Il crollo del mercato dell’auto, il “diritto” alla mobilità, il tempo

da | 21 Feb 2013

“L’automobile ha sempre contraddistinto l’Italia nel mondo, ma oggi gli italiani mostrano preoccupanti segni di disaffezione verso il proprio veicolo.” (Angelo Sticchi Damiani, presidente dell’ACI) (1)

Il presidente dell’ACI non è l’unico a essere preoccupato per l’incipiente “disaffezione” motoristica degli Italiani. Anche altri mezzi d’informazione, meno di parte, lanciano il proprio grido d’allarme per il calo delle vendite di auto, effetto evidente della crisi economica (2).
In Italia, però, ci sono più di sei autovetture ogni dieci abitanti. Se il tasso di motorizzazione italiano, che è uno dei più alti al mondo, divenisse lo standard globale, l’attuale miliardo di autoveicoli circolanti sul pianeta ne risulterebbe più che quadruplicato.
Una prospettiva terrificante, pensando anche solo alle conseguenze climatiche: tale da rendere la Terra un luogo assai poco ospitale per la specie umana.
Nel nostro orticello italiano, tuttavia, questi sono considerati allarmi catastrofisti, lontani dai problemi quotidiani della gente. Sicuramente la tecnologia risolverà anche questo problema, regalandoci veicoli che muoveremo col semplice pensiero, che emetteranno Chanel n. 5 e che si smaterializzeranno alla fine del tragitto, così da non occupare metà della superficie delle nostre città.
L’opinione pubblica – non solo chi lamenta il crollo del mercato automobilistico – sembra avere una percezione distorta dei costi sociali della “macchina”. Ci si rende poco conto di quanto la motorizzazione di massa – nell’ultimo mezzo secolo – abbia ridisegnato le nostre città, colonizzato le nostre menti, deteriorato la qualità delle nostre vite. Pare importi poco che costruire cento metri di strada costi un milione di euro delle nostre tasse. Si accetta come inevitabile effetto collaterale che qualche migliaio di vite umane si spezzi sull’asfalto, ogni anno, e che molte di più restino segnate da un’invalidità (3). Si riflette poco sul numero delle persone che si ammalano – spesso per non guarire più – a causa dell’inquinamento da traffico.
Forse anche il presidente dell’ACI, quando è al volante, si sente legittimato a insultare qualunque sconosciuto. Perché la strada rappresenta una situazione in cui si è portati a esprimere aggressività. Gli altri utenti, con la loro semplice presenza, sono nostri potenziali concorrenti nella lotta per lo spazio: ci intralciano se vanno troppo piano, ci “rubano” il posto nel parcheggio. E ci sottraggono il nostro tempo: ci fanno arrivare in ritardo agli appuntamenti, per cui ci innervosiamo ancora di più e diamo in escandescenze a ogni pretesto.
Poiché l’auto è anche tutto questo, non mi dispiace se ne girano meno. Pur esprimendo la mia solidarietà verso i lavoratori FIAT. Così come non mi rattristo se la gente fuma meno di prima, pur provando compassione per chi mantiene le proprie famiglie fabbricando sigarette. E mi rallegrerei se diminuissero le guerre, pur sapendo che chi produce armi rischierebbe il posto di lavoro.

