In attesa del Seminario su Agricoltura e Decrescita che si terrà a Portogruaro dal 22 al 24 marzo 2013 (e su cui torneremo più avanti), anticipiamo un interessante contributo. Quello di Massimo, Angelini, che farà la prima relazione del seminario stesso: “Agricoltura come relazione tra la cultura e il culto” perché non si può parlare di coltura (quindi “agri-coltura”) quando si genera la sterilità e si fa deserto.

Buona lettura!
SEMI DELLA TERRA, SEMI DELL’ANIMA

Un seme è il frutto del frutto. E a sua volta dà frutto, se marcisce.

È la fine della pianta e il suo inizio. Perciò unisce la vita con la vita attraverso la morte, unisce il prima e il dopo, la possibilità e l’atto realizzato, della pianta è nello stesso tempo participio passato e participio futuro, cosa la pianta è stata e cosa è per essere.

Proprio perché unisce e, compresenti, manifesta tempi diversi e diversi piani dell’essere, il seme è un simbolo.

Guardo una pianta anche per i semi che diventerà. Così i bambini, così le donne e gli uomini.

Chi manipola i semi gioca con la vita senza che la vita sia un gioco. Chi ne stravolge la natura, si fa dio dopo avere spento Dio dentro di sé. A Lui si vuole uguale, non più simile. Divide ciò che nel profondo è unito. Spariglia ciò che è ordinato. Lo fa senza pudore, non conosce la pietà, non conosce il limite. E, mentre lo fa, costruisce la sua perdizione e quella del mondo che vorrebbe ricostruire a sua misura, a immagine distorta di un delirio d’impotenza, di un desiderio pervertito, gonfio di un sapere senza sapienza.

Chi agisce così vive nel solo “qui e ora”, in un’apnea esistenziale grande come un punto senza dimensione, senza respiro.

Non vive tra le braccia di chi lo ha preceduto e tra le sue braccia non tiene chi è per venire.

Può tenere molte cose a mente perché il suo cervello è ipertrofico, ma ricordare quasi nulla perché il suo cuore scivola verso l’atrofia.

Invece, chi vive nel respiro del passato e sa di avere avuto padri, e padri dei padri, non ha l’ansia di innovare quello che c’è già, né di stravolgere quello che si è consolidato nel tempo lungo e attraverso il consenso delle generazioni; non tenta di ricostruire il mondo daccapo; non si sforza di essereoriginale a tutti i costi, nel bene o nel male. Spesso nel male.

Ha attenzione per cosa gli è stato consegnato, non lo perverte, non lo sciupa.

Riposa nel ricordo di chi l’ha preceduto.

E l’innovazione, l’avvicina con discernimento e la conosce sempre lenta e solo condivisa.

Allo stesso modo, chi vive nel respiro del futuro e crede che avrà figli, e figli dei figli, li accoglie nel suo ricordo, e non divora il loro piatto, non distrugge il loro mondo, non lo colora di steppa, non lascia esondare il deserto, non perverte la terra in discarica, né l’avvolge in un sudario atomico.

Perché chi è capace di fare questo è certo, è evidente, che è sterile nel cuore, che è come i frutti di questo tempo, gonfi, ignari delle stagioni, artificiosi e senza semi; è chiaro che tra le sue braccia non porta nessuno.

Agisce come se venisse dal nulla, degenera il nulla, viene meno nel nulla.

Ha smarrito la forma, forse è già legione, senza distinzione e senza nome.

Preservare i semi della terra senza imbalsamarli nell’ideologia, senza intossicarli, è un modo gentile per fare vivere il passato e il futuro, per farli vivere insieme, e per fare respirare.

Così la nostra anima, nel tempo.

da Massimo Angelini, Minima ruralia. Semi, agricoltura contadina e ritorno alla terra, Pentàgora, Savona-Milano (in uscita a settembre 2013): 142-143