La persona che ho accanto appartiene alle forze dell’ordine. Mi racconta le condizioni in cui è costretto a lavorare, amareggiato dai continui tagli che ormai riguardano un po’ tutti i settori pubblici, tanto che arriva a mancare la benzina nelle auto per i normali servizi. Nelle sue parole traspare pure lo sconforto di una logica dirigenziale, che sfiora talvolta il grottesco.
Siamo nei pressi di un’uscita autostradale nel Sud Italia. Il panorama che si dispiega è alquanto grigio e indecoroso: strade dissestate, cavalcavia che finiscono nel vuoto, palazzine abusive edificate nel niente, sporcizia e cumuli di rifiuti abbandonati, ragazzi neri, col viso sofferente, ai semafori con pacchi di fazzoletti sottobraccio, prostitute, capannoni dove trovi un po’ di tutto. Basta però alzare lo sguardo per ipotizzare gli sfarzi che hanno vissuto questi luoghi un tempo. Qua e là emergono fievoli tracce: castelli e torri spogliate in stato di completa incuria, lambiti dalla morsa cementizia delle cave, e della loro polvere sparsa ovunque da camion obsoleti e puzzolenti, traboccanti di ghiaia. E poi le cave abbandonate che fine fanno? Vengono lasciate là a depauperamento del territorio, quando non destinate a discariche abusive e quindi nuovamente a terreni coltivati. Qui il la terra non ha valore se non nella sua graduale e sistematica spoliazione. In questo abbrutimento prospera la spaccatura sempre più profonda, specie nei giovani, tra una cultura millenaria legata ai cicli naturali della terra e quella del soverchio, dell’inutilità messa in vetrina, dello status symbol come riscatto sociale. Ecco il primo passo verso la “colonizzazione dell’immaginario”. A permeare questa terra senza più radici culturali è l’inesorabile avanzata del progresso edonistico e distorcente, in cui l’uomo, l’ambiente e la stessa scienza è subordinata ai dettami del produttivismo e della crescita ad ogni costo.
Mi guardo attorno e rimango avvilito. Si nasce e si cresce in queste brutture, scollegati da quella parte sana delle tradizioni. Queste ultime anzi vengono squalificate in toto, concepite come arretratezza in contrapposizione al modello odierno, automatico e inattaccabile risultato della civilizzazione. Essere immuni in contesti simili da violenza o da depressione (che è pur violenza soffocata) lo trovo un miracolo, ed effettivamente molta parte della gente è miracolata. Ma se nelle nostre città vince chi fa la voce grossa, qui l’urlo squarcia la tela, provoca lo sconquasso dei valori, innesca una tellurica attrazione verso il furbesco adeguamento alla logica della supremazia. Il tipo di cammino sociale che oggi vedo ha fatto emergere quanto di peggio alberga nell’anima. Ma è proprio da qui, nell’intimo di ciascuno, che si potrebbe accendere quella silenziosa rivoluzione di consapevolezza di se stessi e del legame con l’ambiente circostante. Portare avanti la cultura della decrescita in questi luoghi rappresenza un elemento di rottura che confuta con pacatezza, perchè non oppone risentimento e non si concentra oziosamente sui mali, quanto piuttosto su soluzioni concrete. Si parla di decrescita felice e quando c’è la felicità non ci può essere violenza. La cultura della decrescita smaschera senza bisogno di incriminare, è una batteria di cannoni sotto i fiori, che fa scoppiare la pace vincendo sulla guerra. Che bello, penso, sarebbe veder fiorire libere iniziative di professori in pensione, contadini, artisti e artigiani che diffondono i loro insegnamenti a partire dai valori tradizionali di amore per la terra, per il sapere e il saper fare. Vedo come antidoto all’abbrutimento la diffusione culturale del recupero da un lato e dell’autentico progresso dall’altro, ponendo la donna e l’uomo al centro di una rete di cooperazione solidale di salvaguardia e valorizzazione.
Pensando a questo, un senso di sollievo si diffonde in me, così che nuovamente mi sembra di avvertire quel senso di appartenenza a questa terra, alle valli e al vento, alla storia, alla bellezza di questi frutti, piccoli e odorosi, che ora stringo tra le mani.
di Fabio Pasquarella