SIAMO MOBILI QUAL PIUMA AL VENTO…
Diminuisce pure il numero degli spostamenti, ma neanche questo riesce a impensierirmi, dopo decenni di crescita drammatica. Abbiamo raggiunto una tale facilità di movimento, una tale assuefazione all’aumento delle distanze, che consideriamo normale percorrere cento chilometri per andare al lavoro e tornare, per una cena, per un giro in un outlet.
Pendolarismo e turismo sono diventati fenomeni di massa. Il viaggio – soprattutto quello aereo – si è trasformato da evento occasionale ed elitario a esperienza ordinaria e comune. Oggi dunque è un comportamento diffuso prenotare “on-line” un volo “low-cost” per passare un “week-end” in una capitale europea, per partecipare a un “workshop”, per incontrare un “partner”, per andare a fare “shopping”… tutto molto “smart” e alquanto “cool”! L’aeroporto di Bergamo, in pochi anni, è diventato il quarto d’Italia proprio grazie alle compagnie a basso costo. E c’è chi vi arriva da Londra e riparte in giornata, pagando il viaggio aereo quanto il biglietto di un bus extraurbano, solo per una puntatina a Oriocenter, il mega centro commerciale posto proprio di fronte all’aerostazione.
Si sente spesso ribadire il “diritto alla mobilità”: come un principio inalienabile, la risposta a un fondamentale bisogno umano. Ma non sarebbe altrettanto importante salvaguardare il “diritto all’immobilità”, cioè la libertà dagli spostamenti forzati? Il diritto a lavorare e a fare acquisti vicino a casa, nonché a trovare nei negozi prodotti che non provengano dall’altra parte del mondo.
Secondo Mauro Moretti, amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato, l’Italia è “l’unico paese del mondo civile che regala un miliardo di euro all’anno ai camionisti”. Certo, sarebbe una gran cosa spostare una buona quota di merci dalla strada alla ferrovia, come auspica Moretti, ma sarebbe ancora meglio non spostarla affatto! Che senso ha bere acqua minerale Levissima a Roma e Fiuggi a Sondrio? (Se però vogliamo dirla tutta, che senso ha bere acqua in bottiglia, sia a Roma che a Sondrio?)
Più che persone e merci, sarebbe utile far circolare idee, progetti, buoni esempi. Oggi le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ci offrono meravigliose opportunità per ampliare il nostro orizzonte culturale, senza spostarci fisicamente. Sono inoltre impagabili per tenere frequenti contatti con le persone lontane, mentre è inquietante che finiscano spesso per sostituire il rapporto diretto con quelle vicine. Perché – si interrogava in tempi non sospetti un noto comico, poi divenuto politico – due nazioni si vendono reciprocamente quantitativi equivalenti di biscotti, quando potrebbero scambiarsi le ricette?
Per soddisfare la domanda di mobilità delle persone e delle merci, che si suppone debba crescere sempre più, si invoca il potenziamento delle infrastrutture e l’incremento dell’offerta di trasporto. E’ il medesimo approccio che spinge a fronteggiare l’aumento dei rifiuti costruendo nuovi impianti di smaltimento, oppure a inseguire l’impennata dei consumi di elettricità realizzando nuove centrali.
Da qualche anno, tuttavia, si parla molto anche di “mobilità sostenibile”. Vi rientrano variegate forme di trasporto collettivo (in particolare quelle meno tradizionali, come servizi a chiamata, taxi collettivo e BRT), sistemi di condivisione dell’auto (car sharing, car pooling, Jungo…), tecnologie per ridurre consumi ed emissioni (motori elettrici, ibridi, a GPL, a metano, a idrogeno…)(4) e altro ancora. Tutto ciò è molto interessante, ma – per tornare all’esempio dei rifiuti e dell’energia – equivale alla raccolta differenziata e alle fonti rinnovabili. Rappresenta quindi solo il secondo livello di intervento, mentre il primo è quello che va alla radice del problema: la prevenzione, nel caso dei rifiuti (cioè tutte le misure che consentono di evitarne la produzione); l’eliminazione degli sprechi e l’aumento di efficienza, nel caso dell’energia. Perciò, se si vuole ridurre il traffico, bisogna anzitutto analizzare la domanda di mobilità per tentare di tagliare quella non indispensabile (5).
Perché ci muoviamo? Per lavoro, per svago, per socializzare, per turismo… ma non sempre perché lo vogliamo. Molti dei nostri spostamenti sono imposti dalle scelte politiche del legislatore e degli amministratori locali, dalle previsioni dei pianificatori territoriali e degli urbanisti, dalle strategie aziendali obbedienti alle regole del mercato. Il pendolarismo coatto è spesso automobilistico, non solo a causa di quella dipendenza culturale italiana tanto cara al presidente dell’ACI, ma anche perché le sedi e gli orari di lavoro sono incompatibili con qualsiasi altro mezzo di trasporto. Considerato che acquistare e mantenere un’automobile costa annualmente quanto cinque stipendi mensili di un operaio, non è esagerato affermare che molti di noi – per quasi metà dell’anno – sono sottoposti a lavori forzati per conto dell’industria automobilistica.
Ci sono poi spostamenti apparentemente liberi, ma in realtà frutto di un condizionamento: la creazione di “bisogni indotti” influenza quindi anche la congestione stradale, oltre ad alimentare il consumismo compulsivo e la produzione di rifiuti. E proprio come nel caso dei rifiuti, vi è una responsabilità condivisa tra istituzioni, aziende e cittadini nell’attuare misure di prevenzione. Da una parte, si possono evitare spostamenti superflui attraverso il telelavoro, le videoconferenze, l’informatizzazione dei rapporti tra utenti e pubblica amministrazione. Dall’altra, attraverso il “consumo critico” di mobilità, che ognuno può esercitare includendo la distanza e l’accessibilità tra i criteri ispiratori delle proprie scelte. In pratica, ciò può significare fare la spesa nei negozi di prossimità, anziché presso l’ipermercato fuori città (dove la convenienza economica è solo illusoria, poiché viene annullata dai costi dello spostamento in auto, mai realisticamente percepiti). Oppure considerare la provenienza dei prodotti che si acquistano, preferendo quelli “a km 0”. O ancora – quando si cerca un determinato servizio – verificare se non vi sia una possibilità “dietro l’angolo” (spesso, inaspettatamente, c’è), o comunque raggiungibile senza dipendere dall’auto.

