Inquinano tanto da essere considerati fuorilegge, ma continuano a produrre. In Italia gli impianti che non hanno ancora ricevuto l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), la licenza necessaria per uniformarsi ai principi dettati dalla Comunità europea, sono 19: acciaierie, raffinerie, centrali elettriche. Che, in deroga – di fatto – alle direttive comunitarie, da anni continuano la loro attività senza averne più il permesso. A dirlo è l’ultimo dossier di Legambiente, Mal’aria industriale, che oltre a indicare i Siti di interesse nazionale (Sin) – le aree contaminate più pericolose che lo Stato vuole bonificare – ricorda come per queste eclatanti infrazioni l’Italia sia stata condannata ancora una volta dalla Corte di giustizia europea. Risultato? Più lavoro per pochi, più inquinamento e penali da pagare per tutti. Del resto, fare profitti a spese dei cittadini e della loro salute sembra la regola, non solo a Taranto.
Niente Autorizzazione integrata ambientale? Si produce comunque – Dovevano ricevere l’Aia entro il 2007, ma così non è stato. Per 19 impianti italiani, alcuni considerati fra i più inquinanti d’Europa, la “grazia” concessa lo scorso ottobre all’Ilva di Taranto dal Ministero dell’Ambiente per continuare a produrre non è mai arrivata. Niente autorizzazione, fine delle attività? Non proprio, perché questi impianti hanno continuato come se niente fosse. Non da ieri, ma dal 2008, anno in cui la Commissione europea ha avviato nei confronti del Belpaese la procedura di infrazione, trasformatasi in condanna da parte della Corte di giustizia nel marzo 2011. Il lavoro (e il profitto) prima di tutto, insomma, alla faccia del degrado ambientale, dei danni alla salute e delle sanzioni applicate all’Italia e ai suoi contribuenti. A finire sotto la lente di Legambiente, dieci stabilimenti chimici, sei centrali termiche, due acciaierie e una raffineria petrolifera: tutti impianti che, proprio per ottenere l’Aia, dovrebbero rispettare i requisiti della Direttiva 96/61/CE, meglio nota come Ippc (Integrated Pollution Prevention and Control).
Non solo Taranto – Fra gli impianti più impattanti a livello sanitario, alcuni sono già noti alle cronache, altri sono rimasti quasi sempre nell’ombra. Ad esempio il polo petrolchimico siciliano di Gela (leader italiano delle emissioni di ossidi di zolfo e di mercurio), quello di Sassari e quello Eni di Priolo, in Sardegna. Spicca poi lo stabilimento chimico Tessenderlo a Pieve Vergonte (Verbania), “uno degli ultimi impianti clorosoda – fa presente Legambiente – che utilizza ancora la tecnologia a mercurio”. E che, presume l’associazione, proprio per questo potrebbe comunque chiudere presto. Sotto accusa anche l’industria siderurgica Lucchini Spa di Piombino, in Toscana, e l’impianto di produzione di acido solforico di Portovesme, in Sardegna. A livello di produzione di energia, invece, oltre ai vari impianti Eni elencati nel dossier non potevano mancare le centrali a carbone Enel di Porto Marghera, La Spezia e Porto Tolle (quest’ultima in fase di conversione da olio a carbone).
“C’è una certa urgenza di fare ottenere a questi impianti l’Aia”, afferma Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente: “Noi seguiremo i procedimenti impianto per impianto, affinché ci siano tutte le garanzie e le autorizzazioni non vengano rilasciate solo formalmente. L’intento è quello di rilanciare e migliorare gli impianti stessi, perché non è possibile che continuino la loro attività senza autorizzazione – aggiunge Zampetti – Ci sono impianti, come quelli di Gela, che hanno un impatto tale che sarebbe meglio agire con la massima urgenza possibile”.
L’innovazione, unione tra industria e ambiente – “Abbiamo fatto questo dossier per evidenziare che l’Ilva non è l’unico caso di questo tipo in Italia”, spiega il responsabile scientifico di Legambiente: “Certo quello è il caso più eclatante e più grave. Ma attenzione, perché in Italia se si parla di Autorizzazioni integrate ambientali ci sono ancora tantissimi problemi irrisolti”. Per Legambiente, però, il problema va ben oltre l’Aia: è tutto il sistema industriale che deve cambiare, se vuole sopravvivere. “La direttiva Ippc ha la valenza di porre come obbligo il rinnovamento tecnologico degli impianti, portando da una parte al miglioramento delle condizioni ambientali, al risparmio di acqua e di energia ed al conseguente calo dei costi di produzione, dall’altra alla possibilità di essere competitivi”, aggiunge Zampetti: “Di fatto le trasformazioni previste dalla Ippc, a partire dall’utilizzo delle migliori tecnologie possibili, porterebbero a fenomeni di innovazione, rilancio industriale e ottimizzazione delle risorse”.
Ma affinché ciò possa avvenire, lo strumento dell’Aia deve essere utilizzato “in modo rigoroso” in tutti i siti in questione, e le autorizzazioni non dovrebbero più essere rilasciate “in maniera troppo frettolosa”. Del resto, “il rilancio del comparto industriale italiano deve passare per forza da questo processo di innovazione”, sottolinea Giorgio Zampetti, convinto del fatto che, nella situazione globale attuale, l’unica possibilità per un Paese come l’Italia per distinguere la propria industria da quella dei Paesi emergenti sia il miglioramento tecnologico, e con esso quello delle condizioni ambientali. “Sono ancora pochissimi gli esempi di chi in Italia ha deciso di investire in progetti di innovazione tecnologica e di metodi di produzione eco-compatibili”, conclude Zampetti: “Ma quei pochi sono la dimostrazione che questi portano decisamente a dei buoni risultati”.
di Andrea Bertaglio
Fonte: ilfattoquotidiano.it