Antonio Gramsci definiva ‘rivoluzioni conservatrici’ quei cambiamenti che attingono da idee radicali e innovative allo scopo di annacquarne la portata rivoluzionaria, secondo il motto gattopardesco di ‘cambiare tutto per non cambiare niente’: Gramsci aveva in mente idee come il socialismo e ‘rivoluzioni conservatrici’ come il dirigismo fascista o il new deal rooseveltiano, oggi possiamo vedere nel capitalismo della green economy una diluizione del pensiero ecologista; e domani possiamo essere sicuri che anche la decrescita subirà lo stesso trattamento.
Al di là del fracasso mediatico, esistono documenti redatti dall’establishment mondiale (FMI, IEA, banche) che testimoniano la preoccupazione della fine dell’economia della crescita così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi sessant’anni. Ma mi ha colpito soprattutto un libro, scritto dal sociologo Giampaolo Fabris e intitolato La società post-crescita. Consumi e stili di vita, edito nel 2010 da Egea Editore. Sento un forte disagio perché nello stesso anno, purtroppo, Fabris è morto e siccome la mia analisi è piuttosto critica può sembrare vigliacco indulgere nella valutazione negativa; tuttavia, siccome Fabris in vita non temeva di esprimere giudizi radicali – cosa che torna sicuramente a suo onore – immagino che non avrebbe avuto nulla da ridire sul fatto che si replicasse con la sua stessa verve polemica.
Per altro il libro di Fabris, nella sezione introduttiva, rappresenta forse la miglior analisi critica della società della crescita, con una precisione documentaria che fa letteralmente impallidire Latouche o Pallante; la sua accurata analisi del fenomeno del consumo – fortemente influenzata da Baudrillard e Bauman – presenta aspetti inediti e interessanti. Tuttavia, pur criticando il concetto di crescita infinita condividendo la diagnosi dei decrescenti, Fabris non vuole essere assolutamente accomunato a loro, essendo la decrescita una visione “all’insegna del fermate il mondo voglio scendere”, “prospettiva utopica e conservatrice”, una romanticheria intrisa di “inattuale economicismo”, un “fondamentalismo accecato dell’utopia” in cui le varie correnti sono ossessionate da “l’abbattimento dell’odiato capitalismo”, capaci solo di ipotizzare “uno scenario claustrale, un po’ ‘polpottista’”, “nuovi Savonarola” il cui comune denominatore è “la vocazione masochistica all’ascetismo”, “il massimalismo scostante, talebano che mette in discussione ogni ambito della vita quotidiana per riportarlo a una sorta di stato di natura, di cultura preindustriale additata a modello di buon vivere”, “l’ostracismo nei confronti delle imprese multinazionali ma, più in generale, delle imprese tout court” e il “rigore di stampo superegoico” (i virgolettati sono tutti affettuosi apprezzamenti pazientemente copiati dal libro).
Insomma, non si capisce bene se Fabris abbia scambiato i sostenitori della decrescita con i monaci stiliti o gli anarco-primitivisti alla John Zerzan: siccome in bibliografia compaiono libri di Latouche e Pallante, viene da pensare che non li abbia letti bene o ne abbia dato un’interpretazione molto personale e interessata (onestamente, propendo di più per la seconda possibilità).
Nonostante queste premesse, ritengo la pubblicazione di quest’opera un fatto positivo e ne consiglio addirittura la lettura, soprattutto in considerazione della natura ben poco rivoluzionaria o eterodossa del suo autore, un sociologo che esprime una velata simpatia per Romano Prodi e che definisce se stesso una persona “con comportamenti di voto orientati prevalentemente a sinistra” e attento a un “rigoroso rispetto dei principi democratico liberali in politica e sostanzialmente liberisti in economia” e allergico alle due chiese secondo lui dominanti nel nostro paese, quella cattolica e quella marxista. Se un’istituzione come lo IULM – dove Fabris insegnava sociologia dei consumi – stipendiava l’opera di un ricercatore che, numeri alla mano, denuncia le storture legate al PIL e alla crescita, segnala il lato oscuro dello sviluppo, condanna i guasti dell’iperconsumo e di uno sviluppo tecnologico incontrollato (in modo molto più documentato e scientifico di tanti fautori della decrescita), allora c’è di che rallegrarsi: significa che certe preoccupazioni sono giunte anche all’interno dell’establishment e che si stanno cercando delle soluzioni, anche se lo scopo è di mantenere il più possibile inalterato lo status quo. La post-crescita di Fabris si differenzia profondamente dai soliti sproloqui sulla ‘economia sociale di mercato’ perché non si limita a tratteggiare un caritatevole paternalismo dell’élite economica ma dichiara la necessità di una trasformazione dove anche i potenti dovrebbero fare importanti concessioni. Benché lo scopo di fondo sia di salvare il capitalismo tentando di emendare le sue più evidenti criticità, e per quanto le proposte di Fabris difficilmente sarebbero sufficienti per la sostenibililità ambientale e sociale, l’implementazione di molte idee rivolterebbe come un calzino la società attuale, permettendo forse un ‘traghettamento’ nella decrescita vera e propria: facendo buon viso a cattivo gioco, ci si potrebbe appellare alla versione ‘light’ degli ideali decrescenti rivisitati da Fabris (elogio della lentezza, decolonizzazione dell’immaginario, riscoperta del saper fare, rilocalizzazione della attività produttive ecc.) per dare maggior forza alla loro lettura più radicale.
