Ogni ideologia crea, per sua stessa natura un sistema di riferimenti culturali coerenti con la propria visione del mondo. L’ideologia da cui è sorta la civiltà moderna, che la sostiene e dalla quale è sostenuta, si basa sul mito del dominio del mondo, su quello dell’infinito progresso e sull’infinita crescita materiale ed economica come strumenti di questo dominio. Ogni ramo di questo albero ideologico proviene dallo stesso fusto e non può che avere gli stessi geni e la stessa natura, è fatto a “sua immagine e somiglianza”.
Un tempo l’arte celebrava la gloria di Dio (di qualsiasi Dio si trattasse), il suo modello era l’infinita teofania, ovvero il cosmo come imperfettibile manifestazione della perfetta sapienza demiurgica. L’artista -o artefice o artigiano: non v’era differenza, allora-, nel compiere l’opera, si ispirava all’infinita perizia del Grande Architetto dell’Universo, lasciava che la sua anima entrasse in sintonia con l’armonia del cosmo, cercava di trovare in sé l’immagine specchiata della bellezza che informa la trama del creato, per poterla inverare attraverso l’opera delle proprie mani. L’arte è la bellezza eterna colta dallo spirito dell’uomo nelle sue creazioni o, come diceva Tommaso D’Aquino, la “Recta Ratio Factibilia”: “il modo giusto di fare le cose”.
Cosa è rimasto oggi di quest’antica concezione? Nulla, oseremmo dire. Oggi l’arte non è più ispirata dalla bellezza cosmica, dall’”armonia delle sfere”, ma è divenuta l’araldo dei tempi, dell’eterna mutevolezza, dell’arbitrarietà del divenire, delle “magnifiche sorti e progressive”, stigmatizzate con malinconica ironia da Leopardi.
Oggi l’arte è “creatività” (parola abusata di significato assai incerto) “tendenza”, “dissacrazione”, “rottura”, progresso, allo stesso modo in cui è dissacrazione, rottura, progresso un viadotto automobilistico o un treno ad alta velocità rispetto ad una pieve romanica.
La stessa storia dell’arte ipostatizza questo progresso, e si rende, in questo modo, responsabile di un curioso pregiudizio etnocentrico (o, per dirla in termini un po’ più rudi, di “razzismo culturale”), perché essa decide così di considerare come arte solo quella che si è fatta protagonista di questo moto progressivo, ovvero quella che si è sviluppata nell’ambito della cosiddetta “civiltà occidentale moderna”.
Di fatto, fino ad un passato recente, i quattro quindi dell’umanità avevano (e molti hanno ancora) una concezione dell’arte assai differente, che non postula affatto questo progresso. Basti guardare alle opere che provengono da questi differenti mondi: gli stupa e le pagode buddhisti, i thangka tibetani, i templi indù, persino le moschee. In tutti questi casi si può ancora riconoscere una visione tradizionale dell’arte, che non è stata affatto toccata dalla visione progressista.
In questo contesto si inserisce il discorso su “arte e decrescita”. “Decrescita”, nella nostra accezione non significa soltanto quella mera promozione della frugalità volontaria e della riduzione dei consumi, cui viene ridotta dalla vulgata comune, ma comporta un’autentica rivoluzione di pensiero ma, come scrisse Andrè Gorz ” essa suppone un’altra economia, un altro stile di vita, un’altra civiltà, altri rapporti sociali “[1]
Senza una radicale trasformazione dei modelli immaginali da cui è retto questo mondo, rimarremmo sempre nell’ambito delle “utopie salvifiche” cui abbiamo accennato nella prima parte di questo capitolo che, come tali sono difficilmente realizzabili. E’ pertanto necessario, un diverso orientamento del pensiero e della vita che sia totalmente avulso dall’ideologia malata della nostra morente civiltà.
La Decrescita si propone di ridiscutere interamente il paradigma culturale su cui basa lo spirito della modernità, ed è per questo che è necessario parlare dell’arte, poiché essa, nella sua accezione attuale, come tante altre branche dello scibile e delle attività umane, è inserita nel monocorde universo di questa ideologia, ne è una componente essenziale.
Come scrisse Max Horkheimer: “Un tempo, l’arte, la letteratura, la filosofia si sforzavano di esprimere il significato delle cose e della vita, di dare voce a tutto ciò che è muto, di dotare la natura di un organo grazie al quale essa poteva rendere note le sue sofferenze o, potremo dire, di chiamare la realtà col suo vero nome. Oggi alla natura è stata tolta le facoltà di parlare. Una volta si credeva che ogni frase, parola, grido o gesto avesse un intrinseco significato; oggi sono solo un incidente”[2]
Pier Paolo Dal Monte (Referente Cultura Mdf)