazione dei territori tramite la gestione razionale delle risorse. Ci sono tanti centri che abbisognano di interventi urgenti di manutenzione, conservazione e progettazione ecologica al fine di introdurre servizi culturali, reti intelligenti, “smart grid” e mobilità sostenibile. La scelta di andare a vivere in piccoli centri raggiunge molteplici vantaggi: ridurre la densità di città sovradimensionate, spostare importanti risorse umane e aggiornare le conoscenze nei piccoli comuni per migliorare la qualità della vita, recuperare edifici abbandonati, rigenerare l’agricoltura con tecniche permaculturali, migliorare l’efficienza energetica e alzare il livello qualitativo dell’educazione anche nei piccoli centri.

Un piano nazionale di riuso e recupero deve concentrare risorse per porsi l’obiettivo strategico di rivitalizzare i piccoli centri, e trasformarli in luoghi sostenibili, alcuni di questi centri sono già un’eccellenza come i piccoli borghi. Sembra evidente che un piano del genere inventa nuova occupazione in attività socialmente utili e restituisce dignità all’identità storica nazionale: nuova agricoltura per l’autosufficienza, efficienza energetica, recupero dell’edilizia esistente e rigenerazione dei piccoli centri danneggiati dell’urbanesimo delle grandi città. L’idea  è quella di avviare l’economia della sussistenza in luoghi favorevoli poiché non c’è alcun bisogno di fare industria, ma c’è bisogno di ricollocare il fare economia nel suo ambito naturale, cioè produrre per i bisogni reali e non per i capricci delle SpA.

La decrescita felice è la diminuzione del consumo di merci che non sono beni, cioè la riduzione degli sprechi, ma occorre sviluppare le tecnologie adeguate, una proposta ragionevole è quella di portare tali tecnologie nei piccoli centri. Ad esempio, non sono beni: l’energia che si spreca, la benzina che si consuma nel traffico, il cibo che si butta, e tutti questi sprechi fanno alzare il PIL ma peggiorare la qualità della vita. La cultura contadina tipica dei piccoli centri ha il valore in se di non produrre merci ma solo beni. E’ meglio valorizzare tale cultura, anziché disprezzarla com’è accaduto negli ultimi trent’anni, e impedire che sia contaminata dalla religione della crescita.

di Peppe Carpentieri