IL CAMMINO E’ LA META…
Un ambito in cui esiste un buon margine di discrezionalità individuale è quello turistico.
“Il vero viaggio di scoperta – scriveva Marcel Proust – non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.” Le vacanze sono uno status symbol, proprio come l’automobile, e più una meta turistica è distante, più è fascinosa e ambita. Spesso, però, si aspira ad andare lontano senza conoscere i luoghi vicini, mentre l’ex Bel Paese, benché martoriato, continua a riservare innumerevoli splendide sorprese.
Non voglio demonizzare il viaggio di per sé, perché conoscere paesaggi, popoli, modi di vivere diversi dal proprio ha sempre rappresentato un potente strumento di arricchimento personale e di apertura mentale. Già, ma quale viaggio? Oggi questa fondamentale esperienza umana è banalizzata. Quanto consentono di entrare nello spirito di una nazione e del suo popolo i pacchetti “tutto compreso”, i villaggi vacanza, le crociere stile Costa Concordia, i tour toccata-e-fuga che transitano da sette capitali in sette giorni? Ho il sospetto che si possa carpire (e capire) assai di più leggendo qualche buon libro sull’argomento.
D’accordo: i viaggi alla Marco Polo non sono più possibili; forse nemmeno quelli in autostop degli anni settanta. Ma il “turismo responsabile” cerca proprio di offrire un’alternativa all’approccio consumistico, e per essere tale dovrebbe porre attenzione anche ai mezzi di trasporto utilizzati.
Il problema è che vogliamo sempre arrivare sul posto prima possibile, nel modo più veloce e senza noiose attese intermedie, perché i tempi “di trasferimento” non ci sembrano già parte della vacanza e degni di essere vissuti pienamente (osservando, ascoltando, meditando, conversando, leggendo, pregando, facendo esercizi mentali e propriocettivi…). Siamo all’opposto della saggezza orientale che identificava il cammino con la meta. Oppure della cultura africana, secondo cui – se siamo andati troppo veloci – dobbiamo fermarci ad attendere che le nostre anime ci raggiungano.

TEMPO TIRANNO
La mancanza di tempo – reale o presunta – condiziona la sostenibilità delle nostre scelte. La fretta non è mai stata una buona consigliera, ma insieme alla pigrizia è ciò che ci spinge a prendere l’auto, invece della bici, anche per spostamenti ridicoli (6). E’ ciò che ci fa afferrare di corsa, in un supermercato, un sacchetto di insalata già lavata e tagliuzzata, un cibo in scatola precotto, una confezione di surgelati. Senza pensare al prezzo maggiore, alla provenienza, all’imballaggio che a casa diverrà un rifiuto, all’energia richiesta. Il poco tempo a disposizione ci fa scegliere l’aereo anziché il treno o il traghetto, perché è improponibile sprecare due giorni in viaggio su una settimana di vacanza.
La mancanza di tempo compromette anche i rapporti sociali. Ci fa scrivere e-mail sgrammaticate mentre rispondiamo distrattamente al telefono e scorriamo con gli occhi (fraintendendolo) il documento che ci hanno appena posato sulla scrivania. Ci illudiamo di “guadagnare tempo” sbrigando più faccende insieme… e tutte male, perché l’uomo non è nato per il multitasking.
Ma che cosa abbiamo di così importante da fare, nel tempo che pensiamo di risparmiare evitando di lavare l’insalata? Forse dobbiamo lavorare, per guadagnare il denaro che ci serve per pagare il prezzo della confezione, cinque volte maggiore di quello del cespo sfuso? Oppure dobbiamo fare da tassisti ai figli, dopo averli iscritti a scuole, palestre e corsi vari tutti irraggiungibili senz’auto? Abbiamo magari da pubblicare un pensierino sul libro delle facce, o semplicemente guardare in pace la TV? Se lo facciamo per tre-quattro ore al giorno, ogni settimana trascorriamo una intera giornata a fissare uno schermo. Per un cinquantenne, ciò significa avere dedicato più di sette anni della propria vita a un elettrodomestico.