In realtà, a parte i fraintendimenti più o meno intenzionali, la vera distanza tra i decrescenti e Fabris sta nel fatto che questi non riesce a elaborare una visione ispirata al bene comune, rimanendo sostanzialmente ancorato al liberal-liberismo, cosa che forse lo ha reso compatibile con ambienti di lavoro come lo IULM e l’università Vita-Salute San Raffaele. Nel primo capitolo, ad esempio, Fabris rabbrividisce alla proposta di Latouche di una scelta comunitaria di mettere un limite al possesso di paia di scarpe, bollandola come ‘polpopista’ (parola a lui molto congeniale, visto che è ripetuta più volte nel testo). Fabris crede nella positività dell’intervento statale “che comunque non stravolge le regole del mercato e, per quanto riguarda i consumatori, non trasformi la libera scelta in obbligo (il corsivo è nel testo, n.d.a): i nuovi comportamenti devono essere la risultante di una raggiunta consapevolezza, non di norme o limiti che vengono imposti dall’esterno” (pag. 71). Una presa di posizione in perfetto stile liberale a cui apparentemente si potrebbe obiettare solo con un atteggiamento autoritario.
Voglio replicare a questa posizione raccontando un aneddoto tratto dalla mia carriera di docente di scuola superiore. Un giorno all’uscita di scuola vedo un mio alunno con un ciclomotore che con l’acceleratore ‘sgasava’ imitando gli assi del motociclismo. A quel punto chiesi scherzando a Luca – questo il nome dello studente – se per caso la benzina gli venisse regalata, visto che la stava sprecando per niente. Luca, in una inconsapevole professione di credo liberale, in modo educato ma fermo mi rispose: “Prof, la benzina l’ho pagata io” e conseguentemente ne faccio quello che mi pare, anche sciuparla. Luca era un bravo ragazzo dell’istituto alberghiero ma dubito che conoscesse il concetto di picco del petrolio o immaginasse il vorticoso giro compiuto dalla benzina prima di finire nel serbatoio della sua moto, il petrolio estratto in zone di guerra o in territori requisiti alle popolazioni indigene, la corruzione da parte delle multinazionali petrolifere, la violazione dei diritti umani e le improbe condizioni di lavoro nei pozzi, gli inquinanti processi di trasporto e raffinazione, ecc.. È invece presumibile che tutte queste cose fossero ben note a Fabris. Se, coerentemente con una visione liberale, la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri, allora è inevitabile chiedersi se un eccesso di prosperità materiale di alcuni o certi comportamenti non sostenibili impediscano ad altri un benessere sufficiente e dignitoso.
Per uscire dalla polemica sul libro e sul suo autore, non posso fare a meno di pensare all’espressione che sintetizza al meglio l’idea della decrescita, cioé “meno e meglio” di Maurizio Pallante, che deve rimanere un’importante orizzonte sociale e politico da non perdere mai di vista. Penso che i sostenitori della decrescita debbano distinguersi non tanto per l’enfasi sul ‘meno’ – che riesce abbastanza facile, come abbiamo visto, anche a persone con sensibilità molto diversa – ma sul ‘meglio’ inteso come necessità di cambiare una società che sarebbe ingiusta e insostenibile a prescindere dai limiti naturali. Le teorie della ‘post-crescita, di fatto, vogliono perpetuare l’attuale sistema, mentre i decrescenti (a mio parere) dovrebbero distinguersi per la presa d’atto della fine di un modello di civiltà. Nel libro Punto di svolta, il fisico Fritjouf Capra ritiene che stiamo vivendo la fine di una civiltà le cui tre problematiche fondamentali sono:
– la ridefinizione dei rapporti sociali uomo-donna con la graduale fine della soggezione patriarcale;
– la scarsità delle fonti energetiche fossili;
– il passaggio da una visione determinista-meccanicista a una olistica, nella scienza e nella sfera politica, economica e sociale.
La post-crescita prende in considerazione solo il secondo fattore perché si rende conto che è ineluttabile, e prova ugualmente a perpetuare il modello attuale; invece la decrescita deve invece considerarli tutti e tre insieme. Se non lo faremo, finiremo vittime di una delle tante rivoluzioni conservatrici capitate nel corso della storia.
di Igor Giussani