SCELTE DECRESCENTI
La nostra società celebra la mobilità, la velocità, la possibilità di accelerare i ritmi di vita. Ci sono però anche voci fuori dal coro. C’erano già quarant’anni fa, quando Ivan Illich scriveva “Elogio della bicicletta” ed evidenziava come la velocità media dell’automobile, se si considerasse il tempo di lavoro necessario per acquistarla e mantenerla, sarebbe di 6 Km/h. Quella di un buon passo.
Oggi, forse, queste voci alternative stanno aumentando, ad esempio tra gli obiettori di crescita. Almeno tre delle otto “R” di Latouche ben si applicano al tema della mobilità: Rivalutare (le opportunità vicine, la bicicletta…), Rilocalizzare (il lavoro, gli acquisti, gli interessi…), Ridurre (le distanze percorse, la benzina consumata, l’occupazione di spazio pubblico, i gas di scarico, la congestione stradale, il rumore, lo stress, le vittime, i tumori, i costi sociali occulti dell’auto e quelli personali, insieme al lavoro necessario a pagarli). Altre ne potremmo aggiungere, attraverso scelte personali decrescenti: Riscoprire, Rallentare, Riappropriarci del nostro tempo, Rifiutare la dittatura dell’industria automobilistica e la sua pubblicità invadente.
Un mio collega ha declinato una proposta di abbonamento promozionale scontato al tram: è impensabile fare a meno dell’auto per venire al lavoro in auto, con tre bambine piccole a casa. Ma anche avere tre figli è una scelta. Come vivere in una grande città. Come accettare un lavoro più redditizio, ma più lontano.
Un’altra collega, che ha la fortuna di abitare a due chilometri dall’ufficio, ha deciso di venirci a piedi. Ha letto che l’OMS raccomanda trenta minuti quotidiani di attività fisica per restare in salute e così si ritrova la prescrizione già ottemperata, risparmiando il costo della palestra dove andava a fare la cyclette. Evita inoltre, inconsapevolmente, di spendere circa cinquecento euro all’anno, per quell’innocuo spostamento (casa-lavoro-palestra-casa) di soli cinque chilometri al giorno. Non se ne rendeva conto perché il costo dell’auto è dilazionato, ma la gente – quando lo raffronta alle tariffe dei mezzi pubblici – si ricorda di averne pagata solo l’ultima rata, cioè il carburante.
Grandi “scelte di vita”, accanto a tante piccole altre, compiute quotidianamente, che nell’insieme caratterizzano uno “stile di vita”. Scelte controcorrente, incomprese, osteggiate, ridicolizzate, a volte semplicemente ignorate. Che tuttavia conducono verso altre “R”: Rinunciare alla frenesia, per Resistere alla follia.

NOTE
(1) L’articolo, dal significativo titolo “Basta manovre SULL’AUTO serve una manovra PER L’AUTO”, è pubblicato sull’ultimo numero di Ondaverde, rivista dell’Automobile Club d’Italia (n.140, nov/dic 2012).
(2) L’Italia ha registrato nel 2011 uno storico sorpasso: il numero delle biciclette vendute ha superato di 2000 unità quello delle auto immatricolate.
(3) Un solo dato, che dovrebbe far pensare: ogni giorno, nel nostro Paese, due persone vengono uccise e trenta ferite mentre attraversano la strada sulle strisce pedonali.
(4) Al riguardo, non è superfluo ricordare che una buona parte delle polveri sottili imputabili al traffico non esce dai tubi di scappamento, ma è generata dal semplice movimento degli autoveicoli sull’asfalto e dall’abrasione dei freni, indipendentemente dal tipo di carburante.
(5) Anche al campo della mobilità, purtroppo, si applica il noto “effetto rimbalzo”: l’aumento di efficienza sollecita la crescita della domanda, che finisce per azzerare i potenziali benefici. Chi compra un’auto che consuma e inquina meno della precedente si sentirà legittimato a usarla più di prima; la costruzione di una nuova strada riduce inizialmente i tempi di spostamento, ma ciò attira nuovi utenti e invoglia a raggiungere mete più lontane, generando ulteriore traffico.
(6) Gli spostamenti urbani inferiori a 5 Km rappresentano oltre la metà di quelli effettuati quotidianamente, con mezzi motorizzati, in Italia. Sono pure quelli in cui è ampiamente dimostrato che la bici arrivi a destinazione prima dell’auto.

Gloria Gelmi

Fonte: Decrescita Felice Social Network